“La marcia su Roma” di Dino Risi, 1962, è l’avventura picaresca di Gassman e Tognazzi, due balordi che diventano fascisti per caso 

il racconto al cinema

Marce su Roma, marce di fantasmi

Andrea Minuz

Per rievocare la "rivoluzione" del Duce, la propaganda fascista gonfiò il numero dei partecipanti. Ma Dino Risi ed Emilio Lussu l’hanno sbertucciata, mostrandone il grottesco concentrato di italianità da operetta. Che oggi ha dei nuovi eredi

Come lo spettro dell’“Aventino”, evocato spesso nei tormenti del Pd al governo, come le disfatte della Nazionale che diventano subito “una Caporetto”, la marcia su Roma è uno dei grandi fantasmi italiani. Una “costante”, una funzione ricorrente, un motivo che risuona in ogni fase della storia patria, non solo in questo centenario quanto mai à la page. C’è sempre un po’ di “marcia su Roma” nelle cronache di questi anni. Ogni volta riadattata in modi via via più immaginifici, carnevaleschi, festosi. C’è quella di Grillo, in camper, con adunata su internet e hashtag #tuttiaRoma. C’è quella di Salvini a Piazza del Popolo, nel 2015, con CasaPound e un manifesto del Duce esposto in bella vista (“ti aspettavo!”). C’è lo spin-off dell’anno scorso, con l’abbraccio tra No Vax e Forza Nuova uniti in un assalto sgangherato alla sede della Cgil. Ci sono le tante marce su Roma minacciate da Bossi nei raduni di Pontida, quasi sempre dopo ogni finanziaria, con Alessandra Mussolini che all’epoca, prima della svolta “fluida”, difendeva il copyright sul brand (“sono in troppi a parlare di una nuova marcia su Roma, ma solo noi missini possiamo vantare il marchio dell’originalità e rivendicare quell’eredità storica che oggi fa gola a tanti”). C’è il “si voti subito, altrimenti a milioni andremo a Roma per chiedere le elezioni” del Cav., edizione 2008. C’è la versione didattico-pedagogica, in quota società civile, con la fatidica gita a Roma gratis per gli under 25 sbandierata da Calenda in campagna elettorale. C’è la variante in salsa “crime”: il “piamose Roma” dell’epica malavitosa di “Romanzo Criminale”. E c’è il controcanto di “Suburra”, “è stata Roma”, che sarebbe piaciuto molto anche a Mussolini, come epigrafe della sua impresa, in uno spiritualissimo transfert con la città. 

Ma è anche un format da esportazione: quanta “marcia su Roma” nel golpe suprematista e sciamanico di Capitol Hill! Con Trump pronto a raggiungere i suoi facinorosi boys alla guida della limousine, come il Duce nel suo comodo wagon-lit che si precipitava nella capitale a cose fatte. Sinonimo di irresponsabilità e fatalismo, immobilismo tattico e opportunismo, emblema di quel formidabile intreccio arcitaliano di vigliaccheria e spacconaggine, la marcia su Roma è uno dei nostri prodotti tipici. C’è anche tutto un grand tour di reliquie di provincia e proloco che è cresciuto in questi anni: merchandising, memorabilia, libri e scoop che certificano tutte le soste, perché ognuno vuole il suo pezzetto di marcia. “Prima di marciare su Roma, Mussolini si fermò a Civitavecchia e Santa Marinella insieme a duemilacinquecento camicie nere”, rivelava in saggio di qualche anno fa lo storico Livio Spinelli (“si chiamava via Aurelia Vecchia, la strada dove si attestò la colonna La Marmora guidata dal Marchese Dino Perrone Compagni, poi prese il nome di via della Marcia su Roma e oggi metà si chiama via della Libertà e metà via Roma”, un giusto compromesso). Quando Emil Ludwig domanda al Duce nei suoi “Colloqui con Mussolini”, libro-conversazione che celebrava il decennale della marcia: “Si sentiva nel suo viaggio a Roma nello stato d’animo di un artista che comincia l’opera sua o di un profeta che segue la missione?”, quello senza esitare risponde: “Artista”. 

Un format da esportazione: quanta “marcia su Roma” nel golpe di Capitol Hill! Trump in limousine come il Duce nel suo comodo wagon-lit

