Il rovesciamento di Marcello Veneziani, da viva Jan Palach a forza Putin

Luciano Capone

Per anni lo scrittore di destra ha esaltato l'Eroe di Praga, simbolo della lotta per la patria e la libertà contro l'oppressione di Mosca. Ma per l'Ucraina non vale, perché ora al Cremlino c'è un bel fascistone anziché la bandiera rossa

Non sorprende in certi ambienti di destra il sostegno implicito, seppur preceduto da formule di rito, a Vladimir Putin. D’altronde con lui hanno in comune tutto l’armamentario contro Europa, establishment, mainstream, gender e radical chic (Rampelli più che dal linguaggio della burocrazia dovrebbe fare qualcosa per espungere i foriesterismi dagli slogan, pardon dai motti, della destra). Ciò che invece sorprende è che siano alcuni specifici intellettuali, tra i pochi che la destra è in grado di esprimere, come Marcello Veneziani.

 

In una recente intervista alla Stampa, lo scrittore pugliese ha dichiarato che sulla guerra in Ucraina ha “un’idea diversa da quella irregimentata nell’establishment italo-euro-atlantico”, “un’idea diversa delle cause, delle responsabilità, della sordità americana, e di riflesso europea, a perseguire linee alternative alla guerra”. Per carità, non è neppure un’idea originale e così eterodossa: è una visione del mondo comune agli appassionati di “geopolitica” e di Risiko, che considerano gli interessi delle grandi potenze e l’importanza dei gasdotti ignorando i diritti dei piccoli stati e le volontà delle loro popolazioni. Ciò che sorprende non è quindi la preferenza per il realismo sull’idealismo, ma il ribaltamento di una visione del mondo.

 

Quindici anni fa Veneziani pubblicò un libro dal titolo “Rovesciare il ’68” in cui esaltava la figura di Jan Palach: “L’unico sessantottino che scontò la protesta sulla propria pelle. Gli altri incendiarono il mondo pensando a se stessi, lui incendiò se stesso pensando al mondo”. In molti altri scritti Veneziani ha contrapposto il patriota cecoslovacco all’indifferenza e al cinismo dei giovani e degli intellettuali di sinistra dell’Occidente di fronte all’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Per Veneziani il “purissimo eroe della Primavera di Praga” incarnava la lotta per la libertà e l’indipendenza nazionale dall’oppressione di Mosca: “Quel gesto scosse i miei tredici anni e mi spinse all’impegno militante – scrisse – Compresi quanto abissale fosse la differenza tra chi metteva in gioco tutto se stesso nel nome della patria e della libertà e chi da noi si limitava a mettere in gioco la libertà borghese altrui di andare a teatri o indossare le pellicce”.

 

Non si capisce perché, ora che a fronteggiare i carri armati russi ci sono gli ucraini, stavolta senza che l’Occidente si sia voltato dall’altra parte, il ragionamento si ribalti. I giovani ucraini che sacrificano la loro vita per l’indipendenza nazionale non sono come Jan Palach, né Volodymyr Zelensky è un patriota come Imre Nagy ai tempi dell’invasione dell’Ungheria: è invece un “guitto e liberticida” che fomenta il conflitto per trasformarsi in “eroe di guerra e insieme eroe umanitario, nonché statista”.

 

Non si capisce perché le canzoni che Veneziani da giovane cantava per i ragazzi di Budapest e Praga, (“Sei giorni e sei notti di gloria / durò questa nostra vittoria / al settimo sono arrivati / i russi con i carri armati”, oppure “Primavera di libertà / carri armati nelle strade / Il sangue a Praga è sparso al vento / quanto orrore in quel momento”) ora non valgano per quelli di Kyiv. Non si capisce perché la logica dei blocchi che allora veniva criticata perché sacrificava il desiderio di “patria e libertà” dell’est Europa, oggi ritorni nel pensiero di Veneziani sotto forma di “area d’influenza fino ai confini della vecchia Russia zarista e sovietica”. Allora no, ma ora è una questione che riguarda il cortile di casa russo: “Questa guerra è tra due popoli affini – scrive Veneziani sull’invasione dell’Ucraina – è un conflitto dentro la Russia, o tra la Russia e il suo confine. L’Europa non c’entra”.

 

L’indifferenza dell’Occidente, che nelle invasioni sovietiche del 1956 e del 1968 era solo vigliaccheria ("I carri ci schiaccian le ossa / nessuno ci viene in aiuto / il mondo è rimasto a guardare / sull’orlo della fossa seduto”), ora per l’invasione dell’Ucraina diventa una virtù: “L’Europa dovrebbe ritirarsi dal conflitto e dalla fornitura d’armi”, ha scritto Veneziani di recente sulla Verità. E che vadano a farsi fottere gli ucraini che, come Jan Palach, desideravano “patria e libertà”.

 

Vedere Veneziani ragionare come i sessantottini messi alla berlina nel suo “Rovesciare il ’68”, questo sì è un bel rovesciamento: l’intellettuale di destra è indulgente verso Mosca perché c’è un bel fascistone come Putin, così come lo erano gli intellò di sinistra perché sul Cremlino sventolava la bandiera rossa. Come aveva brillantemente sentenziato anni orsono Maurizio Crippa, parlando proprio di Palach e Putin, “Veneziani è uno di quelli che facevano gli anticomunisti, ma non per la libertà. Perché era fascista”.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali