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Crimea 1853, l'antefatto alla guerra in Ucraina di oggi

Raffaele Romanelli

L’espansionismo della Russia zarista minaccia l’ordine mondiale. L’Europa si coalizza e interviene. Le prime corrispondenze di guerra, lo “scontro di civiltà” e il diritto: una storia molto attuale

Lì, sui campi di Crimea, avvengono cose importanti per la storia del mondo. L’espansionismo russo minaccia l’ordine mondiale. Attaccando la flotta ottomana nel 1853, dal Mar Nero la Russia potrebbe aprirsi una via per il Mediterraneo. La cosa va impedita e costringe le potenze europee a coalizzarsi e a intervenire. Si trattava di fermare l’espansionismo della Russia zarista, una autocrazia d’altri tempi, ben lontana dai valori delle due maggiori potenze europee, Francia e Gran Bretagna, che erano anch’essi imperi, ma imperi liberali costituzionali. Occorreva dunque ricacciare nelle steppe dell’Asia i semibarbari despoti russi: “Siamo impegnati nella civiltà contro la barbarie, per l’indipendenza d’Europa”, dichiarò lord Clarendon, il ministro degli Esteri di sua maestà britannica.

 

Trattandosi di una impresa europea, altre nazioni furono invitate a unirsi alla Francia e alla Gran Bretagna. E così anche l’Italia entrò in guerra, la sua prima guerra fuori dai confini. L’Italia per la verità non esisteva ancora, e appunto con l’idea di costituirla il regno di Sardegna si unì all’impresa inviando un contingente di 18 mila uomini al comando di Alfonso La Marmora. Non pochi. Non c’era bisogno di voto parlamentare: la Costituzione, concessa pochi anni prima, nel 1848, stabiliva che il re “dichiara la guerra, fa i trattati…, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano”. Fu quello, si sarebbe detto, il capolavoro diplomatico di Cavour, che così acquistava il diritto di sedersi al tavolo della pace e di guadagnar sostegno per la progettata unificazione della penisola. Insomma, si trattava di geopolitica e di trattative diplomatiche. Così andavano le cose a quell’epoca. A quell’epoca.

 

L’Italia non esisteva ancora, e appunto con l’idea di costituirla il regno di Sardegna si unì all’impresa

 

Ma così, protestarono alcuni intellettuali russi, l’Europa tradiva la sua vera essenza, la mancanza di valori che dichiarava di professare: infatti si alleava con il sultano ottomano contro una potenza cristiana. Giacché non solo tale era la santa Russia, ma aveva inteso muovere la guerra in difesa dei luoghi santi in medio oriente, che erano appunto sotto il dominio ottomano, nonché della vasta comunità ortodossa mediorientale, di cui lo zar si ergeva a protettore. Queste cose avvenivano a quell’epoca, quando si intrecciavano non sempre con coerenza ragioni geopolitiche e missioni di civiltà. A quell’epoca.

 

La faccenda peraltro non sarebbe rimasta ristretta nell’ambito esclusivo delle cancellerie europee. La guerra la conducevano i signori con le loro divise sgargianti, pennacchi e alamari dorati, ma da sempre a far carne da cannone erano le plebi, anonime e sconosciute. E proprio a quell’epoca le plebi, divenute popolo, stavano apparendo sulla scena. Molti la chiamavano democrazia. In Crimea arrivò William Howard Russell, “l’uomo che inventò le corrispondenze di guerra”. Era un giornalista di 34 anni, inviato del Times. Molti altri seguirono. Prima di allora, notizie e rapporti dovevano essere portati a mano. Ora per la prima volta poterono essere affidati al telegrafo. La tecnologia faceva passi da gigante.

 

Uno stampatore londinese, Augustus Applegath, introdusse miglioramenti decisivi nella macchina a stampa rotativa. Ora si stampavano 200 copie al minuto. Del Times naturalmente. E così gli inglesi furono inondati di notizie e reportage. Russell intendeva illustrare la verità, ma anche raccontare delle storie. Con cadenze quotidiane, perché i lettori volevano novità ogni giorno. Da allora questo è il mestiere di un corrispondente di guerra, informare sui fatti e costruire una narrazione. Oggi lo fa con l’aiuto di immagini, che rendono ancor più veri i fatti e più letteraria la narrazione. Immagini di quella guerra non ne abbiamo. Ma alla mancanza di immagini suppliva la fantasia, e l’efficacia della scrittura. A quell’epoca.  

