Il nuovo gioco di specchi di Vila-Matas al Luna Park della letteratura

Marco Archetti

"Questa bruma insensata", l'ultimo romanzo dello scrittore spagnolo, è una ragnatela di non sensi e di eccesso di senso, il solito gioco di specchi a cui ci ha abituato

A vent’anni collaborava con un magazine e si inventava le interviste. Una, famosa, a Marlon Brando. Una a Nureyev (“Mi ritiro tra otto anni”). Una al regista Roviro Beleta. Alla fine nessuno si lamentava perché le finte risposte erano geniali. Si dice che in quel periodo studiasse diritto, avesse girato due cortometraggi ed eletto Witold Gombrowicz a suo faro dopo aver visto una sua foto, senza averne letto un solo libro. Insomma, sia come sia, una storia abbreviata di Enrique Vila-Matas è impossibile farla, sebbene sia questo il sottotitolo di un documentario, intitolato meno ambiziosamente “Una strana forma di vita”, che parla di lui. Cavaliere dell’ordine di Finnegan, uomo che contiene moltitudini ma soprattutto le espelle gloriosamente da se stesso trasformandole in letteratura grazie alla creazione e alla distruzione continua di un metaverso narrativo forte del suo contrario, Enrique Vila-Matas è uno scrittore indefinibile che scrive romanzi inconfondibili.

 

E’ un prestigiatore, un clown, un drogato di libri, e lo dimostra anche il suo ultimo romanzo, Questa bruma insensata (Feltrinelli, 206 pp., 18 euro), ragnatela di non sensi e di eccessi di senso, il solito gioco di specchi al Luna Park della Letteratura, letto e goduto il quale possiamo dire che chi lo ama continuerà, e chi lo odia anche. La storia, in breve: Simon, traduttore spagnolo che vive in una casa dondolante sull’orlo di un precipizio a Cap de Creus, ha un fratello, Rainer, che se l’è svignata a New York per costruirsi un’immagine da scrittore salingerianamente invisibile, autore dei “cinque romanzi veloci” dallo stile naturale e inimitabile. Ma è Simon a fornire a Rainer sia la farina che il sacco, elargendogli campionari di citazioni intorno ai quali il fratello costruisce questi romanzi a freccia, mentre lo ripaga scrivendogli lettere umilianti – “caro subordinato, caro assistente, caro schiavo”. Anche in questa storia, impostura e falsi indizi sono il pane vilamatasiano: c’è uno scrittore che ha reso scrittore un altro, ma in fondo nessuno dei due scrive.

 

Ci sono i rebus dell’identità e una panetteria riconoscibilissima: un mondo fitto di riferimenti letterari (altri non sono possibili), in cui esistono solo scrittori ossessionati dalla non-scrittura, in cui ciò che accade accade sub specie letteraria o non accade, in cui la realtà fa parte della finzione perché è tutto verosimile, tutto falsosimile. “L’importante è inventarti la tua vita”, ribadisce Vila-Matas, non un grande fan dell’autobiografismo (“chiunque è in grado di parlare di se stesso”), che con quella faccia lunga e lo sguardo nervoso è vilamatasiano egli stesso – non tutti gli scrittori corrispondono alla faccia che hanno, lui sì. Scrive tanto, tantissimo, quasi sempre su cos’è la letteratura quando la letteratura non c’è. E ha costruito una trionfale e fertile epopea del fallimento e dell’infertilità, schierando in pagina quella che potremmo chiamare la “brigata Vila-Matas”, esercito di soldatini che penzolano sulla rinuncia, sull’inesistenza: ecco i Bartleby e la compagnia della negazione; ecco Vilnius che scrive un archivio generale del fallimento intriso di oblomovismo militante (il tutto raccontato da un narratore, un falso io, che medita di rinunciare alla scrittura); ecco Mac che scrive solo per scoprire cosa scriverebbe se scrivesse (ma non scrive); ecco – in quest’ultimo romanzo – Simon Schneider che si confessa mancato addirittura come lettore, paralizzato dalle prime righe dei libri per l’eccesso di interpretazioni possibili. Ed eccola, la solita letteratura che incasina anziché chiarire! …poi sì, sarebbe da studiare un altro crinale su cui Vila-Matas si muove: quello attraversato dal principio per cui quanto più si è intelligenti tanto più si è stupidi, quanto più si è intrisi di letteratura tanto più la si fugge.  Questa bruma insensata dimostra come Vila-Matas faccia miracoli anche fastidiosi, anche asfissianti, perché in fondo non ha bisogno del mondo, bastandogli le pagine. E’ lì che recita sempre se stesso, celandosi all’interno di un’opera solidissima appesa a capriole di fumo. Ma quel fumo è tutto ciò che abbiamo. Quel fumo – dice – è tutto ciò che sappiamo di noi.

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