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Il Foglio del weekend

Le opere di Rachel Feinstein esposte in tre diversi musei a Firenze

Fabiana Giacomotti

Chiacchiere sul “David” censurato e la patina social che avvolge tutto. Il rapporto sperequato e censurato della cultura contemporanea con le molte fasi della vita è alla base del rapporto distorto con la bellezza e la sua percezione

Visto che Rachel Feinstein lavora la propria arte senza riguardi per le parti meno gradevoli dell’esistenza e le manifestazioni più crude del corpo, non mi faccio scrupoli e prima ancora che ci servano un bicchiere d’acqua, necessarissima nell’unica giornata di caldo fiorentino di un mese di giugno meteorologicamente disgraziato, le chiedo che cosa significhi per lei esporre in contemporanea nei tre musei più suggestivi della città, il Bardini, il Marino Marini, Palazzo Medici Riccardi, poche settimane dopo che un gruppo di genitori della Florida dov’è cresciuta ha definito il David di Michelangelo pornografia. Per i pochissimi che non lo ricordassero o non avessero letto nulla, l’episodio ha provocato vibrate proteste internazionali, un invito del sindaco Dario Nardella all’insegnante licenziata ad ammirare la statua dal vivo e in tutti gli italiani l’insopprimibile convinzione che gli americani siano davvero una nazione molto giovane. Rachel Feinstein risponde che è una cosa da pazzi, e questo c’era da aspettarselo; però puntella l’osservazione con un lungo ragionamento sul ruolo dei social media nel processo di dissociazione fra la vita e la morte, fra il corpo nella sua realtà vile cioè imperfetta e quello delle immagini irreali filtrate da Instagram e da TikTok, per cui ci mettiamo comode e andiamo avanti a discutere di “fake icons” per una buona mezz’ora, lei in realtà anche un po’ costretta a stare seduta per via di un incidente sugli sci dal quale non si è ancora rimessa. 

Le conservatrici del Museo Bardini raccontano ammirate che, nelle ultime settimane, Feinstein ha seguito l’installazione delle proprie opere, fra le quali una Pietà dal volto di legno spaccato dipinta su uno specchio nel quale si riflette il celebre Crocifisso ligneo medievale della sala al primo piano, salendo e scendendo i gradini del palazzo, un tempo chiesa e convento di san Gregorio della Pace, con il solo aiuto delle stampelle e di un paio di sneaker, cioè senza mai prendere l’ascensore. La tempra d’acciaio sotto il volto d’angelo ai fiorentini piace tantissimo, d’altronde basta vedere la reale venerazione che riservano a Eleonora di Toledo, di cui hanno studiato ogni lettera e analizzato anche il più infinitesimale lembo di stoffa trovato nella tomba. Feinstein veste da capo a piedi Gucci, main sponsor della mostra, curata con sapienza da Sergio Risaliti, direttore del Museo del Novecento: “Che peccato dover restituire questa”, osserva indicando un modello di borsa Jackie in paglia intrecciata blu, pezzo unico degli Anni Settanta, gentile prestito dell’archivio Gucci di Palazzo Settimanni. 

Prima ancora di impersonare un progetto artistico – resta celebre la sua performance “Let the artist live” del 1994 alla Exit Gallery di New York in cui dormì per una settimana in vetrina in un letto di raso trapuntato rosa, un rimando alle favole da cui trae da sempre ispirazione ma anche a una celebre performance di Salvador Dalì al New York World’s Fair del 1939 – Feinstein è stata modella. Le piace la moda, non ha le stesse ritrosie delle artiste italiane nei riguardi di un abito da sera, non crede che per sembrare vere artiste ci si debba infilare in un sacco di cotone riciclato tinto a mano e ciabattare per la città con i talloni screpolati. Non ritiene la modernità un male e il culto dell’antico necessariamente un bene; però è anche convinta che la progressiva cancellazione dell’antico, applicata da anni con metodo e costanza negli Stati Uniti, stia provocando danni incalcolabili: “Instagram e i social media ci stanno facendo perdere la connessione con il passato. E’ tutto qui e ora. In Europa fate fatica a capirlo perché vivete circondati dai simboli del vostro passato, dall’arte, dal racconto di chi e di che cosa è stato. Non riuscite a separare passato e presente perché vivete immersi in entrambe le dimensioni. Per noi è diverso”. Diverso è anche per lei, cresciuta “a Miami dove negli Anni Settanta non c’era neanche un museo”, e che pure lavora da sempre sull’essenza materiale, carne e sangue e fluidi, del corpo. Non è un caso che della immensa scuola rinascimentale italiana ami Donatello, il suo David “sottodimensionato”, polito e levigato come fosse lucido di sudore, sessualmente ibrido, e la Maddalena penitente del Duomo “che invece è sovradimensionata, scabra, secca, e ti costringe a confrontarti con il dolore della tua stessa esistenza”. 

