Ernesto Galli della Loggia (Ansa)

L'intervista

Il dibattito politico (inutile) su via Rasella. Galli della Loggia dirada la nebbia

Maurizio Crippa

L’obiettivo strategico fallito, la responsabilità dei Gap, la teoria dell’insurrezione non condivisa nel Cnl. 79 anni di visioni miopi e parziali: ma oggi si può dare un giudizio preciso, distante dalla minimizzazione e dalla rivendicazione

C’è la “sgrammaticatura istituzionale”, se davvero è possibile diluire nell’eufemismo di Meloni lo strafalcione di La Russa. E c’è una sgrammaticatura storica, e politica, che riguarda via Rasella. La sgrammaticatura che da 79 anni, nonostante vicenda e contesto siano acclarati, costringe gli italiani in due visioni miopi e parziali. La prima di chi condanna come inutile strage l’attentato dei Gap, organizzato e rivendicato dal Partito comunista. La seconda sostenuta per decenni dalla storiografia-agiografia più o meno ufficiale della lotta partigiana, che fa dell’attentato del 23 marzo 1944 una delle cifre più simboliche della guerra di Liberazione. Di via Rasella, ha scritto ieri Giuliano Ferrara, “si sa tutto quel che si può sapere, e il resto è nebbia di guerra”, perché “nelle guerre per bande, o guerre civili, si manifestano le incertezze e le tragedie del potere”. Gli storici, anche quando hanno mantenuto punti di vista opposti, quella nebbia di guerra l’hanno ormai diradata, è l’opinione di Ernesto Galli della Loggia: si può dare di via Rasella un giudizio preciso, distante tanto dalla minimizzazione quanto dalla rivendicazione. “Via Rasella fu un tipico esempio della strategia ‘la parola alle armi’ adottata dal Partito comunista fin dall’8 settembre: creare le condizioni per arrivare a un’insurrezione armata generale”.

 

Spiega Galli della Loggia: “Tutti gli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale, tranne o almeno in parte il Partito d’azione, non erano pronti all’entrata in clandestinità e alla costituzione di gruppi armati. A questo si aggiungeva una differenziazione delle posizioni, e non soltanto di quelle cattoliche, restie alla violenza per motivi morali, rispetto alla entità del ricorso alle armi nel quadro di un conflitto civile. Ma fin dall’inizio la bestia nera del Pci, l’arma ideologica di propaganda, fu ‘l’attesismo’, termine con cui erano liquidate tutte le posizioni ritenute non funzionali al programma di insurrezione generale”. L’attentato di via Rasella ebbe però una portata diversa rispetto ad altre azioni militari. “La tecnica di compiere attentati per indurre l’insurrezione della popolazione era soltanto del Partito comunista. Nella sua visione l’insurrezione di Roma era decisiva, raggiungere la liberazione della capitale tramite una rivolta popolare guidata dai partigiani, e non grazie all’esercito alleato, era un obiettivo politico cruciale”. Non andò così, e proprio la mancata (o inversa) reazione della popolazione è la cartina di tornasole usata dai critici contro i promotori dell’attentato. Si è molto discusso sulla legittimità dell’attentato, ma la banalizzazione operata da La Russa è sbagliata, dice lo storico: “Via Rasella era un atto di guerra, un atto terroristico, certo, come lo furono molte altre azioni di guerra in quel conflitto. Che le vittime non fossero SS ma ausiliari o altro non cambia la sostanza: erano occupanti nemici, su questo è inutile discutere. Il vero problema che non va negato, spiega Galli della Loggia “è che dal punto di vista militare e strategico via Rasella fu un’azione sbagliata, fu un fallimento. E non solo per l’entità terribile della rappresaglia, e perché morirono anche dei civili. Ma perché la brutalità della reazione nazista, sommata al durissimo dibattito critico scoppiato nel Cnl, di fatto paralizzò il lavoro della Resistenza romana. Altro che provocare un’insurrezione generale: dopo il 23 marzo non ci fu più un’azione partigiana”.

 

Si può dire che questo effetto contrario fu responsabilità del Partito comunista e dei Gap? “Non fu una decisione condivisa, ma anche questo va inquadrato nel contesto storico: di fatto a Roma le uniche forze armate della Resistenza erano i Gap, quasi tutti universitari e attivi nel centro della città, formati da pochissime unità. Poi c’erano le squadre di Bandiera rossa, d’ispirazione trotskista, più numerose e attive nelle periferie. Ma via Rasella fu un’azione dei Gap, di cui Giorgio Amendola si assunse poi la responsabilità. Molti anni dopo Paolo Spriano, nella sua ‘Storia’ del Pci, dedica una parentesi asciutta alla vicenda, senza avanzare giudizi diversi da quelli ufficiale del Pci”. Per il resto, quale giudizio politico e storico fu dato alla scelta di compiere l’attentato? “Nel resto dei partiti della Resistenza non fu mai accettata l’impostazione tipica dei gappisti, quella del terrore per fomentare l’insurrezione. E ancora meno fu accettata la pratica dell’uccisione della singola persona – fosse un funzionario fascista o un militare, a parte il caso delle spie. Quando i Gap, autonomamente, uccisero a Firenze Giovanni Gentile il dissenso fu anche maggiore, si arrivò a una vera scissione nel Cln”. Le parole di Ignazio La Russa, al di là del contenuto e del tono censurabile, indicano però che ancora oggi per una parte della sinistra mettere in luce i limiti e gli errori di via Rasella è impossibile. Suscita sdegno. Perché? “Il punto da comprendere è la ‘partitizzazione’ della Resistenza, che non fu mai un fenomeno unitario. I gruppi militari, di fatto, ricevevano ordini direttamente dai propri partiti. La tecnica dell’insurrezione rimase specifica dei comunisti, che avevano un disegno politico che andava ben oltre la caduta del nazifascismo. Ricordare questo aspetto, e la pluralità di visioni, per qualcuno è ancora un tentativo di negare il carattere unitario della Resistenza. Ma è un dibattito tutto interno a una politica a corto di idee. Siamo un paese senza futuro, che per questo continua a litigare solo sul passato, esercizio inutile”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"