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Il Foglio del weekend 

Il Michelangelo ritrovato. Un disegno prova il suo genio sin da ragazzo

Furio Rinaldi

Ecco svelato il percorso che ha portato a una nuova attribuzione sull'artista toscano e che permette di capirne le ambizioni culturali e le fonti visive

L’incontro del giovane Michelangelo Buonarroti con gli affreschi di Masaccio nella cappella Brancacci a Santa Maria del Carmine, Firenze, costituisce un momento determinante nella vita e formazione dello stile dell’artista, allora adolescente. Come ricorda Giorgio Vasari in entrambe le edizioni delle Vite (1550 e 1568), Michelangelo trascorse mesi al Carmine e a Santa Croce, eseguendo copie dalle figure affrescate da Masaccio e da Giotto, in sessioni di disegno che duravano fino “tre o quattro ore per volta”, come si riscontra più tardi nei resoconti di Giovanni Battista Gelli (c. 1540). Vasari scrive che Michelangelo “disegnò molti mesi nel Carmine alle pitture di Masaccio; dove con tanto giudizio quelle opere ritraeva, che ne stupivano gli artifici e gli altri uomini, di maniera che gli cresceva l’invidia insieme col nome”. Secondo Benvenuto Cellini, fu proprio nella cappella Brancacci che lo scultore Pietro Torrigiani, montato forse dall’invidia di cui accenna Vasari (o chissà da cos’altro), sferrò a Michelangelo il pugno che gli ruppe il naso, sfigurandolo e segnandolo psicologicamente per tutta la sua vita.


A sostanziare questi aneddoti storico-artistici è un gruppo di tre disegni, eseguiti da Michelangelo a penna e inchiostro, con copie di dettagli presi dagli affreschi di Giotto e Masaccio, che il giovane artista evidentemente ammirava per la loro semplicità, eloquente dignità e compattezza quasi scultorea. Il gruppo di disegni include una copia fedele dall’Ascensione di San Giovanni Evangelista affrescata da Giotto nella cappella Peruzzi a Santa Croce, e riprese parziali degli affreschi di Masaccio a Santa Maria del Carmine (eseguiti originariamente nel 1424-26), tra cui il celebre Tributo della cappella Brancacci e la cosiddetta Sagra, un affresco perduto che Masaccio aveva dipinto all’interno del chiostro che portava al convento e celebrava la cerimonia di consacrazione della chiesa del Carmine. I tre fogli, ora rispettivamente conservati al Louvre di Parigi, alla Graphische Sammlung di Monaco di Baviera e all’Albertina di Vienna, sono testimonianze d’eccezionale importanza, sopravvissute non solo al tempo ma anche alla furia distruttiva dello stesso Michelangelo, che per ben due volte nell’arco della sua lunga vita bruciò gran parte dei suoi disegni, per evitare che le sue intime e preziose invenzioni figurative su carta potessero essere copiate da altri (la famigerata “gelosia delle figure”). I tre fogli sono comunemente considerati cronologicamente i primi del catalogo michelangiolesco, eseguiti quando l’artista aveva tra i quindici e i vent’anni (era nato nel 1475) e datati, con alcune variazioni, tra il 1490-92 e il giugno 1496, quando Michelangelo lasciò Firenze per Roma. Si tratta di un periodo nel quale egli è ancora a bottega dal maestro Domenico Ghirlandaio (lui pure “invidiosetto” del suo talento, come scrive Vasari) ma beneficiava dei vantaggi dell’amicizia col Magnifico Lorenzo de’ Medici, che gli aveva garantito accesso al suo giardino di sculture antiche presso il convento di San Marco. 