Allieva di Kiki Smith e della sua esplorazione anche brutale del corpo femminile come specchio della società, Feinstein non si è mai posta limiti nella contaminazione: come in uno specchio distorto del sogno americano, la sua opera mescola un’incredibile varietà di riferimenti: il barocco e le carte da parati neoclassiche, il Rinascimento e il pop, l’arte religiosa e l’architettura Deco. Trova intrigante la dimensione surreale di Disneyland e in particolare l’aspetto distopico del parco di Orlando, che racconta di aver visitato un numero infinito di volte, e lavora da anni e senza reticenze il lato oscuro e sul valore culturale comune, primigenio, delle favole (resta celebre una sua chiacchierata con Tom Ford sull’impianto originario della fiaba della bella addormentata, cioè pre-Grimm, che non viene affatto svegliata dal principe con un bacio, ma violentata da lui e ancora nel sonno genera due gemelli “qualcosa che adesso non sarebbe tollerabile nemmeno raccontare agli adulti, ma che spiega molto del valore della vita e della potenza generativa femminile”). La visione delle sue opere e dei suoi dipinti provoca reazioni simili a quelli di Bosch: l’elemento disturbante è nascosto, emerge a uno sguardo più attento, eppure provoca un’immediata tensione in chi li osserva, come se l’occhio del cuore, e della mente, intercettasse l’essenza prima dei sensi. Quello che manca, quello che non si vede, è l’elemento ultimativo. 

Proprio per questa sua capacità di sovrapporre e mescolare segni e al tempo stesso di continuare a ricercare l’origine comune in alcune icone, a partire da quella della madre col bambino “che non è un’immagine solo cristiana, ma rimanda al senso profondo della vita e della sua continuità nella morte: ogni madre che allatta il proprio figlio è già consapevole della caducità dell’essere perfetto che ha generato”, Feinstein è anche convinta che il processo dissociativo operato dai social media sul “cervello dei ragazzi dell’ultima generazione” non abbia ancora completato la propria opera, e che stia provocando danni fisici e psichici non quantificabili e in buona parte incomprensibili dalle generazioni precedenti che li hanno determinati. Cioè noi, i loro genitori: Rachel Feinstein e suo marito, l’artista John Currin, conosciuto dopo che per anni tutti le avevano detto quanto assomigliasse a una delle sue opere e in effetti è così, hanno tre figli, tutti ancora in età adolescenziale, e lei pare particolarmente preoccupata dell’effetto a lungo termine della loro esposizione ai social: “Bisognerebbe riuscire a staccarli dagli smartphone, farli uscire da quelle stanze; non avere connessione con la vita reale è pericoloso, e noi stessi ancora non sappiamo come si sia sviluppato il cervello di questi ragazzi perché la loro è la prima generazione interamente digitale”. Fosse per lei, i ragazzi dovrebbero svolgere tutti un bel periodo di servizio civile per riprendere contatto con l’esistenza. Mollare quegli schermi, rendersi utili al prossimo e a se stessi. 

