(foto di Paolo Chiabrando su Unsplash)

(1939-2023)

Dall'avanguardia romana ai classici. Rita Tamburi era una regista che amava le sfide e il rigore

Roberto Barbolini

E' morta lunedì all'età di 83 anni: è stata una donna di teatro rigorosa nelle scelte e capace di sfide registiche mai avventate. Avrebbe senz'altro meritato più attenzione

"Gli italiani non sono un popolo razzista. Semplicemente, si odiano tra loro”:  mentre guidavo verso San Casciano in Val di Pesa in un tedioso pomeriggio d’inizio estate, diretto al Teatro Nicolini, rimuginavo su quel sottotitolo paradossale, secondo solo ai versi ilari e feroci di Toti Scialoja (“Il sogno segreto / dei corvi d’Orvieto / è mettere a morte / i corvi di Orte”) nel sottolineare una delle nostre più rinomate caratteristiche, la Schadenfreude campanilista, e mi chiedevo che razza mai di spettacolo sarebbe stato Sa razza (La razza in sardo). A consigliarmelo era stato Giuliano Ferrara, ovvero il direttore in persona:  l’unico suo garbato suggerimento alla mia attività di recensore teatrale di Panorama, in quel memorabile 1997 in cui Giuliano passò come una meteora per i corridoi di Segrate lasciando una traccia indelebile e un grande rimpianto. Devo dunque a lui, fra le altre cose, la scoperta di Rita Tamburi, che da Sa razza di Giordano Raggi – storia più che mai attuale di tre militari di leva che per punizione sono finiti di vedetta su una spiaggia pugliese dove si paventa lo sbarco d’una nave di profughi albanesi – tirò fuori uno spettacolo sobrio e lucido sull’intolleranza, in un sapiente crescendo di tensione.

 

Fu una rivelazione: nonostante un rispettabile background di spettatore non pagante (“E’ la stampa, bellezza!”), fino a quel momento avevo colpevolmente ignorato l’attività di Rita Tamburi, scomparsa ieri l'altro a Roma all’età di 83 anni per un malore improvviso. Colpa mia, lo ripeto: nata a Roma il 9 settembre del 1939, proprio nell’humus fertile dell’avanguardia romana Rita aveva mosso i primi passi  nel mondo del teatro già a partire dagli anni Settanta, lavorando come attrice per Memè Perlini. Il passaggio alla regia si verifica nell’81 con Eva futura da Villiers de l’Isle-Adam; ma è con l’allestimento del Sogno di Strindberg nel 1983 che il suo nome s’impone all’attenzione della critica. Da qui un inanellarsi di titoli, da classici come l’Antigone di Sofocle al Cigno nero di Walser, da Joyselle di Maeterlinck ad Amara di Rosso di San Secondo, senza dimenticare Brecht (Geherda) o la giovane drammaturgia italiana, e con un occhio sempre vivo al teatro di poesia, fin dalla messa in scena nel 1986 dell’atto unico Amor proprio di Luca Archibugi.

Con Rita Tamburi scompare una donna di teatro rigorosa nelle scelte, rispettosa del lavoro dell’attore e insieme capace di sfide registiche mai avventate. Che forse avrebbe meritato più attenzione se anche il mondo del teatro non soggiacesse spesso alla ferocia allitterante dei corvi di Toti Scialoja.

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