 

L’uso politico della narrazione, la propaganda e di conseguenza la censura, nacquero più tardi. Per ora si trattava di un flusso libero di parole. La partecipazione popolare divenne quasi morbosa: per la prima volta le masse partecipavano direttamente, quotidianamente, a lontani eventi internazionali. “Tutte le più basse passioni nazionalistiche che si nascondono nel cuore di un popolo furono eccitate all’eccesso: il gaudente frequentatore dei music-hall, l’imberbe studentello, tutta la massa degli ignoranti, dei furfanti e degli stolti stornarono qualsiasi tentativo da parte degli intelligenti e degli onesti di far sentire la propria voce”. Così scrisse un contemporaneo di solidi sentimenti tradizionalisti. Da secoli si alternavano alleanze incrociate e conflitti tra Gran Bretagna, Francia, Russia e Austria. Tra Gran Bretagna e Russia si giocava poi il “big game” che le vedeva rivali nell’Asia occidentale, con gli inglesi che estendevano i possedimenti indiani e i russi che miravano all’Oceano indiano. Giochi diplomatici, lontane avventure militari.

 

L’uso politico della narrazione, la propaganda e di conseguenza la censura, nacquero più tard

 

Ora però le folle furono prese da una passione antirussa e antislava (anche Marx era tra gli appassionati). Fu il momento del “jingoismo”. Per le strade si cantava “We don’t want to fight; but, by Jingo! If we do, we’ve got the ships, we’ve got the men, we’ve got the money too, we’ve faught the Bear before and we’ll fight the Bear again but the Russian shall not get Constantinople!”. I moderni nazionalismi nacquero così. Le masse si eccitavano partecipando alla guerra eroica dei signori, non a quella miserabile dei fanti. Quando a Balaklava, presso Sebastopoli, dove era quartier generale della missione inglese, l’11º cavalleggeri ussari fu mandato a infrangersi contro le batterie russe e fu decimato, il poeta di corte Alfred Tennyson lo esaltò con un trascinante poema, The charge of the light brigade

 

La carica degli ussari poteva esser vista in diverso modo. I due sguardi sono ben rappresentati da due film che segnano due epoche: La carica dei Seicento, con Errol Flynn e Olivia de Havilland, del 1936, canta l’eroismo; I seicento di Balaklava del 1968 lo demistifica. All’epoca dei fatti il sarcasmo sessantottino era di là da venire. Ma insieme all’epopea degli eroi le notizie informavano sulle condizioni effettive della guerra, e documentavano da un lato l’assoluta inettitudine degli alti comandi, aristocratici di una certa età che al massimo dettero il nome a capi di vestiario, come Lord Cardigan o Lord Raglan, il comandante responsabile dell’attacco, che come molti suoi soldati morì di colera.

 

Dall’altro lato infatti le notizie informavano sulle miserabili condizioni della truppa, falcidiata dalle malattie, dalla mancanza di vettovaglie e dai disagi. I due volti della guerra, quello eroico aristocratico e quello dei massacri convissero ancora lungo, prima che i secondi – la carneficina, l’inutile strage - prendessero tutta la scena come accadde nella Prima guerra mondiale. La tecnologia procedeva inesorabile col suo carico di morte. Ogni immagine di un duello eroico fu cancellata dalla morte vile che colpisce da lontano, anonima, con i bombardamenti, i gas, infine l’aviazione. Non c’era più spazio per la nobiltà dei duelli. Proprio i cieli offersero gli ultimi segni di eroiche esibizioni: nella Prima guerra mondiale il barone Manfred von Richthofen per farsi riconoscere nei duelli aerei dipinse il suo aereo di rosso. Poi ci fu la battaglia d’Inghilterra, e infine le esibizioni di Top gun. 