A questo nucleo di tre disegni possiamo ora aggiungere il quarto importante foglio, emerso solo nel 2019 in una collezione privata francese, dove era conservato come opera anonima, e lì riconosciuto come mano di Michelangelo da chi scrive (cfr. Furio Rinaldi, Looking at Masaccio: A Rediscovered Drawing by the Young Michelangelo, The Burlington Magazine, giugno 2022). In seguito alla riscoperta, l’attribuzione è stata convalidata da vari studiosi di Michelangelo, come Paul Joannides, professore all’Università di Oxford e massimo esperto della grafica di Michelangelo, e il foglio è stato recentemente battuto da Christie’s nel maggio 2022 per 24 milioni di dollari, una cifra record per un disegno dell’artista. E’ riemerso così un tassello importantissimo della prima attività di Michelangelo che contribuisce in modo determinante a capire le ambizioni culturali e le fonti visive del giovane artista, così come la sua strepitosa e rapida evoluzione tecnica nell’arte grafica. 


Michelangelo ha eseguito il disegno su di un foglio di carta di dimensioni analoghe a quelle delle opere di Monaco, Parigi e Vienna (circa 33 per 20 cm) e, come in questi, ha sovrapposto con la penna due qualità diverse di inchiostro: una più chiara, di colore giallastro, usata per il preliminare della figura centrale, e una di marrone più scuro, col quale l’artista rielaborò la figura centrale ed eseguì quelle laterali. Quella del doppio inchiostro è una scelta tecnica precisa, che caratterizza la maggior parte dei disegni giovanili autografi di Michelangelo, come per primo osservò Johannes Wilde nel 1953. 
Come nelle altre copie che eseguì a partire dagli affreschi di Giotto e Masaccio, Michelangelo ha qui sviluppato la figura centrale con maggiore vigore e insistenza, elaborandola attraverso un fitto tratteggio incrociato e parallelo, e realizzando invece le figure laterali con maggiore velocità e minor dettaglio in un solo passaggio di inchiostro. Nel creare questo gruppo compatto di tre figure che emergono dal foglio in modo differente in base alla loro grado di lavorazione e finitura, il giovane scultore stava sperimentando, su carta, un’innovativa tecnica di disegno che appare come una diretta traduzione di quanto Donatello faceva in scultura col rilievo e la tecnica dello “stiacciato”.


Michelangelo ha approfittato pienamente della grande dimensione del foglio occupandone tutta la lunghezza con la figura centrale, uno studio di nudo stante a braccia conserte. Questa figura – da notare, il primo nudo di Michelangelo a noi giunto – è una copia dal nudo tremante dal freddo, che attende il suo turno insieme agli altri neofiti per essere battezzato da San Pietro, affrescato da Masaccio sul muro di fondo della Brancacci. Si tratta di una figura memorabile, ricordata da Vasari in ben due passaggi delle Vite: “Nell’istoria dove San Piero battezza si stima grandemente un ignudo che triema (sic) tra gl’altri battezzati assiderando di freddo, condotto con bellissimo rilievo e dolce maniera”. Per quanto marginale nell’affresco di Masaccio (sul muro di fondo, a più di quattro metri da terra), per Vasari invece questa precisa figura rappresentava un vertice assoluto dell’arte del Quattrocento, tanto da essere equiparata alla cupola di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi tra i culmini della “seconda età” delle Vite. Per questo motivo, il biografo aretino ci ricorda che il nudo tremante è stato sempre tenuto in riverenza e ammirazione “dagli artefici e vecchi e moderni […] per il che da infiniti disegnatori e maestri continuamente fino al dì d’oggi è stata frequentata questa cappella”. Evidentemente, riferendosi qui il Vasari a Michelangelo.

 

Nell’interpretazione grafica del Buonarroti, l’ascetico ed esile nudo di Masaccio emerge dal foglio con una rinnovata presenza plastica, ottenuta grazie ad un’energica rete di tratteggio a penna e inchiostro. Si tratta di una tecnica di disegno che l’artista aveva mutuato dal Ghirlandaio, ma che il suo maestro non era mai riuscito a spingere a esiti di tale vigore e controllo. Questo possente tratteggio infonde un più alto grado di naturalismo e tensione muscolare al nudo masaccesco, al quale Michelangelo applica minime ma determinanti correzioni, in modo da rendere il nudo più convincente dal punto di vista anatomico: Michelangelo alza la mano sinistra della figura, in modo da fargli afferrare in modo più naturale il braccio, e piega più in basso le sue gambe, per meglio articolare la portata del peso. Un analogo processo vivificante, nella direzione di una maggiore monumentalità e realismo, è operato da Michelangelo negli altri disegni esemplati su Giotto (al Louvre) e Masaccio (all’Albertina).

