Primi effetti della cancel culture e del pol. corr. sulla moda. L'insipienza, l'autocitazione, la noia

Chiude la fashion week di Milano, comincia Parigi con le sfilate uomo. Si salva solo chi può ricorrere alla propria eccellenza e chi investe in tecnologia e cultura. E che sono sempre gli stessi

Fabiana Giacomotti

Domani iniziano le sfilate delle collezioni uomo estate 2023 di Parigi, ma non credo saranno diverse da quelle appena concluse a Milano o forse, si spera, dall’unica collezione che ha raccontato davvero quel che stia succedendo adesso nel mondo. Non si è tenuta sotto la Madonnina, però, ma a Firenze, la città dove, accanto ai completi da uomo un po’ scontati e allo streetwear non sempre eccelso presentato in Fortezza, l’organizzazione di Pitti ha allestito la collezione cross-culture, cross-gender, coltissima e sofisticata di Grace Wales Bonner, di cui molti preconizzano non a caso la prossima nomina a direttrice creativa di Louis Vuitton Homme al posto dello scomparso Virgil Abloh. Questa trentenne anglo-giamaicana di timidezza paragonabile alla tempra - e che sono entrambe piuttosto accentuate - ha sfilato la settimana scorsa nel palazzo Medici Riccardi dove viveva Alessandro de’ Medici, il “duca moro”, e dove si tenne quel genere di incontri politici cosmopoliti rinascimentali che il mondo ignora siano mai avvenuti (per info, acquistate il saggio “Africani Europei” di Olivette Otele, Einaudi). Ha tappezzato e pavimentato il cortile d’onore con i sacchi dell’artista ghanese Ibrahim Mahama che mescola le insegne del consumismo di stampo occidentale con il colonialismo, ha coniugato tagli e lavorazioni africane su tagli occidentali Anni Venti e ne è venuto fuori un incanto di linee e proporzioni moderne. È possibile che uno stilista genericamente “bianco” non avrebbe pensato a qualcosa di altrettanto sofisticato, interessante e coinvolgente sull’onda di quello che la stilista definisce il “lascito europeo coniugato a uno spirito afro-atlantico”. Però è sicuro che non avrebbe osato.

 

Wales Bonner, e pochi altri, possono volare dove gli altri non hanno più il coraggio di avventurarsi. Può giocare con la tradizione europea come nessun europeo si sognerebbe più di farlo con quella africana. Tre anni di campagne-contro, di accuse di appropriazione culturale, di siti à la Diet Prada scatenati contro qualunque genere di reato vero, presunto e spesso a comando contro il reato di mancata inclusione purchessia (ponderale, genetico-di genere, ma soprattutto culturale) hanno portato al risultato atteso, visibile peraltro anche nelle università anglosassoni: nessuna discussione, ben poco osare, un fortissimo appiattimento sul déjà vu, sullo scontato, sul “semplice” dichiarato e perseguito, sul cosiddetto “safe”, depurato di ogni rischio, anche presunto, anche ipotetico, anche guai a dirlo. Mi verrebbe da dire che queste siano le prime sfilate dimostrative dei risultati a cui porta la cancel culture e, sebbene non mi sia mai piaciuto assistere a certe reinterpretazioni pedisseque e scontate delle insegne più evidenti di culture lontane da quella europea in cui la moda occidentale si è cullata per secoli (quel genere di esercizio è sempre riuscito a pochi, in primis Ferré e poi John Galliano per Dior), quel che si sta vedendo ultimamente è la dimostrazione che all’eccesso opposto si rischia di autolimitarsi troppo. Di autocensurarsi. Finendo per rifugiarsi nelle sottoculture occidentali più saccheggiate e banali, nel “gangsta” più ovvio: l’onnipresente bragone, la canotta o la t shirt slabbrata e dipinta, il cappellino portato all’incontrario ma senza visiera per un tocco di novità, la sneaker. La sneaker. Un fremito di eccitazione ha percorso l’audience di lusso che assisteva alle (due, come sempre) sfilate di Giorgio Armani che ha presentato delle espadrillas allacciate e aperte sui lati: per gli standard del momento, quel genere di calzature predilette da Pablo Picasso è apparsa come una scelta rivoluzionaria.

 

I Dolce&Gabbana si sono risolti addirittura all’autocitazione, dichiarata, anzi in Re-Edition “perché la nuova generazione non conosce queste cose ma le vorrebbe”, scavalcando a destra il fenomeno del vintage e giustificando al contempo quella vecchia teoria della moda che stabilisce in sessant’anni un ciclo naturale di una linea e di un modo di vestire. Ma ancora più vecchi sono sembrati gli stilisti giovani davvero o presunti tali: si sentiva davvero il bisogno di rosolarsi sotto una tettoria di plastica a 36 gradi per vedere sfilare le felpe e le t shirt stampate di ovvietà di 44 Label Group (“follow your dreams”, ma dai; e la massima disneyana “se puoi sognarlo puoi farlo” non c’è?) che sono puro merchandising di un dj e clubber berlinese di un certo successo, Max Kobosil? E perché questa roba da banchetto del club a cento euro sfila a Milano? Perché dobbiamo vedere il – pur simpaticissimo per carità – Marcelo Burlon, altro clubber, che festeggia i dieci anni di attività portando in passerella cose disparate, senza un perché, con stampe che neanche Desigual? Che cosa sono queste “cose”, this stuff, che nulla spartiscono con la moda o con quello che la moda dichiara a ogni momento di essere, e cioè cultura?