 

Insieme all’epopea degli eroi le notizie informavano sulle condizioni reali della guerra. La battaglia di Balaklava

 

Intanto, fra le tende dei soldati acquartierate a Balaklava si aggirava Florence Nightingale, una inglese di buon lignaggio, dotata di grande fede religiosa, ferma determinazione e lucide competenze, preziosa miscela della civiltà occidentale. Nata a Firenze (onde il nome), attiva nella Repubblica romana del 1849, Nighingale era arrivata in Crimea di sua iniziativa con 38 infermiere da lei ben addestrate. Il Times – di nuovo il Times – ne parlò come “the lady with the lamp”, ché quando gli ufficiali dormivano, lei si aggirava negli accampamenti curando i soldati. Nacque così, con l’infiermieristica moderna, la sanità militare non solo come indispensabile dotazione degli eserciti, ma anche segno di una nuova pietas. Qualche anno prima, nel 1848, un ufficiale medico borbonico, Ferdinando Palasciano, curava i feriti di entrambe le parti in lotta, come un giorno avrebbe fatto Gino Strada. La cosa era alquanto ardita, al limite della connivenza col nemico, e  procurò a Palasciano qualche fastidio. Ma i campi di battaglia erano ormai irrorati da troppo sangue. Lo si vide anche, di lì a poco sui campi di Solferino e San Martino, nel 1859. Così, da queste iniziative sarebbe nata la Croce rossa internazionale.

 

Florence Nightingale e la nascita dell’infermieristica moderna. Dai sigari alle sigarette, un consumo di massa

 

L’idea che potesse esistere un soggetto che sui campi di battaglia non partecipava ai conflitti ma si sforzava di lenirne gli effetti era un’idea molto moderna, illuminista e cristiana. Cioè occidentale. L’accompagnava l’idea che fosse possibile sottoporre i conflitti a regole comuni, accettate dalle parti. Ovvero che fosse possibile “giuridificare” i conflitti. Proprio nel 1856 – l’anno in cui finì la guerra di Crimea con la neutralizzazione del Mar Nero che ricacciò indietro la Russia - fu firmata la convenzione di diritto marittimo – il mare era uno spazio aperto, senza confini - che tra l’altro mise fine all’antica “guerra di corsa”, dove gli Stati autorizzavano i privati ad attaccare il naviglio mercantile. Era l’età del “diritto internazionale” e vennero poi le conferenze di pace del 1899 e del 1907, convocate guarda caso per iniziativa dello zar Nicola II di Russia, che tentarono di regolare, o proibire, le armi o gli atti più letali.

 

E’ una lunga storia che servì a contenere gli effetti dei conflitti, mai a prevenirli o regolarli. Perché guerra e diritto non possono convivere. Una guerra è uno stato di eccezione refrattario a ogni limite. Contenerlo è impossibile. Dopo l’inutile strage del 1914-18 ci fu la società delle Nazioni, intesa a trovare soluzioni ai conflitti prima che esplodessero, e fallì; dopo la Seconda guerra mondiale fu creata l’Onu e il tribunale di Norimberga rappresentò la giuridificazione della vittoria alleata sul nazismo. Venne infine la Corte penale internazionale, intesa a giudicare i reati di genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra e alla quale si vorrebbe oggi sottoporre la Russia di Vladimir Putin.

 

E’ ovviamente impensabile che l’eventuale incriminazione di Putin o dei comandi militari russi abbia alcun esito. Nonostante gli sforzi generosi che l’hanno ispirata tra Otto e Novecento, nulla sembra rimanere della giuridificazione della guerra. Suo primo atto avrebbe dovuto essere nel rito della “dichiarazione di guerra”, un rito già tradito a Pearl Harbor e poi nel XXI secolo, con le Torri gemelle perfino impossibile a immaginarsi. L’attacco all’Iraq, peraltro non dichiarato, è stato l’ultimo tentativo di individuare in uno stato, dunque in un soggetto giuridico, il responsabile dell’attacco alle Torri, considerandolo una guerra non dichiarata. La guerra mossa dalla Russia all’Ucraina non solo non è dichiarata, ma non è definita guerra, ed anzi chi in Russia la definisse tale è passibile di prigione. Con ciò si infrange l’altro grande progetto, oltre a quello di costruire un ordine giuridico condiviso, ovvero quello che ha spinto il Times a mandare William Howard Russell in Crimea e a forzare le sue rotative, il progetto di accertare la verità.

