Foto Ufficio Stampa Greenpeace / LaPresse 

L'ipocrisia delle élite intellettuali davanti ai massacri della guerra

Francesco Bonami

Fare gli eroi con la libertà degli altri è insensato. Resistere significa anche saper usare le parole giuste, non lasciandosi sopraffare dalle sirene della falsità occidentale che urlano “armiamoci e partite”

Si potrebbe partire con un titolo: “La banalità dell’ipocrisia”, per descrivere la reazione del mondo dell’arte e più in generale della cultura davanti alla guerra in Ucraina.  Per anni agli oligarchi russi, più o meno amici di Putin, sono stati succhiate enormi somme di denaro per finanziare eventi e istituzioni culturali di ogni tipo. Per non parlare del mercato dell’arte che con la disponibilità e voracità degli oligarchi è andato a nozze. Oggi il distanziamento dell’opportunismo, occidentale e non, dalla Russia è più che opportuno ma non meno ipocrita. Basti pensare all’ex curatore del padiglione russo della prossima Biennale di Venezia Raimundas Malašauskas, lituano. Qualche settimana fa si è dimesso assieme ai due artisti che aveva selezionato, Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, entrambi russi. Se per il curatore è stato un gesto inevitabile, dovuto, prevedibile e obbligatorio di protesta, per i due artisti è stato un atto di coraggio non da poco.

 
I rischi che potrebbero correre tornando in patria sono altissimi. Gli artisti erano russi prima e dopo essere stati selezionati. 

 

Il curatore era lituano prima e dopo che gli fosse stato affidato l’incarico. Non dovrebbe aver problemi a tornare a casa.  Per questo lascia perplessi  la sua dichiarazione, in cui ricorda di essere nato sovietico e di essersi goduto l’indipendenza della sua nazione dal 1990 a oggi. L’idea – continua il curatore – di tornare indietro o di andare avanti sotto un impero russo o quel che sia non è tollerabile. Quando ha accettato l’incarico, poco meno di un paio di anni fa, la Russia non era in guerra ma un impero più o meno esteso lo era di già e l’imperatore era lo stesso. Perché allora prendersi questa responsabilità trascinandosi dietro due artisti per i quali adesso può fare ben poco? Sicuramente, davanti ai colleghi del mondo dell’arte, ha fatto una bella figura. Ma è un po’ come quella persona che, pur sapendo che il partner più abbiente lo tradisce da anni, decide di lasciarlo quando, aprendo la porta della stanza da letto, lo trova sotto le coperte con l’amante e non può più inventarsi scuse.

 

Nella loro ipocrisia, le élite del mondo dell’arte e della cultura, che hanno la fortuna di potersi godere contesti politici felici e tranquilli, non capiscono che pretendere la stessa presa di posizione in Francia da un intellettuale o da un museo francese e da un intellettuale o un museo di un paese in guerra non è la stessa cosa. Per i secondi, anche il solo uso di una parola sbagliata ha conseguenze disastrose, a volte irrimediabili. Più di duecento persone sono state licenziate da istituzioni culturali russe nelle ultime settimane, proprio perché  avevano usato la parola sbagliata. Resistere significa anche saper usare le parole giuste, non lasciandosi sopraffare dalle sirene dell’ipocrisia occidentale che urlano “armiamoci e partite”. Chi rimane, lontano, resta; chi parte, anche rimanendo a casa, a volte non torna più.  

 

I greci hanno vinto la guerra stando dentro al cavallo, non sopra. Fare gli eroi con la libertà degli altri non è complicatissimo. Il presidente di un dipartimento del ministero della Cultura francese, giorni fa, ha cancellato una mostra di Matisse a Pechino per punire la Cina a causa del suo legame con la Russia. A cosa può servire una decisione del genere,  simbolica solo per chi la prende? Assolutamente a niente. Se non a impedire di vedere Matisse a decine di migliaia di persone. Persone che non conosceranno mai il motivo della cancellazione della mostra. Gente che continuerà a vivere abbastanza bene anche senza conoscere Matisse, ma più che altro gente che non dirà mai una parola contro il proprio governo, un po’ per paura, un po’ perché della Russia non gliene frega un bel niente.  Tutto questo mentre, zitte zitte, in Yemen per la guerra con l’Arabia Saudita stanno aspettando di morire di fame altri cinque milioni di  persone. Nessun curatore si è dimesso per protesta, anzi qualcuno cura pure la biennale del deserto in nome del rinascimento saudita. Fra qualche settimana, a Venezia, il padiglione dell’Arabia Saudita ci sarà e non darà noia a nessuno. Sapete la differenza fra un ratto e uno scoiattolo ? E’ solo questione di marketing.
 

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