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letteratura

"Memorie di un baro" è un raffinato esercizio di black humour

Mariarosa Mancuso

L’unico romanzo di Sacha Guitry, scritto nel 1935 e finora inedito in Italia, inizia con molte morti difficili da piangere. Poi rivela una certezza: i soldi non hanno valore se restano in tasca

Vocazioni. Per Charles Dickens fu il lavoro nella fabbrica di lucido da scarpe, quando aveva dodici anni. Per le sorelle Brontë fu l’educazione casalinga, generosa di storie ambientate in un mondo immaginario. Il baro di Sacha Guitry viene avviato al gioco d’azzardo da un ragionamento scorretto ma convincente

I genitori lo avevano punito per aver sottratto dalla cassa della drogheria i soldi per le biglie. Alla fine dell’Ottocento, punizione voleva dire a letto senza cena. Giusto la sera in cui la famiglia mangia i funghi velenosi raccolti da uno zio. Undici cadaveri e un ragazzino solo al mondo, vivo perché è un ladruncolo. Avviarsi verso una vita onesta voleva dire sconfessare il destino. "Memorie di un baro" è l’unico breve romanzo di Sacha Guitry, scritto nel 1935 e finora ignoto ai lettori italiani. Spicca tra 124 testi teatrali (in 60 anni) e 36 film da regista – uno tratto da questa storia. Sacha Guitry si era divertito con la voce fuori campo, scelta all’epoca molto criticata. Ad apprezzarla poi furono Orson Welles e François Truffaut. Le commedie spopolavano nei teatri parigini: “Mettete mille imbecilli in una sala e avrete un pubblico intelligente”.

"Memoria di un baro" comincia con un raffinato esercizio di black humour. La morte dei genitori e di un’altra decina di parenti è difficile da piangere. Muoiono a tappe, chi prima e chi dopo, e i vicini fanno spiacevoli commenti. Il sopravvissuto, guardato come un assassino, viene affidato a un lontano cugino notaio che intasca i soldi della drogheria e lo tiene a stecchetto: “Una sera, a tavola, mi resi conto di colpo che stavo diventando un bambino maltrattato”. Scappa per lavorare, i primi tre mesi senza paga, in un ristorante di Caen. Per la prima volta vede i ricchi, che gli fanno un’ottima impressione. Il nostro è privo di rivalse rancorose, pensa solo a diventare uno di loro. Ha già qualche teoria in materia: essere ricchi non è avere i soldi, è spenderli; i soldi non hanno valore finché restano nelle tasche. A questo punto il narratore si rivela, mostrando le sue credenziali: “53 anni, ho sempre vissuto del denaro altrui arrivando a possedere diversi milioni, e ora sono quasi ridotto in miseria”. Senza rabbia né amarezza, aggiunge. (Dettaglio autobiografico: anche Sacha Guitry dilapidò con stile più di un patrimonio).

Il futuro baro inizia come fattorino in un albergo che somiglia al Grand Budapest Hotel nel film di Wes Anderson: recapita bigliettini galanti, attende il consenso o il rifiuto della dama, e ha “un modo di non chiedere” che gli procura mance doppie. Sacha Guitry, nato nel 1885 a San Pietroburgo da un attore francese che lo mandò sul palcoscenico a cinque anni, racconta gli hotel e i casinò con tono elegante e scanzonato, reso benissimo nella traduzione di Davide Tortorella. Completa il divertimento una nota di Edgardo Franzosini, gran cacciatore di personaggi bizzarri: dal “mangiatore di carta” scovato in un racconto di Balzac (uno scrivano settecentesco dalla magnifica calligrafia, ma bisognava sottrargli gli atti con l’inchiostro ancora fresco se no li avrebbe masticati e ingoiati) alle sculture di Rembrandt Bugatti, fratello di Ettore che fondò la casa automobilistica.  Nelle Memorie di un baro c’è l’allegra leggerezza che Guitry metteva nelle sue commedie, lavorare lo divertiva più di ogni altra cosa. A Monaco, paese dove tutti nascono croupier, il giovane baro ha la sua prima avventura galante a pagamento: i soldi devono girare, sempre, guai a trattenerli per sé. Quanto al gioco d’azzardo, garantisce: “ha un influsso eccellente sull’umore”. Meglio di qualsiasi cura termale.