 

I due progetti – sottoporre i conflitti a un ordine giuridico e i fatti della storia a una verità accertata e perciò condivisa – sono i due volti della stessa moneta, che segna il culmine dell’occidente illuminista e delle sue libertà. Ma oggi gli eredi di William Hovard Russell parlano – se parlano – solo al loro mondo: per gli altri, i morti còlti dal loro obiettivo sono attori, i palazzi crollati sono set cinematografici. La libertà di stampa è diventata afona. In un mondo in cui la tecnologia consente a tutti di vedere e sapere tutto, non occorre più manipolare l’informazione, è sufficiente rinominarla: ceci n’est pas une guerre, per dirla con Magritte, la schiavitù è libertà, per dirla con Orwell, e chi difende la libertà è nazista, per dirla con Putin. Anche la falsificazione esibita ha la sua storia, che possiamo fare iniziare proprio in Russia con i Protocolli dei savi di Sion, che tanto più sono falsi accertati tanto più continuano a funzionare. E’ seguita con ogni sorta di negazionismo, tanto più efficace se riguarda l’evidenza accertata, sotto gli occhi di tutti: i forni crematori, gli uomini sulla Luna, le Torri gemelle. 

 

 

All’ordine del diritto e alle verità condivise si pretende allora di opporre qualcosa di più grande e importante, una civiltà. Possiamo così tornare alla guerra di Crimea. Ci fu chi disse che le campagne del Times stavano distruggendo la mistica unità del paese. Denunciando, rivelando, documentando introducevano un vulnus, anzi un virus che indeboliva la patria. E allora viene da pensare a un’altra innovazione nata sui campi di Crimea. Non sappiamo cosa ci facesse da quelle parti uno scozzese di nome Robert Peacock Gloag che lì vide turchi e russi che fumavano i piccoli cilindri di carta paglierina riempiti di tabacco, e li mise in vendita a Londra. Fece fortuna. Qualche tempo dopo furono inventati i macchinari in grado di produrre duecento sigarette al minuto. Cadde il prezzo. Di lì alla fine del secolo in Gran Bretagna il consumo crebbe di circa il 5 per cento ogni anno, divenne di massa. Dai fumoirs dove chiacchieravano i maschi altoborghesi con i loro sigari, il fumo conquistò ogni spazio, divenne democratico, così aprendo un ciclo di circa un secolo prima che iniziasse il contraccolpo: il fumo fu ammesso negli scompartimenti ferroviari nel 1860, vi fu bandito circa cento anni più tardi. Chissà che non succeda anche alla democrazia.

 

La diffusione delle sigarette fa parte della nostra storia non solo perché l’idea venne dalla Crimea, ma anche perché qualcuno allora disse che l’evidente danno alla salute che derivava dalla dipendenza dal tabacco era segno di un declino di civiltà. I letargici fumatori turchi erano gli indegni eredi di Solimano il Magnifico, così si disse, e andavano ad affiancare l’immagine familiare di altri fumatori abbrutiti, come gli indiani d’America, o gli arabi con i loro narghilè. Forse un giorno i nuovi consumi avrebbero segnato il declino dell’Europa, dell’occidente? 

 

Chi nega l’universalità del diritto e la forza della verità crede dunque di chiamare in causa valori di grande respiro. Crede con ciò di salire sulle spalle di Tolstoj, di Dostoevskij o di Solgenitsin. In realtà si affida alla pochezza piccoloborghese di un agente del Kgb. Che procede massacrando popolazioni inermi, vietando le parole e eccitando le folle negli stadi. E’ lecito dubitare della sua vittoria finale. Forse verità e diritto hanno ancora un futuro.

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