Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Siamo ancora convinti che la Letteratura ci salvi?

Giulia Ciarapica

È in libreria, per le Edizioni Tlon, “Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano”

Ci hanno detto che la Letteratura salva. Ci hanno parlato della forza della Parola. Ci hanno detto che per vivere bene serve lottare per le proprie idee. Ma non ci hanno detto che il discorso vale solo per qualcuno. Poi arriva Jude Ellison Sady Doyle e, senza giri di parole né mistificazioni, in “Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano” (Edizioni Tlon), ci spiega una cosa: per le donne, soprattutto quelle in mostra, il controllo sulla propria narrazione è un privilegio per nulla scontato. E cosa c’entra con la Letteratura? C’entra nella misura in cui personalità come Mary Wollstonecraft e Charlotte Brontë furono danneggiate dal pubblico che le accusò, in sostanza, di “sentire” troppo: a loro è idealmente preclusa la via della Parola, che passa attraverso la creatività e l’urgenza del pensiero; pena, la negazione di una vita degna e riconosciuta come tale dalla società.

  
Sady Doyle, che traccia il profilo della cosiddetta “trainwreck”, ossia la donna la cui vita avrebbe “deragliato” rispetto al percorso comune e che dunque avrebbe “perso il controllo del modo in cui ci si definisce, a vantaggio di un pubblico che se ne assume tutto il diritto”, articolando un pensiero che si avvale di esempi recentissimi racconta anche due percorsi differenti, quello di Wollstonecraft e di Brontë, mettendoli a confronto a partire da un dettaglio: le lettere. Di Mary all’ex compagno Gilbert Imlay e di Charlotte a Constantin Héger, l’uomo cattivo, collerico e vecchiotto che la aiutò a esercitarsi nella scrittura.

  
L’esperienza di Wollstonecraft si potrebbe riassumere così: una donna che scrisse uno dei più importanti testi sui diritti delle donne e che venne ricordata come adultera, prostituta, pazza e buffona, una che si è venduta “a mezza città”. Per questo alla sua morte venne meno anche la sua battaglia, rinnegata perfino dalle altre femministe. Le parole di Mary, così come le sue idee (che tentava di applicare nella quotidianità), non l’hanno salvata nel momento in cui a sopraffarla fu il giudizio sulla sua condotta di vita. Non aveva più importanza che fosse stata lei ad aprire il dibattito sulle donne, Mary si era macchiata in modo indelebile per i suoi incontri sessuali.

 
Diverso è il caso di Charlotte Brontë, e forse ancora più grave. Qui non v’è giudizio di moralità, ma d’intelletto. “La letteratura non può essere la prima occupazione della vita di una donna”, le scrive il poeta Robert Southey quando lei gli chiese consiglio. “Più una donna è impegnata nell’adempimento dei propri doveri, meno tempo avrà per coltivarla, sia come occupazione che come svago”. La disperazione di Brontë, che tratteneva in sé il miglior genio letterario del suo secolo, era sfociata dunque in lettere di supplica non appena intravide la possibilità di affidarsi a qualcuno che lavorasse con lei sui suoi scritti – pubblicati, in ogni caso, con lo pseudonimo maschile Currer Bell, poiché “a una donna rispettabile non si addice il mestiere di scrittore”.
Perciò l’inevitabile domanda è: che rapporto intercorre – ieri come oggi – tra la Parola (quella salvifica della Letteratura, quella nobile, dei dubbi e dei misteri) e la parola (quella della società, del pubblico che stabilisce in modo autonomo cos’è giusto e cosa sbagliato, al di là di ogni incertezza)? Che ruolo ha avuto e che ruolo continua ad avere la Letteratura? Su chi fa presa? E soprattutto: dove abbiamo sbagliato?

 

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