Foto di Olycom 

il discorso

La “Rondanini” di Michelangelo. L'amore, il dolore, la pietà

Riccardo Bacchelli

Capolavoro poetico e mistico del “non finito” e del “non finibile”. Oggi si discute se spostarla, settant’anni fa arrivava a Milano. Ad accoglierla c’era, fra gli altri, Riccardo Bacchelli

Ultima opera di Michelangelo, la “Pietà Rondanini” l’autunno scorso è stata al centro di una polemica, durata in verità lo spazio di un mattino. Vittorio Sgarbi, pochi giorni dopo la nomina a sottosegretario alla Cultura nel governo Meloni, si era espresso per un ritorno della statua nella collocazione originaria, in una nicchia della sala degli Scarlioni nel Castello Sforzesco di Milano. La “Pietà”, aveva replicato il sindaco Giuseppe Sala, sta bene dov’è, ovvero nello spazio che dal 2015 le è interamente dedicato nell’antico ospedale spagnolo, sempre tra le mura del Castello Sforzesco. In questa pagina ricordiamo un altro spostamento, più radicale: quello con cui nel dicembre 1952 la “Pietà Rondanini”, acquistata attraverso una sottoscrizione pubblica dal Comune di Milano, da Roma giunse nel capoluogo lombardo. Ecco il discorso pronunciato da Riccardo Bacchelli per l’occasione


 

Con la Pietà, ultimo marmo di Michelangelo, che appartenne lungo tempo alla pregiata collezione dei marchesi Rondanini, la città di Milano aggiunge al suo patrimonio artistico e culturale un’opera, o Milanesi, che per virtù di scalpello e di stile e di concetto non ha superiori al mondo; ma per suo più singolo che raro carattere poetico, non ha uguali, unica e sola.

Del resto, poetica e patetica è ben anche la sua storia d’ultimo marmo, di marmo degli ultimi giorni del Buonarroti, in cui s’infisse, indomito fin quasi all’ultimo respiro di lui, il più prodigioso scalpello, fatto, in questa pietra, tutt’uno, miracolo d’altissimo genio, col più puro anelito umano e col più sublime afflato spirituale del creatore, nella Sistina, del gesto con cui la destra dell’Onnipotente infonde la vita e l’anima nella destra di Adamo, languida ancor del sonno nell’increato senza memoria e senza tempo.

Ma non basta dire, Milanesi, che la città fa un grande e un unico acquisto. Intanto, è buona, sana, provvida cosa nei riguardi della civiltà e tradizione italiana, fatta di una libera e diversa concorrenza di libere e diverse originalità di caratteri e d’intraprendenze cittadinesche; è buona e provvida provvisione questa d’una città, di un comune, che si prende l’iniziativa d’acquisirsi, nell’odierna crescente insufficienza e impossibilità dei privati a mantenere il possesso e l’uso e il peso di una tanta opera d’arte, questa, ch’è stata la più insigne appartenente a collezione privata, fino a ieri.

Dunque, l’acquisto della Pietà Rondanini fa storia nella storia del nostro costume civile, sì del comune e sì della nazione, della nostra civiltà, delle umanità nostre. Né l’acquisto viene soltanto ad accrescere il patrimonio artistico e culturale cittadino, mirabilmente ma per così dire estrinsecamente: esso aggiunge e ha e crea, ben intrinseco, ben intimo, un valore spirituale, che a essere davvero e pienamente e vitalmente avverato vuole anzitutto piena e intima coscienza, e del fatto in sé e del valore dell’opera.

La traslazione della Pietà dalle rive del Tevere onuste di tanta bellezza e grandezza eterne, a questo antico e moderno quadrivio padano delle vie, mediterranee e alpine, della storia e d’Europa e d’Italia e d’Europa in Italia, è un evento del pari solenne e caro, che muove l’affetto così come la venerazione, e, insieme, grave tenerezza e severo timore reverenziale.

Tale l’ha sentito, dandone e affettuosa e solenne testimonianza, in un nobile pellegrinaggio di congedo e d’ammirazione e di alta e serena mestizia, la popolazione di Roma nel salutare un’opera, l’opera, della quale si dovrebbe dire impoverita Roma, se Roma potesse impoverire in questo campo delle arti.