Siamo in effetti dalle parti della performance, dell’agit-prop o di un gigantesco flash-mob, avremmo detto oggi, con dentro il peggio e il meglio del dannunzianesimo e del machiavellismo. La mitizzazione della marcia su Roma cominciò subito. Un anno dopo l’impresa, grazie al cinema, ecco già pronto il backstage dell’evento. Prodotto naturalmente dal Partito nazionale fascista il film si intitola “A Noi!” (sottotitolo: “Dalla sagra di Napoli alla conquista di Roma”, che dovrebbe suonare epico-eroico, ma fa subito tour gastronomico, scampagnata, gita fuori porta). Lo mette insieme Umberto Paradisi, pioniere del cinema italiano, attore celebre nei ruoli da carabiniere, poi regista, produttore, presto riciclatosi dagli adattamenti di “Cuore” e “I promessi sposi” alla glorificazione del Duce. “A noi!” fu lanciato come una “rappresentazione ufficiale dei memorabili avvenimenti”, dall’adunata del 24 ottobre (“Napoli ospitale si desta”), all’attesa alle porte di Roma, fino all’ingresso trionfante in città, la sfilata, il “fascio-pride” che il 30 ottobre 1922 invade come una festa mobile la piazza del Quirinale. Ci sono già le immagini contraffatte, i trucchi, la folla gonfiata, come nei comizi photoshoppati di oggi. Si disegnano, insomma, i contorni di una gigantesca fake-news più vicina all’arrivo dei marziani raccontato alla radio da Orson Welles qualche anno dopo, che a un golpe. La modernità della “marcia su Roma” è tutta qui. Nello scarto tra la povertà dell’evento e l’epica del racconto. Coi fatti che cercano disperatamente di assomigliare alla loro rappresentazione, un sentimento della folla e una partecipazione popolare creata dai media, ingigantita, esasperata facendo leva sulle solite corde della piazza, della rabbia contro la “casta”, della cultura antiparlamentare che nutre tutti i populismi di ieri, di oggi e di domani. 

A distanza di cento anni, il film-saggio di Mark Cousins, presentato a Venezia e appena uscito in sala, torna sull’operazione di Paradisi per smontarla pezzo dopo pezzo, mostrare l’artificio retorico, il trucco, la logica della propaganda spacciata per documentario. Niente di nuovo. Siamo solo un po’ in anticipo rispetto alle grandi orchestrazioni cinematografiche della propaganda di tutti i regimi. Cousins però si fa prendere un po’ la mano. Nel repertorio storico infila i ragazzi del Cinema America, gli extracomunitari, persino Alba Rohrwacher a colori, in versione Anna Magnani, voce e corpo narrante della vicenda, che dovrebbe farci rivivere le “sensazioni di quei giorni”, come Alberto Angela che gira tra i resti di Pompei su Rai1. Ansioso di comunicare al mondo il pericolo di un ritorno del fascismo in tailleur, dunque con immancabile inserto di Giorgia Meloni tra le vecchie immagini del Duce (e interrogazione parlamentare al ministro Franceschini presentata da Fratelli d’Italia), Cousins si perde tutto il succo d’italianità della faccenda. 

“Si sentiva nello stato d’animo di un artista che comincia l’opera sua o di un profeta che segue la missione?”. Mussolini risponde: “Artista”

Poco dopo il decennale della “marcia”, quando Blasetti gira “Vecchia guardia”, sorta di bildungsroman del fascismo che rievoca il clima del 1922, in Germania viene distribuito col titolo di “Mario”, che non è il nome del protagonista, ma la quintessenza dell’“italiano” visto da lì (colpito dal film, il Führer invitò a Berlino Blasetti e l’attore-bambino, Franco Brambilla, che in “Vecchia guardia” è un piccolo balilla e nella realtà morirà otto anni dopo, appena ventenne, sul fronte russo). Il film di Blasetti si chiude con l’adunata dei fascisti nei pressi di Viterbo, nella selva della Tuscia, immortalati in un’“alba livida” mentre s’incamminano verso la capitale. Una scena che darà lo spunto a Age & Scarpelli per riprendere poi, nella “Marcia su Roma” di Dino Risi, l’immortale verso, “O Roma o Orte!” di Maccari. Siamo in puro controcanto del “Sorpasso”, rifatto al contrario, puntando su Roma anziché a Calafuria. Anche Risi incornicia l’avventura picaresca di Gassman e Tognazzi, due balordi che diventano fascisti per caso, dentro filmati d’epoca e materiale di repertorio con canzonette d’epoca, “All’armi siam fascisti”, “Giovinezza”. La “marcia su Roma” diventa un road-movie con addosso tutta la miseria, la mancanza di organizzazione, la ridicolaggine dei fascisti e i tragici errori di valutazione degli altri. Come Monicelli qualche anno prima con “La Grande Guerra”, Risi tira giù dal piedistallo un evento sacro tanto al fascismo che alla retorica antifascista. Il film è un successo, la critica marxista lo stronca, come farà un po’ con tutte le commedie di quegli anni: qualunquismo, lettura superficiale, scarsa capacità d’analisi, irriverenza. Col fascismo non si scherza (preferibili i fascisti animaleschi e spietati del Bertolucci di “Novecento”, col Duce ricollocato finalmente dalle parti del Male Assoluto, o gli astrusi grovigli lacaniani del Bellocchio di “Vincere”). 