 

Come anticipato, allo studio centrale ripreso da Masaccio, Michelangelo affianca due altre figure stanti, estranee all’affresco originale (e a l’un l’altra). E’ una caratteristica che non ha precedenti nella serie delle copie finora note, tutte traduzioni abbastanza fedeli ai rispettivi modelli. Definite da linee più aperte e sintetiche, queste figure scaturiscono da quella principale come se emergessero dalla stessa sostanza, secondo un processo organico che ricorda l’affiorare dei nudi affastellati nel contemporaneo marmo con la Zuffa di Lapiti e Centauri (c. 1492, Fondazione Casa Buonarroti). A sinistra troviamo una figura abbondantemente panneggiata, caratterizzata da una fisionomia androgina, la prima di questo tipo che incontreremo, ricorrente, nell’opera successiva di Michelangelo. La figura di destra, scaturita direttamente dalla parte inferiore del nudo centrale, dal quale riprende la posa del busto, presenta un uomo con le braccia dietro la schiena, forse uno schiavo. Egli spinge con la spalla sinistra come il monumentale San Matteo dell’Accademia (1503, ma lasciato incompiuto nel 1506). In entrambe queste figure l’inchiostro di Michelangelo appare più rapido, la maglia del tratteggio si allarga facendosi meno sistematica, il breve tratteggio si allunga in filamenti di inchiostro, le estremità, come i piedi, si abbreviano a pochi tratti. E’ proprio in questi dettagli più spontanei che appaiono evidenti certe sigle stilistiche tipiche dell’artista, e ricorrenti in tutti i suoi disegni giovanili: il naso “a becco” della figura a destra, rinforzato alla base, le labbra sporgenti, le dita dei piedi, rese in modo corsivo.


Il disegno riscoperto si rivela quindi un’importante opera di cerniera, poiché Michelangelo accompagna l’esercizio della copia centrale a nuove e creative invenzioni figurative che anticipano soluzioni formali e tecniche successive: dalla Zuffa dei Centauri, al San Matteo, fino al non finito del Bruto. Circa venti anni dopo l’esecuzione del disegno, la figura del neofita tremante ricompare in un progetto mai portato a termine per la tomba dei Magnifici nelle cappelle Medicee (c. 1525) e, ancora più tardi, nell’uomo barbuto che si stringe nel dolore osservando la Crocifissione di San Pietro nella Cappella Paolina in Vaticano (c. 1545-50) e, ancora, nel San Giovanni della tarda Crocifissione a Windsor Castle (c. 1560). Di fatto, non è sorprendente assistere al ritorno alle forme masaccesche in opere tanto tarde, essendo un periodo in cui il vecchio Michelangelo guardava indietro alla semplicità della spiritualità paleocristiana e abbracciava un ritorno a un’estetica “primitiva”.

 

La ricorrenza di questa figura nell’opera di Michelangelo, anche a lunga distanza, può far supporre che il disegno fosse rimasto tra le mani del suo autore fino alla sua morte, nel 1564. Come spesso accade per i disegni antichi, non sappiamo molto circa la sua storia, la cui più antica provenienza risale al Settecento, alla collezione del Commendatore torinese Modesto Ignazio Bonaventura Genevosio (1719-1801), il cui timbro con le iniziali “CG” compare in basso a destra del foglio. Pur essendo un raffinato collezionista e connoisseur di disegni antichi (suo era almeno un altro foglio di Michelangelo, lo studio per Adamo ed Eva ora al museo Bayonne), neanche Genevosio riconobbe in questo foglio la mano di Michelangelo, attribuendolo invece al pittore bolognese del tardo Cinquecento Pietro Faccini – nome che compare due volte sul montaggio antico del disegno. Alla morte di Genevosio, il foglio deve aver preso la via della Francia, dove riappare il 24 Aprile 1907 a un’asta dell’Hôtel Drouot, come si evince da un cartellino affisso sul retro della cornice. Qui fu verosimilmente acquistato come opera della scuola di Michelangelo da Alfred Cortot (1877-1962), uno dei grandi pianisti del Novecento francese, presso i cui eredi si trovava al momento della mia riscoperta nel 2019. Il riferimento a Michelangelo si era ormai perso. 