E non sarebbe poi vero, se lo si dicesse, anche e soprattutto e specialmente perché quest’ultimo creato del Buonarroti trascende contingenze di luogo e di tempo, di costumi, di gusti, di scuole, attingendo al suo proprio stile con l’andar oltre ogni stile determinato, oltre lo stesso stile michelangiolesco. In questo carattere di spiritualità essenziale, di un’ascetica semplicità sì d’arte che d’umanità, tanto estetica quanto religiosa, fulge e si sublima questo stile, spogliando marmo e spirito d’ogni contingente veste e abito, sicché in ogni tempo e luogo, finché e ovunque sussista nel petto d’un uomo l’immanente idea del bello e del sacro all’immortale poesia, la Pietà desterà il palpito spirituale che solleva e profonda l’uomo in se stesso di là da sé, nel fulgore di quell’idea. E questa è opera che in ogni tempo e luogo, e in ogni uomo, parla universale e a tutti, per sempre.

Pertanto ben può riceverla da una Roma non impoverita, Milano che di tanto n’è arricchita: Milano la grande, della storia sua d’imperial metropoli romana, di cattedra vescovile d’un Ambrogio, di possente città feudale, di rigoglioso comune, di splendida signoria rinascimentale; Milano, sempre sede e focolare di nobile civiltà italiana ed europea, pur nella lunga soggezione politica, che non distrusse, che forse maturò e stimolò la forza e la figura della Milano dell’Ottocento, risorgimentale e romantica, che d’Italia moderna è stata così operante ed efficace fattore. Questa Milano, dalla storia sua illustre e feconda, questa accoglie e assiste l’evento della traslazione presente, e desidera, o Milanesi, che noi se n’abbia coscienza degna, onorandolo e festeggiandolo con l’austerità di un giusto orgoglio e con la festevolezza d’una reverente umiltà.

Rifacciamoci dall’umiltà, anzi dalla modestia, perché questo stupendo sbozzo nel marmo d’una colonna antica, in cui già il Buonarroti aveva scolpito un gruppo precedente; questo ardimento già di per sé terribile e consentito soltanto alla maestria e alla pratica di un Michelangelo quasi novantenne e fino a cinque giorni prima della morte più che mai pieno – n’è testimone il sasso della Pietà – di genio e d’energia sovrumani; questo sbozzo, supremo portato della passione michelangiolesca per il “non finito”, non è, di primo acchito, tutto di facile lettura e intelligenza: benché, letto che sia, proprio in quel che v’è di più arduo e scabro e arcano, e nel “non finito” stesso, non si termini più d’intelligervi senso e valore e come un canto d’infinità.

“Fu necessario”, dice il Vasari, procurare al gran vecchio un marmo, che fu questo della Pietà, perché potesse ogni giorno passar tempo scalpellando: e fu necessario, per quell’ansia indomita, per quell’eroico furore creativo, per l’animo religioso di lui, l’uomo dei Novissimi e che n’ha espresso tanto immenso terrore nel Giudizio Finale: e scarpellava in suprema testimonianza, confessione, oblazione a Dio, questa Pietà, quest’ultima parola, questa preghiera nel marmo, elevata da Michelangelo nell’imminenza del transito.

Preghiera: e ce lo dice l’umile racconto di un suo devotissimo, narrando che il sabato del 12 febbraio di quel 1564, lo passò tutto a lavorar alla “Pietà in braccio di Nostra Donna”, e il giorno appresso, non ricordandosi ch’era domenica, vuol tornarci a lavorare, ma il famiglio gliene fa ricordo, e il gran vecchio, con umiltà pari alla grandezza, osserva il precetto devoto. Il lunedì si ammala, quattro giorni: che sembra l’arcano d’una solenne vicenda epica.

Fu dunque la morte, e fino a che punto fu la morte, a levar la mano del Buonarroti dal marmo della Pietà? Vuol dir che anche la morte ha operato con l’artefice, d’altronde artefice e poeta e costante quanto mirabile innamorato del “non finito”, a questo ch’è il capolavoro poetico e patetico e tragico e mistico del “non finito”; a questo platonico e cristiano capolavoro informato alla “rimembranza della pittura divina” e d’“una musica e melodia che solo l’intelletto può percepire”, e insieme alla meditazione del sacrificio divino nel Figlio.

