(foto LaPresse)

Rito e piacere

Il melodramma, o un'identità nazionale. “Gran teatro Italia” di Alberto Mattioli

Federico Freni

La storia di palchi e palchettisti coincide con l’evoluzione sociale e culturale del paese. Il volume uscito per Garzanti è un viaggio nei teatri d’Italia alla scoperta di un mondo ancora oggi molto più vivo di quanto lo si rappresenti

Raccontava mio nonno che quando suo padre (in un momento imprecisato dei primissimi anni del ’900) dovette conquistare quella che sarebbe poi divenuta sua moglie risolse l’impasse guardandola con una certa intensità e dicendole “or dunque amiamoci donna celeste”. Una frase che oggi potrebbe dire poco o nulla e che certo non sarebbe usata a fini di conquista direi da nessuno. Chi frequenta i teatri d’opera sa bene che la Scala non è solo un teatro, e neppure il San Carlo, la Fenice, o il Costanzi: sono, tutti, piccoli ecosistemi culturali e sociali che, nel teatro del gran mondo, hanno segnato con inchiostro indelebile la vita e lo sviluppo delle nostre città, grandi e piccole, e dei loro abitanti. La storia di palchi e palchettisti (e talvolta anche degli specchi che nei palchi erano sistemati) è la storia dell’evoluzione sociale e culturale del paese: di un’Italia che andava a teatro anche cinque volte a settimana, con stagioni che seguivano rigorosamente il calendario liturgico, in un’ottica di sociale; è la storia di un sistema culturale orizzontale e inclusivo, che ha cementato l’essere patria assai prima dei modelli politici.

 

È la storia della paglia stesa sulla strada perché le carrozze non disturbassero Verdi morente; è la storia di un mondo che vedeva il melodramma al centro della vita sociale, di un mondo che viveva in una simbiosi naturale con i suoi artisti. Se Verdi, nell’iperbole dannunziana, era colui che pianse e amò per tutti, così il vasto ed eterogeneo mondo dei teatri d’opera era luogo eletto di aggregazione sociale. Un’aggregazione multiclasse, fatta non solo di musica, ma anche di chiacchiere, amori e, perché no, maccheroni lanciati dal palco reale verso il pubblico di platea (ben lieto, peraltro, di riceverli). Alberto Mattioli questo complesso ed eterogeneo universo riesce a condensarlo in un volume (Gran Teatro Italia. Viaggio sentimentale nel paese del melodramma, Garzanti, 192 pp., 16 euro) che si legge d’un soffio: un viaggio (sentimentale, appunto) nei teatri d’Italia, alla scoperta di un mondo ancora oggi molto più vivo di quanto lo si rappresenti. Un libro godibile anche grazie a un’aneddotica trascinante, figlia di una esperienza che conta all’attivo dell’autore molte più recite delle conquiste di Don Giovanni (Leporello si fermava a sole 1.003, qui siamo quasi a 2.000, si parva licet!).

 

Non è, quello di Mattioli, un libro per le élite parruccone e occhialute (non solo, almeno), c’è posto per tutti in questo immaginifico gran tour: il teatro è il luogo di tutti e l’opera è il mondo dove ciascuno può ritrovare un pezzetto di sé. Un viaggio del cuore attraverso vizi, stranezze, virtù e bellezze dei nostri teatri (e del pubblico che, in ogni città diverso, li riempie). Un libro che ci aiuta a ricordare che il teatro d’opera è materia viva e pulsante, lontana dai belletti e dalla crinolina in cui troppo spesso lo si vuole ingessare; un libro che ci aiuta a non dimenticare che l’opera è parte integrante del nostro essere italiani (e, perché no, anche europei). Un libro delizioso e (finalmente) a tratti anche politicamente scorretto, scritto da un autore libero nei giudizi come solo i veri uomini di cultura sanno (e possono) essere. Un libro da leggere anche per ricordarci quanto sia bello essere italiani. P.S. La frase che uso il mio bisavolo… nemmeno a dirlo, è quella che il Duca di Mantova usa, tra le altre, per concupire Gilda, nel I atto del Rigoletto di Verdi.

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