 

Per tornare al punto di partenza, non fatevi distrarre appunto dai tanti lederhosen, i bragoni di pelle, che hanno popolato le passerelle: sono la risposta veterotestamentaria di un’Europa che non sa più a che cosa attaccarsi per restare culturalmente rilevante in un mondo che, prepotente, spinge da sud, cioè da oltre il Mediterraneo, dall’Africa, e dai paesi del centro-America che si sentono culturalmente più affini a quella che è la nouvelle vague. È il mondo vigoroso, avido di revanche, di Settimio Severo contro quello di Augusto, pallido, che ne sta venendo fuori malissimo, senza cercare una vera collaborazione ma alzando le mani in segno di segno di resa. Il mondo della moda europea sta subendo una narrazione di orgoglio culturale, di protervia di matrice americana e di sprezzante sdegno per quelle che non sono costrizioni ma semplice educazione di cui ogni giorno vanno in scena nuove puntate e che si è esplicitata nel tipo surreale, forse un rapper, apparso alla sfilata di Zegna fra i monti piemontesi: l’audience tutta in lino e cotoni bianchi comme il fallait per il luogo e l’occasione, lui in catenoni, accompagnato da una sconosciuta in tacchi, organze e pantaloni aderenti di pelle con le natiche scoperte, separate da un nastro. Probabilmente, interrogata, avrebbe strepitato per la propria inalienabile libertà d’espressione confondendo, come ormai troppo spesso accade, libertà con esibizionismo di matrice sessuale (a Gildo Zegna, comunque, sarà venuto un colpo).

 

A livello di puro stile, in questa tornata di queste sfilate intellettualmente timorose e al contempo inutilmente affollate (ma come, non si era detto che si sarebbe prodotto meno?) si salvano i tre brand che possono permettersi di accedere alle altezze vertiginose della loro maestria e della loro intoccabilità culturale, tecnologica, del loro infinito prestigio sociale, e che sono Giorgio Armani, appunto Zegna e Prada. Il primo, che a bordo passerella parlava giustamente di “rinnovamento del classico”, sospirando un po’ sulla generale mancanza “dell’uomo elegante”, che può certamente non essere azzimato o noioso, anzi nonchalant come il suo. Il secondo, perché non innamorarsi delle innovazioni tessili di Alessandro Sartori, del pragmatismo e della versatilità dei suoi capi, è piuttosto difficile quando non si stia cercando, e tutti l’abbiamo cercato fino allo spasimo, un po’ di determinazione creativa oltre il gimmick (Alessandro Michele, suvvia, anche la collezione con Harry Styles indistinguibile da una qualunque collezione Gucci), il merchandising sovrapprezzo e l’inutilità. La terza, Miuccia Prada, parlando di “semplicità come scelta”, di “abiti che la gente possa indossare davvero, ma che abbiano un impatto”, che siano il frutto di un processo decisionale razionale ma anche di stile e di gusto”.

 

Chi conosce il mercato, sa che il valore di questo momento è l’attendibilità: “In questo momento vogliamo tutti qualcosa di credibile e di rassicurante”, ha detto, non a caso, Armani. Che lo faccia Zegna con i suoi cotoni misto carta di recupero e le sue sete tecnica, Prada con quegli impermeabili rigorosi, dai volumi importanti e severi, o Armani con le camicie morbide, indossate fuori dai pantaloni ma abbinate alle giacche dai colori accesi del blu e del viola, non ha troppa importanza. L’importante è che si possa dare un valore, e una coerenza, a quello che si vede. E, magari, che si possa anche dare alle cose che si vedono il nome corretto. Prendi per esempio la collezione Fendi: dopo la breve conferenza stampa di Silvia Venturini Fendi, a sua volta molto attenta al tema della leggerezza e della semplicità, per raggiungere la sala della sfilata mi sono trovata a percorrere il backstage, soffermandomi con alcuni colleghi ad ammirare i capi, già indossati sui modelli pronti in fila. Uno di questi era un lungo cappotto in pelliccia, stampato denim. Bellissimo. Il ragazzo che lo indossava, molto simpatico, ci si rigirava dentro felice nonostante il caldo, orgoglioso. “E’ così soffice”. “Ci credo”, ho detto, “è visone rasato”. La collega si è guardata intorno imbarazzata: “Non si può dire. Si dice montone, io scrivo montone”. Dunque, in ossequio alla correttezza politica (Fendi sta lavorando a un’alternativa biologica, a base di cheratina, alle pellicce di origine animale o sintetiche, che inquinano da morire) un visone che sfilava sotto gli occhi di centinaia di persone sedute e qualche decina di migliaia collegate non poteva essere descritto come tale. Era diventato un montone. Qui, capite, siamo oltre la favola dei vestiti nuovi dell’imperatore. Siamo alla pura idiozia. E questa ci porterà alla rovina. Anzi, peggio, all'insipienza.