Qui la sublimità, l’infinità del concetto, e la semplicità umanissima dell’affetto che vi reca ed esprime la Madre; qui l’ineffabile, e del più sublime concetto e del più semplice affetto, in questo trasumanante e umanissimo anelito creativo, esigono e chiamano l’ardire e l’abnegazione, la violenza e la rassegnazione del “non finito”, anzi del “non finibile”, atto e figura ed espressione e simbolo, qui, d’un mistero e d’una carità novissimi. E questa sorta di “non finito” e di “non finibile”, termine umano, segno destinato, intento provvidenziale, inarrivabilmente dice l’indicibile e l’inarrivabile di ciò che dantescamente chiamerebbesi significar per marmo il trasumanare, nel gesto, nell’atto della più semplice umanità di dolore e di amore, di morte e passione, di pietà e di spasimo.

La morte stessa operò nella Pietà a inverare quel pensiero, il più alto e profondo, il più eroico del Buonarroti e d’ogni pensabile pensiero d’artista: che l’estremo dell’arte è arrivabile sol con l’estremo della vita. È quest’ultimo marmo, quest’ultima parola di Michelangelo, tale estremo d’arte e di vita consunte e sublimate insieme.

La morte stessa, quasi ch’essa sola potesse tradurre e consentire l’ardimento e la necessità di ciò che in un vivente, e fosse pur Michelangelo, avrebbe ancor tenuto d’un arbitrio e d’una sprezzatura; quasi che soltanto alla provvidenza fosse lecito e dato, con atto proprio, di liberar l’artefice dall’atto di una sua volontà, mutuandola in remissione. E la morte sottrasse a quello scalpello, il cui impeto spauriva i testimoni e il cui furore talvolta infrangeva la statua, i pieni, gli scabri, le masse che in questa rendono più evidenti e imperiose, aggressive direste, e violenti allo spirito del riguardante e al sommo cielo dell’arte, e le rispondenze e i contrasti proporzionali e armonici, le linee e strutture architettoniche, le figure geometriche in cui s’iscrive, i ritmi in cui s’effonde la composizione, e il mistero d’una statica, in cui tu senti e soffri il peso inane della morte, l’attrazione vuota della tomba, il grave della carne inerte, e frangere in disperazione la forza di un dolore, che sorge ad amore, risorge in carità nel gesto muto e parlante della forma scolpita.

Mistero e miracolo di questo gruppo e vital groppo e viluppo di due corpi, di due esseri, figlio e madre, attratti dalle forze naturali verso la terra che ogni peso a sé confonde; che sembra debbano procombere; pieno di morte, nella morte dissolto l’uno, e sembra che sfugga alle braccia della madre; e sulle spalle dell’affranta grava il dolor del mondo. Ma col mutare delle visuali muta misteriosamente il moto, la vita, l’anima plastica del gruppo, che da un lato appar saliente, come invaso e animato da fiamma vitale, da una musica ascendente; da un altro potrà offrire la monumentale e massiccia imponenza di una massa naturale. E sotto la rude e scabra superficie, le energie interne vivono dentro il sasso, come i temi in un contrappunto palestriniano, come vene d’energie cosmiche effuse e legate in una forma.

E sembra che i corpi della Madre e del Figlio, per prodigio d’ansiosa carità materna, voglian farsi e rifarsi tutt’uno, quasi che il gesto della disperazione, nel contendere il Figlio alla terra, impietosisca la morte e la vinca.

Ecco che un rotto residuo del gruppo precedente, un lacerto, il frammento del braccio, serve a equilibrare la composizione, e non sarebbe eliminabile; ed ecco, quell’altro residuo, il liscio, il finito degli arti inferiori del Cristo, viene a dire, qual che sia stata l’intenzione, e dice di fatto, con la sua carnalità, che la morte è salita fino ai fianchi e non più su.

Questa è la parte del corpo di Gesù che appartiene, invasa dal languore mortale, alla sepoltura. Via via che più si sale, per il torso, al petto e alle spalle, non è più morte carnale, ma un’estenuazione della forma, una sorta di spirituale annichilimento corporeo, quasi un plastico cupio dissolvi, che trova l’accento, la parola suprema nel gesto della mano materna, che abbraccia, regge, contende e difende in eterno il figlio, con una divina tenerezza, con una struggente levità, con una disperazione d’amore e di dolore tali, che se un marmo può muover le lacrime, è questo. E se qui paia sospetto che possa esser mancato marmo allo scalpello, il fatto cospirò con l’ispirazione, cospira il sospetto all’effetto su noi di tale sublimazione spirituale e affettiva, estetica e ascetica, religiosa e umana insieme.

