(Foto di Ansa) 

La mostra d'arte contemporanea

Il collettivo indonesiano Ruangrupa accusato di antisemitismo a Documenta

Francesco Bonami

Polemiche contro alcune installazioni artistiche. Si dimette la direttrice dell'evento. Il problema però è più profondo e riguarda lo scisma degli ultimi 30 anni tra arte "sociale" e arte "commerciale", come dimostra questo episodio 

Sabato scorso si è dimessa Sabine Schormann, direttrice generale di Documenta, la grande mostra di arte contemporanea che si svolge a Kassel  in Germania ogni cinque anni, diretta rivale della Biennale di Arti visive  di Venezia. Qualche giorno prima l’artista tedesca Hito Steyerl aveva ritirato il proprio lavoro dalla mostra accusando l’organizzazione di essere incapace di gestire le accuse di antisemitismo iniziate a gennaio quando i ruangrupa, il gruppo di artisti indonesiani incaricati di curare la quindicesima edizione della grande mostra, furono accusati di sostenere un movimento che promuove il boicottaggio e le sanzioni nei confronti d’Israele per il trattamento dei Palestinesi. La situazione è degenerata quando un altro collettivo indonesiano, Taring Padi, uno fra i quasi 1.500 nomi invitati alla mostra, ha installato in una delle piazze principali di Kassel un enorme striscione intitolato “People Justice”, dove sono rappresentati manifestanti di ogni genere, comprese caricature di ebrei che portano cappelli con la croce uncinata nazista e un maiale che indossa un fazzoletto con la stella di David e la scritta Mossad, il servizio segreto israeliano. L’opera è stata tolta ma questo non ha calmato le polemiche e le goffe risposte ufficiali. Il consiglio d’amministrazione di Documenta, finanziata con fondi pubblici per più di 42 milioni di euro, ha giustamente detto di non essere responsabile per i contenuti della mostra difendendo la libertà di parola degli artisti invitati. Ma non è riuscita a rispondere con lucidità alle accuse sempre più feroci ammettendo che la situazione era fuori controllo. 


Il problema però non è soltanto l’antisemitismo. Il problema è radicato nel malessere profondo che dalla metà degli anni '90 affligge il mondo dell’arte internazionale. Un malessere con vari nomi; postcolonialismo, globalizzazione, correttezza politica, eccetera. In realtà, il vero disagio del sistema dell’arte deriva da un complesso d’inferiorità nei confronti della realtà che è diventato una patologia nel corso degli ultimi trent’anni. Se da una parte ha proliferato il mercato dell’arte con opere, anche di giovani artisti, che hanno raggiunto cifre assurde, d’altra parte i curatori, e chi li assume per organizzare mostre temporanee in giro per il mondo, hanno progressivamente abbandonato la nicchia elitaria dei linguaggi dell’arte contemporanea, diciamo più convenzionali, per improvvisarsi antropologi, attivisti politici, organizzatori di centri sociali, esperti di politica internazionale e meteorologia. Il risultato eclatante di questo scisma fra arte “commerciale” e arte “sociale” lo abbiamo oggi davanti agli occhi con la crisi di Documenta.

 

Nel tentativo di aprirsi sempre di più al mondo e non solo al mondo dell’arte l’organizzazione tedesca ha lasciato che una commissione di “esperti” selezionasse il gruppo ruangrupa come curatori di questa edizione. Un collettivo che sta confermando tragicamente il contrario di quello di cui scrivevo sopra. Così come i curatori non possono improvvisarsi capi di un’organizzazione umanitaria o esperti di politica internazionale, allo stesso modo gli artisti non possono, anche con tutta la buona volontà, improvvisarsi curatori e tantomeno curatori incaricati di gestire un enorme budget e temi politici, sociali e culturali estremamente complessi e delicati. L’avere affidato Documenta al collettivo indonesiano rivela, anche e purtroppo, la sempre più radicale e irresponsabile ideologia di molti miei colleghi che non ritengono più necessario rispettare la curiosità e l’interesse di un pubblico, sorprendentemente sempre più numeroso ed eterogeneo, alla ricerca di arte, quale che essa sia, e non di teorie pseudo intellettuali, pseudo politiche e pseudo sociali.

 

Se voglio giocare a bocce vado al circolo dietro casa, non prendo l’aereo per andare a Kassel. Se lo scopo di questa Documenta era quello di sparigliare le regole della cultura e dell’arte occidentale ci è sicuramente riuscita. Ma per cambiare le regole bisogna conoscere bene quelle vecchie e avere ben chiare le nuove che si vogliono applicare. Può darsi che né Documenta né la Biennale di Venezia siano più necessarie, basta dirlo. Non facciamole diventare però parodie di se stesse ai danni dello spettatore.
I ruangrupa sono come un amministratore delegato della Esselunga vegano e animalista che decide di togliere dagli scaffali tutto quello che va contro la propria cultura morale e alimentare. Sorprende che gli organizzatori di Documenta non abbiano riflettuto, affidando al collettivo di Jakarta la mostra, sul fatto che l’Indonesia sia una nazione senza rapporti diplomatici ufficiali con Israele e sul fatto che l’Olocausto non sia al centro dei programmi scolastici del ministero dell’Educazione di quel paese. Certo in un universo allargato si può pure discutere sulla dimensione e gravità dei vari genocidi portati avanti nel mondo nel corso della storia e nell’attuale presente. Ma andrebbe fatto con responsabilità e cognizione di causa, non basandosi su una forma d’ignoranza travestita da impegno e correttezza politica o finta lungimiranza intellettuale.

 

L’artista Hito Steyerl, per altro una fra le artiste più celebrate e sostenute dal sistema e dal mercato dell’arte occidentale, non dovrebbe prendersela con l’organizzazione di Documenta ma con i curatori che l’hanno invitata e sui quali, prima di accettare, avrebbe dovuto fare qualche ricerca. Scoprendo in anticipo che i simpatici ruangrupa non hanno ben chiaro cosa voglia dire “antisemita” o fanno finta di non saperlo. L’intellighenzia del mondo dell’arte da anni ha deciso che la cultura occidentale, i suoi musei, le sue kermesse storiche Documenta e Biennale, le sue fiere d’arte e il suo sistema di gallerie sono cloache tardo colonialiste, palazzi d’inverno da occupare e magari devastare. Non sono d’accordo ma è possibile. Mi chiedo però, se mi facessero curatore della Biennale di Phnom Penh, in Cambogia (prima o poi ci sarà) e la dedicassi a Pol Pot, come gli organizzatori e il mondo dell’arte globale la prenderebbero.