 

Lontano dall’essere un esercizio di copia giovanile, il disegno riscoperto suggerisce implicazioni culturali più profonde circa l’importanza rivestita da Masaccio per Michelangelo e l’arte del suo tempo. Inserita nella più generale campagna di riscoperta dei grandi “padri” dell’arte toscana promossa da Lorenzo de Medici (che aveva commissionato, ad esempio, le tombe di Giotto e di Fra Filippo Lippi), l’apprezzamento da parte di Michelangelo per questi maestri non era né un fatto patriottico né una celebrazione nostalgica del passato fiorentino. Dalle sue prime opere il Buonarroti sembrava infatti guardare a questi maestri per i loro valori estetici e morali: agli occhi del giovane artista, Giotto, Jacopo della Quercia e Masaccio segnavano la via della semplicità, del rigore e dell’eloquenza, una traiettoria artistica e critica che appariva in diretta contrapposizione con l’estetica promossa dai campioni della Firenze laurenziana – i Pollaiuolo, Botticelli e Verrocchio – la cui arte si caratterizza per una sofisticata preziosità. Lungi dall’essere solamente esercizi didattici di un giovane apprendista nell’arte del disegno, le copie di Michelangelo da Giotto e Masaccio emergono fondamentalmente come diretta espressione di un suo atto critico.

 

Questi pochi fogli dimostrano una consapevolezza e senso del passato davvero straordinario per un artista che all’epoca non era che adolescente. Distogliendo lo sguardo dall’arte del presente e l’esempio dei suoi diretti maestri, ma guardando piuttosto al passato remoto e scegliendo lui stesso le proprie fonti visive, Michelangelo fu il primo a rompere con una tradizione lineare di bottega. Trascurato da molti studiosi moderni, questo aspetto della produzione di Michelangelo non sfuggì certamente a Giorgio Vasari che, nella biografia dell’artista contenuta nella seconda edizione delle Vite (1568), minimizzò il ruolo ricoperto da Domenico Ghirlandaio nella formazione di Michelangelo, e aprì invece il racconto invocando la figura di Giotto (“col lume del famosissimo Giotto”). Agli occhi di Vasari, Michelangelo era un po’ come Minerva, nata già armata dalla testa di Giove.

 

Gli studiosi oggi riconoscono come le idee di Michelangelo sull’arte e la sua visione critica abbiano informato e plasmato l’organizzazione delle Vite vasariane. Alla luce del disegno riscoperto, l’enfasi che Vasari mise nella descrizione del neofita tremante della cappella Brancacci (citato per ben due volte all’interno delle Vite), rafforza l’evidenza di un’influenza diretta che Michelangelo ebbe nella stesura di questo testo epocale per la storia dell’arte. Per Vasari, Michelangelo rappresentava sia l’apice del progresso artistico che la pietra di paragone con la quale andava confrontata l’arte del passato.

 

Dato che, attraverso i suoi disegni, Michelangelo aveva identificato in Giotto e Masaccio i suoi unici e diretti precedenti, Vasari elevò questi tre artisti a punti cardinali nella struttura delle Vite, collocando le loro biografie in punti nodali della narrazione: la fine della “maniera greca” con Giotto, l’alba della seconda età con Masaccio, e il picco della terza età, la “maniera moderna”, con Michelangelo.  E’ davvero sorprendente notare come questa periodizzazione dell’arte italiana del Rinascimento – che resta valida ancora oggi – trovi la sua prima formalizzazione proprio nei disegni giovanili di Michelangelo. 

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