Pietà, come quella di Santa Maria del Fiore, e Deposizione a un tempo, il piede della Madonna in questo gruppo posa con la saldezza d’un ceppo d’albero su quella pietra, che forse è il margine della fossa su cui pendono i morti piedi di Gesù morto? D’altronde il grezzo della pietra appena sbozzata, aggiunge, con un altro mistero, forza di espressione sparente, fuggiasca, indicibile, perduta, alle due immagini dei volti, eccitando mirabilmente, così per cenno e quasi in enigma, cuore e fantasia. Né, finito, il volto di Cristo ripeterebbe con una così capitale ed elementare possanza il gesto ultimo sulla croce, quando “reclinò il capo”.

E se nell’incompiutezza, voluta più o meno, desiderata in tanti marmi, Michelangelo amò d’esprimere la forza e l’idea di un’ansia di liberazione, d’una fatica travagliante e anelante e rotta a sveller corpo e anima dalla prigione della carne e della materia, in questa Pietà forma e pietra, figura e materia del pari sorgono libere, nate libere; e alitano, levitano, e trasfigurate trasfigurano una bellezza in cui si purifica e vive di là da se stessa l’antica ebbrezza di quel possente innamorato e inebriato della bellezza. Qui si contempla il supremo transito di un’umanità che trascende a un’immanente divinità nel petto di un artista.

Chi pensi e ripercorra tutto quel che il Buonarroti trasse dal suo dramma, a costo a volte di cadere innanzi o di precipitar oltre l’esprimibile formale, sempre sperando e disperando, non che dell’arte, dell’anima umana e sua, ecco che la Pietà esclude confronti, in quanto Michelangelo vi si muove, crea, vi s’avvolge in un irraggiungibile e in un sovrumano e in una libertà conseguita d’acchito, originaria, senza averla né cercata né inseguita, conquisa ancor prima che desiderata: in una libertà creativa, che non ha pari forse, certo non superiori in antichi né in moderni, per la superba altezza d’una mirabile semplicità e necessità essenziali ed elementari.

Forse, o certamente, è follia, a questo punto, la mia che osa di proporvi un sogno fantasioso; ma sono sforzato a dirvelo, nel mentre che vi chiedo perdono di dirvelo.
Vidi e parmi di vedere il transito da Roma, per le terre d’Italia, in una notte luminosa, angelicata, della Pietà Rondanini verso una città, che esclusa dal cerchio di vita e d’opera del fiorentino e romano Buonarroti ai suoi giorni, oggi è venuta in possesso dell’opera significativa fra le più significative, di lui.

Vidi, riveggo calar sera, quando la Pietà uscì di Roma; la sera che tanto s’addice alla struggente e solenne melanconia, all’arcano del sentire e della tragica passione, all’amor di bellezza di Michelangelo, a quel suo possente e tanto serotino inebriamento dello spirito. Rifulse allora nella biblica Sistina e sul Mosè di San Pietro in Vincoli, davanti l’apocalittico e dantesco e platonico Giudizio, nel segreto e solitudine della quiete serale, come la luce solinga e splendida della stella vespertina nel cielo dell’ora di notte. Era il lume di pace che in questa Pietà trovò l’estremo afflato creativo del grande tormentato, di colui che diceva un tempo, alla sua donna e all’arte propria:

Amor dunque non ha, né tua
 beltade
O durezza o fortuna o gran
 disdegno,
Del mio mal colpa, o mio destino
 o sorte.
Se dentro del tuo cor morte
 e pietate
Porti in un tempo, e che il mio basso ingegno
Non sappia ardendo trarne altro
 che morte.

Ma a Firenze ecco sentirono quel transito nell’alta notte spirituale, i Prigioni e l’Evangelista e le statue di San Lorenzo, e la Pietà di Santa Maria del Fiore. Lo sentono con una pia invidia, ché tutta la folta, l’immane fatica di ribellione e liberazione, della tragica furia del Grande, si desta per umiliare la loro grandezza davanti all’idea di salute e di pace d’una divina immagine e umana di pietà materna, in cui la passione tremenda di quel cercatore del sovrumano, si pacò, trovata che l’ebbe semplice, nella più spoglia, nella più essenzialmente rimessa e rassegnata fra le opere da lui create.