Fu però Emilio Lussu il primo a leggere la “marcia su Roma” in chiave d’operetta e cioè nei suoi connotati eterni e tipicamente italiani. Non “rivoluzione”, ma farsa, melodramma, duelli e scontri e fulmini su quinte e fondali di cartapesta. Scrivendo a ridosso degli eventi, nel 1931, in esilio in Francia e col fascismo all’apice del consenso, Lussu rinuncia alle dispute storiografiche di Salvemini e Gobetti o Croce e Gramsci, e s’appassiona semmai alla cornice da commedia, ai dettagli che rivelano la cifra grottesca. Per esempio, il dilemma del trasporto a Roma di tutti i mutilati d’Italia, martiri della Grande Guerra alla cui vista Mussolini avrebbe di certo desistito, se ne sarebbe tornato a Milano, in lacrime, con la coda tra le gambe (era un’idea di Luigi Facta, che al suo secondo mandato, il “Facta bis”, aveva orchestrato un sistema difensivo che puntava tutto sulla rivalità divistica tra il Duce e D’Annunzio, col fiore all’occhiello di un fortilizio umano fatto di mutilati e invalidi di guerra). Da esiliato, Lussu scrive rivolgendosi agli stranieri (il libro esce prima in francese, poi in inglese, spagnolo, portoghese, una prima edizione Einaudi arriva solo alla fine della guerra). Insiste dunque sui “tratti tipici”. Su quelle cifre facilmente riconoscibili di vizi e tare del “carattere nazionale”, col vantaggio che tutto torna sotto controllo, suona antico, familiare, “crazy country, but beautiful”. Proprio per questo, insomma, Lussu tira fuori una cronaca che è più vera, ficcante e incisiva di tanti libri di storia. 

Come Monicelli con “La Grande Guerra”, Risi tira giù dal piedistallo un evento sacro tanto al fascismo che alla retorica antifascista

Nel suo “Marcia su Roma e dintorni” ci siamo tutti: fascisti e antifascisti, un po’ come in “Amarcord”. Messi insieme nello stesso album di famiglia, immortalati in una gigantesca, feroce caricatura, con le solite porte girevoli che favoriscono conversioni al fascio fulminanti. Sono pagine folgoranti. Sembrano uscite da un racconto di Flaiano anziché da uno dei fondatori del Partito D’Azione, uomo integerrimo, tutto d’un pezzo, eroe dell’antifascismo militante: “Che era questa benedetta marcia su Roma? Le idee non erano chiare. La stampa, pressoché unanime, spiegava trattarsi di una marcia ideale: un’espressione figurata che significava ascesa spirituale, conquista morale. Lo stesso Mussolini non aveva le idee molto precise, ‘questa marcia su Roma è strategicamente possibile, attraverso le tre grandi direttrici: costiera adriatica, costiera tirrenica e valle del Tevere’. Il che, come ognuno può controllare sulla carta, è un bel pasticcio” (oggi si andrebbe tutti in frecciarossa economy, immortalandosi su Instagram e TikTok, mentre Mussolini è barricato in un “freccia lounge” a Milano Centrale, con lo spritz, in attesa degli eventi e un biglietto per Lugano pronto, casomai si mettesse male). Rileggendo “Marcia su Roma e dintorni” ci si trova di fronte a una specie di “Capitol Hill” inspiegabilmente riuscito. Un golpe squinternato, col tragico che vira nel comico e viceversa. Con lo Sciamano, “Batman”, “Zio Sam” e gli altri Proud Boys spaparanzati sulla scrivania di Nancy Pelosi a farsi i selfie, rubare targhe, posaceneri e cimeli vari del Campidoglio, ma che invece di finire tutti sotto processo, diventano prefetti e ministri e governano il paese per vent’anni. 

Forse il più grande emulo dell’impresa romana, quello che più si avvicina all’opera buffa messa su dal duce, resta Beppe Grillo. Lui in camper sull’Aurelia, gli altri ognuno per conto suo: “Sono in camper. Sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come paese”.

Forse quello che più si avvicina all’opera buffa messa su dal Duce resta Beppe Grillo, in camper sull’Aurelia, gli altri ognuno per conto suo

Sempre, a ogni giro di boa, in tutti questi anni, ritorna la fatidica domanda: “Ma esiste davvero oggi la possibilità di una nuova marcia su Roma?”, la “svolta autoritaria”, il ritorno del fascismo con le camicie nere in festa a Palazzo Chigi? A parte gli ascoltatori di Prima Pagina su Radio3, ci si crede poco. Persino col governo più a destra di sempre. Si è visto, del resto, quanto il richiamo di Letta & Co. all’attualità dell’antifascismo abbia spinto casomai la volata di Giorgia. Forse solo i cinghiali, oggi, sono in grado di marciare compatti su Roma. A testuggine, come l’esercito romano. Anche loro con adunata e siesta a Orte, per poi riunirsi con le colonne della Balduina e Monte Mario, farsi largo tra gli attivisti di “Ultima Generazione” che bloccano il traffico sdraiati sul Grande Raccordo Anulare, e entrare trionfanti a piazza del Popolo, tra gli applausi scroscianti dei gabbiani.