Una scena di "Dove vai in vacanza?", film collettivo del 1978

Se preferite l'amatriciana ai vernissage, leggete Enrique Vila-Matas

Giacomo Giossi

Viaggio nei libri di un irresistibile sprovveduto

Nel mischiare vero e falso, fantasia e reale, Enrique Vila-Matas ha scelto di nuotare, attraverso le elaborazioni romanzesche straordinarie e costruzioni citazionistiche letterarie che attraversano spesso i suoi libri trasversalmente, quasi ridefinendo il profilo di autore letterario come vero e proprio performer contemporaneo della memoria.

 

Cosa significa scrivere e al tempo stesso esistere?

 

Sembra essere questa la domanda cardine attorno alla quale si dispiegano sia l’opera di Vila-Matas sia le ben più banali azioni comuni che tutte le persone sono chiamate a fare quotidianamente, sempre in bilico tra l’apparire e l’essere, tra l’esistere e il raccontare di sé.

 

Dare forma alla propria esistenza attraverso un’ossessiva presenza, ed è un peccato che, alla fine, tutto questo si tramuti – o meglio ancora si frantumi – in una sostanziale assenza, che ben poco c’entra con la tanto decantata trasparenza che ha saputo ormai raggiungere anche le rive di una politica in perenne status d’apparenza (in mancanza patologica di appartenenza).

 

Vila-Matas, mai privo d’ ironia, coglie così l’occasione di mordere da dentro quello che è forse l’ambiente più denso di ironia e al tempo stesso – e in maniera quasi autistica – privo di autoironia, ossia il mondo dell’arte contemporanea. Vero e proprio giocattolone per snob, ereditieri, scrittori monchi e artigiani mancati, oltre che per una sequela impressionante di persone vestite male in maniera profondamente ricercata, il mondo dell’arte contemporanea è insieme contenuto e contenitore di storie, di stupidità e di analisi concettuali assai raffinate.

 

Nulla può essere separato dal resto: se si vuole l’analisi, bisogna anche sorbirsi l’algida architettura che tanto piace all’arricchito di turno che ci fa dono di una qualche Fondazione o spazio museale in giro per il mondo.

 

Ovviamente Vila-Matas non si limita e non potrebbe affatto limitarsi a un gioco ironico, a una lettura sprezzante di un mondo così complesso anche per la sua atavica banalità, ma va oltre e scrive – con l’aiuto di Dominque Gonzalez-Foester, vera protagonista del suo libro – quella che può essere definita a tutti gli effetti una precisissima mappa degli effetti e del pensiero potenziale che oggi l’arte è in grado di restituire.

 

Marienbad elettrico (seguito dal racconto/installazione Bastian Schneider,) pubblicato da Humboldt Books e tradotto da Elena Liverani, è infatti la traduzione narrativa di un incontro, quello tra Enrique Vila-Matas e Dominique Gonzalez-Foester, che a sua volta è l’incontro tra l’autore e la sua protagonista ed è anche l’incontro tra la materia narrativa vulcanica di uno dei più importanti scrittori contemporanei spagnoli e l’opera dell’artista francese.

 

Marienbad elettrico è da un lato un viaggio nella memoria affettiva di Vila Matas, che ripercorre la logica dell’arte di Gonzalez-Foester attraverso i dati sensibili accumulati in una vita di letture, viaggi e incontri.

 

Dall’altro lato è anche il resoconto di una posizione instabile, di un invito che si tramuta in un disagio e in una divertente forma fuori luogo.

 

L’arte contemporanea, come già seppe indicarci Alberto Sordi, sta sempre dove ci si siede, quando la stanchezza depone a nostro sfavore, il mal di testa e il mal di piedi la fanno da padrone: è lì che appaiono il senso, la figura e la forma di un discorso in forma finalmente ovvia (talmente ovvia che se l’avessimo saputo prima ci saremmo subito diretti in trattoria senza alcuna fermata intermedia presso biennali, triennali e via camminando di anno in anno).

 

Vila-Matas ha quindi l’approccio inquieto del pensatore errante che sa contenere la saggezza, ma pure l’incoscienza dello sprovveduto, di colui che fuori luogo si trova a parlare a vanvera di cose prive di senso, che all’interno del consesso artistico risultano legate punto a punto con un discorso che appare poi relativamente visibile.

 

Il fuori luogo e, meglio ancora, il fuori campo sono il centro del discorso di ogni autore letterario, così come di un’artista che debba superare l’analogia dei tempi evitando la didascalia del digitale che tutto regola e tutto definisce al millesimo di secondo e ancora di più.

 

Il fuori luogo è quindi per principio uno stato del sentire ed è a questo punto che Vila-Matas scarta, ritrovando nelle riflessioni degli anni Sessanta una comunanza strettissima con il sentire contemporaneo, a partire da Alain Resnais fino a Robbe-Grillet per non parlare dei compagni i viaggio letterari sudamericani.

Nell’apprezzamento e nell’affinità che in questa sorta di diario dell’incontro Vila-Matas rivela rispetto ad un’artista affermata e di sicuro valore come Gonzalez-Foester, si percepisce però la nota di un’ovvietà che non viene mai esplicitata, ma che prende forma lungo tutto il testo: quel che sappiamo, lo sapevamo già, quello che stiamo scoprendo è lo abbiamo già scoperto in passato.

Vila-Matas mette ordine al discorso di Gonzalez-Foester e così facendo, in un certo senso, lo spiega fino ad appiattirne lo stupore, l’interesse si sposta dalla mappa alla bibliografia, dall’immagine che non resiste alla scrittura che si oppone nella sua estetica funzionale.

Come succede anche nella recente esposizione di Fondazione Prada a Venezia, in Machines à penser non è l’ordine, il senso, l’analogia o l’affinità a definire la qualità di un significato possibile che mischia Adorno con Heidegger e Wittgenstein, ma la comprensione che quel procedere a casaccio appartenga ad una precisa sensibilità.

 

Questo passaggio non aiuta di certo a capire il lavoro dei tre filosofi e la loro esistenzialità, ma restituisce una possibilità al nostro stesso caos continuamente messo sotto stress da ordine e senso comune, la cui deriva dell’uno vale uno pesa sulla testa di tutti noi.

 

Vila-Matas non deride per un libretto che sarebbe di breve durata e soprattutto non suo, ma accoglie una presunta inconsistenza, una possibile incomprensione restituendola di senso, almeno per se stesso.

 

Attraverso il lavoro e lo scambio intellettuale con Dominque Gonzalez-Foester, lui accoglie se stesso e propone ai suoi lettori (al pari di Alberto Sordi e di Anna Longhi, l’indimenticabile Augusta in “Vacanze intelligenti”) non tanto di guardare stupiti una sedia vuota all’ombra di una palma, ma di sedercisi sopra, riposare e andare oltre.

 

Verso se stessi o anche verso un’amatriciana doppia porzione.

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