Ingrossava, silenzio e tenebra, dietro quel transito, il fiume del tempo e della storia, cui vorremmo chieder pace, ma non la concede, né salvezza. Sicché fredda mi parve la mattina arrivando la Pietà al termine della traslazione; fredda come la sottile angustia di notte passata insonne; perché la storia è travagliosa, e la bellezza non basta a consolarla, ben lungi da giustificarla.

Anche qui, in Lombardia e a Milano, sopra tutto qui, fu travaglio, anche allora, europeo aggiunto a travaglio italiano, allorché, proprio nel cortile di questo Castello di Milano periva, tanto per dire, un capolavoro del Rinascimento, il gran cavallo sforzesco di Leonardo da Vinci.

Leonardo… Negli anni tardi del Rinascimento finiente, quando Michelangelo scalpellava la Pietà, Leonardo esule da questa terra, come in ogni terra fu esule e in ogni opera del suo genio sdegnoso ed enigmatico, era morto: e qui la Cena aveva anche già iniziata la sua secolare tragedia del tempo.

Restavano qui, in quegli anni, e ancor ne godiamo in Milano e in Lombardia assai e bellissime, le fresche, le alacri, le squisite invenzioni giovanili del più grande inventore di forme architettoniche, del Bramante, del “magno architetto” di Ludovico Sforza, e poi di Giulio e di Leone: primizie di un’esperienza la cui maestria doveva diventare uno degli elementi formativi primi e profondi della grande età rinascimentale. Allora, in quegli anni tardi, non che defunto il “magno architetto”, quell’esperienza lombarda dell’urbinate era come già antica: le sognai, se lecito m’è ancor di dirlo, le immaginai, quelle invenzioni nella freddolosa ora mattutina rallegrate e intimidite insieme dall’arrivo in città della traslata Pietà.

È bensì vero, che se la sorte l’avesse portata qui al tempo di San Carlo, dottore ed eroe della Riforma Cattolica, il Borromeo, il severo protettore dell’austero e magnanimo Pellegrino Tibaldi, anche se con qualche sospetto sulla perfetta ortodossia della spiritualità dell’amico di Vittoria Colonna, vi avrebbe riconosciuta un’opera sacra e religiosa, come nella musica del Palestrina. Ma sorse, nel mio trasognar fantasiando, il giorno, a fugare i sogni.

Eroe, e a suo modo martire, e dell’arte e di tutto il Rinascimento stesso, il Buonarroti dell’ultimo marmo aveva e improntati e consumati, sull’estremo della vita e dell’arte, in sé medesimo, tutti i fasti e le grandezze, e le voluttà e i tormenti, e le tragedie e i trionfi, e le speranze e le disperazioni, tutte le morti e tutte le resurrezioni dell’arte. Solo trascendendo finalmente il proprio suo genio e un’esperienza dell’arte pari alla sua, sol così degnamente poteva concluderla, in uno spoglio, in una abnegata e translucida distruzione di sé, alle soglie della visione mistica avverando un ultimo, un non plus ultra, un irripetibile dell’arte, ov’è ancor tutta la sua, in extremis, e tutta nuova, e mai più.

Ed eccolo il trascendimento, ecco la conclusione, la parola ultima di Michelangelo, detta, spirante, in una figura di dolore e di pietà, di morte e di resurrezione, di spirituale mortificazione e rassegnazione, in cui il sommo dell’arte si spoglia in essenzial vita dello spirito, in una preghiera d’uomo e d’anima, agli uomini e a Dio: in questo marmo, Milanesi, che il tempo consegna oggi a voi.

La parola vivente di lui nell’immortalità di questa pietra, non le mie scarse e scontente di sé stesse, ha recato fra noi il raccoglimento e la reverenza con cui passeremo e torneremo davanti alla Pietà, umile e sublime più che altra creatura dell’arte.

Se mai artista possa dirlo, bene a Michelangelo, quella domenica in cui devotamente s’astenne, alla vigilia della morte, da lavorare; bene a lui, quella domenica, mentre guardava per l’ultima volta il suo marmo, deponendo lo scalpello che non avrebbe mai più ripreso, nell’atto di obbedire al precetto poté contingere di dire: Nunc dimittis servum tuum Domine, in pace.

Milano, 20 dicembre 1952
Sala delle Asse, Castello Sforzesco

Di più su questi argomenti: