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Il pensiero dello scrittore

Dimenticare la libertà e tornare bambini, il nostro dramma secondo Kundera

Francesco M. Cataluccio

Era l’ultimo grande cantore dell’Europa centrale che sperava solo di tornare invisibile. Il vero umanismo della società si rivela attraverso la sua attitudine nei confronti della vecchiaia

Milan Kundera se n’è andato a Parigi (dove era emigrato nel 1975) all’età di 94 anni. Ma la sua voce si era spenta da tempo. Era del resto sempre stato un uomo molto riservato. In un’intervista a Philip Roth, aveva confessato: “Quando ero un ragazzino, sognavo un miracoloso unguento che mi avrebbe reso invisibile. Poi sono diventato adulto, ho iniziato a scrivere, e ho voluto avere successo. Ora che sono conosciuto vorrei avere un unguento che mi renda invisibile”. E’ stato un grande scrittore, uno dei più grandi della seconda metà del Novecento. Romanzi come Lo scherzo (1967), La vita è altrove (1973) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), e i racconti de Il libro del riso e dell’oblio (1978), tutti pubblicati in italiano da Adelphi, pur essendo cambiato profondamente il contesto storico nei quali sono nati, rimangono attuali per la bellezza della scrittura, la costruzione dei personaggi e la profondità delle riflessioni filosofiche. Tutti fanno i conti con la morte della cultura nella nostra epoca. Kundera si colloca nella grande tradizione del romanzo dell’Europa centrale. I suoi riferimenti costanti sono stati Kafka, Musil, Broch, Gombrowicz: “romanzieri meravigliosamente diffidenti verso l’illusione del progresso, diffidenti del kitsch della speranza. Il loro dolore per il tramonto dell’occidente, non un dolore sentimentale. E’ un dolore ironico”. 

Kundera ha portato l’Europa centrale all’attenzione dei lettori di quella dell’ovest, e l’ha fatto con intuizioni universalmente riconosciute nel loro fascino: il suo richiamo alla verità e alla libertà interiore senza la quale la verità non può essere riconosciuta, la consapevolezza che nel cercare la verità si debba essere preparati a scendere a patti con la morte. Questo è quello che chiamava “lo spirito di Praga”: “Il castello di Kafka e Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek sono pieni di questo spirito. Uno straordinario senso della realtà. Il punto di vista dell’uomo comune. La Storia vista dal basso. Una semplicità provocante. Un genio dell’assurdo. Umorismo con infinito pessimismo”. I romanzi, per lui, sono il racconto del caos del mondo, la vita con le sue contraddizioni, le luci e le ombre, mentre la filosofia, che amava profondamente, è il tentativo di dare un ordine: “La mia passione per la filosofia è tipica di un eclettico. Io non ricerco una verità: cerco la ricchezza di possibilità di vedere il mondo. La fenomenologia è il punto di incontro tra la filosofia e il romanzo. Essa è la filosofia delle cose che sono evidenti, prima che la scienza le matematizzi (…) In generale tutti i pensieri che arrivano troppo facilmente ad un sistema, a un dogma, mi ripugnano” . 

Tutti i protagonisti, maschi, delle storie di Kundera sono degli immaturi che non trovano nella realtà, nella Storia dal volto mostruoso, un luogo e un modo per realizzare pienamente la loro condizione umana. Egli sostiene che ogni sistema totalitario è una macchina che bambinizza gli adulti: dimenticare la libertà, la propria individualità, tornare bambini, smettere di occuparsi delle grandi questioni politiche: “I bambini non sono l’avvenire perché saranno un giorno adulti, ma perché l’umanità si avvicina sempre più a loro, perché l’infanzia è l’immagine dell’avvenire”. “Il nostro futuro non è l’infanzia ma la vecchiaia: il vero umanismo della società si rivela attraverso la sua attitudine nei confronti della vecchiaia. Ma la vecchiaia, l’unico futuro che ognuno di noi affronta”. Il merito di aver sollecitato una riflessione sul kitsch come “essenza del nostro tempo”: il kitsch è la riduzione di tutti i criteri di valutazione  delle azioni umane alla grandezza dell’effetto che producono. La trasformazione della razionalità nella crudeltà: “La crudeltà più terrificante è sempre connessa con la pretesa della letteratura di diventare, essa stessa, la guida illuminata della Storia”. Anche per questo fu molto polemico verso la letteratura russa. Non sopportava Dostoevskij, ma come Nabokov, amava molto Tolstoj: “Tolstoj è stato forse il primo a comprendere il ruolo dell’irrazionale nel comportamento umano. Il ruolo giocato dalla stupidità: ma, soprattutto, dall’irresponsabilità delle azioni umane guidate da un subconscio che è sia incontrollato che incontrollabile. Il primo autore del monologo interiore non è Joyce ma Tolstoj”. Kundera contrapponeva a Dostoevskij i romanzieri francesi che amava molto, come Rabelais e Diderot: gli pareva che fossero riusciti a fare una sintesi di dolore e ironia, razionalità e insensatezza.

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