Si tratta di un approccio molto lontano da quello che si valuta adesso da questa parte dell’Atlantico, del rapporto fra i giovani e le nuove tecnologie, un approccio pratico e poco pietistico, e che però risponde perfettamente anche all’altro grande interrogativo sul rapporto fra i giovani e la vita che ci pone il periodo che stiamo vivendo, e cioè la loro totale incapacità di concepirne quel prolungamento progressivo che è la vecchiaia e poi estremo che è la morte. Feinstein sa nulla dell’omicidio di Giulia Tramontano che ha sconvolto l’Italia nelle ultime settimane per via dell’apparente insensibilità del suo compagno nel darle la morte, del distacco emotivo di cui ha dato prova e che non è certo l’unico a cui si sia assistito negli ultimi mesi. Però conosce bene l’aumento dei massacri perpetrati nelle scuole dagli adolescenti americani, in un apparente e ma anche sostanziale scollamento fra la percezione della morte e la sua messa in pratica come se fosse una messinscena o un gioco di ruolo, avulso dalla realtà, dal dolore, dall’esistenza reale. Anche questo, lascia capire, è il tassello di un puzzle di cui fa parte il grottesco rifiuto della nudità di David. “L’immediatezza dell’immagine a cui ci espongono Instagram e in genere i social media ci rende difficile confrontarci con la verità di un corpo non modificato dai filtri, perfino di un corpo riprodotto e scolpito nella pietra, eppure conturbante perché fatto a somiglianza della realtà. 

“Anche prima che intervenissero Instagram e i social media con le loro immagini ritoccate, dove la vecchiaia non esiste e quando c’è viene modificata, la cultura occidentale ha operato progressivamente un distacco dalla morte. Nessuno vuole pensare alla realtà della morte. Nell’induismo, la morte è qualcosa di molto reale, qualcosa che si vede, che si tocca, che coinvolge tutta la famiglia. C’è questo corpo privo di vita che la famiglia prepara per la cerimonia funebre, che lava e profuma e avvolge nei panni, i bambini lo vedono, sanno che la morte va accettata e celebrata come momento della vita. Nella nostra cultura ormai non vedi nessuno morire realmente; gli anziani tendenzialmente non vivono più con te, vivono in strutture lontane dalla tua casa e dai tuoi gesti. Per questo, quando inizi a invecchiare e a cambiare, sei terrorizzato, perché non hai riferimenti, esempi con cui confrontarti”. Ribatto che, fuori dalle grandi città, l’Italia conserva ancora un rapporto con i suoi vecchi che, anzi, contribuiscono non di rado al mantenimento dei più giovani. In linea di principio, però, non posso che darle ragione. “Davvero, in Europa hai più il sentimento, l’idea dello scorrere del tempo perché vivi circondato dalla storia. Negli Stati Uniti l’antico viene cancellato, erased”. 

Questo rapporto sperequato e censurato della cultura contemporanea con le molte fasi della vita è anche alla base del nostro rapporto distorto con la bellezza e la sua percezione. “Un collezionista delle mie opere mi chiede perché i miei angeli (le sue sculture femminili, nda) non siano tradizionalmente belli, perché sembrino presi a botte. Rispetto la sua opinione, ma da donna so bene di che cosa sia fatto il mio corpo, delle modificazioni che le gravidanze, l’età, l’esperienza, tutte le cose che escono dal mio corpo gli provocano e gli impongono, inevitabilmente. La bellezza è una totalità di esperienze, e quelle esperienze lasciano tracce. Gli uomini vorrebbero donne perfettamente levigate, esteticamente flawless, senza segni, insomma fittizie, proiezioni dei loro desideri. E i social media avallano e rafforzano questa percezione, fornendo ogni giorno nuovi strumenti per modificare la realtà, convincendoti che quello che vedi è vero, quando in realtà non lo è. E’ arrivato il momento di spezzare questo sistema, di spiegare ai ragazzi che quello che vedono sui loro schermi non è la realtà, è solo facciata, la parte di un tutto che non conoscono e che non intuiscono nemmeno, e che la tizia tanto bella che sbirciano al party, una volta finita la story tutta sorridente andrà in bagno a vomitare”.

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