Soldati ucraini a Bucha (Ansa) 

Il conflitto in Ucraina ci impone un giudizio, per distinguere le ragioni dai torti

Sergio Belardinelli

Fra qualche secolo non possiamo escludere che ragioni e torti saranno dimenticati e resterà forse soltanto la vaga memoria del sangue versato versato. Ma il giudizio che dobbiamo dare adesso non è storico, bensì politico e morale. E allora non si può darla vinta ai prepotenti, né si possono assumere posizioni equidistanti

Esiste una guerra giusta? E’ giusto fornire armi a chi, invaso dai carri armati di un altro paese, ha deciso di difendersi a ogni costo? E’ giusto che i paesi aderenti alla Nato si preoccupino di investire risorse adeguate per migliorare il proprio sistema di difesa? E ancora: che cosa dovrebbero fare gli ucraini di fronte agli aggressori russi che bombardano anche donne e bambini? Combattere oppure arrendersi perché la guerra è sempre una cosa ripugnante e sacrilega? 

Dal mio punto di vista, lo dico un po’ bruscamente, si tratta di domande puramente retoriche. L’invasione del territorio ucraino da parte dell’esercito russo rende sacrosanto il diritto degli ucraini a difendersi; giusta la decisione di aiutarli fornendo loro armi e applicando sanzioni economiche alla Russia; giusta la decisione da parte dei paesi aderenti alla Nato di innalzare la quota di pil da dedicare alla difesa militare, presa peraltro già prima che la guerra in Ucraina scoppiasse. Punto. Con buona pace di coloro che non da oggi confondono il mondo reale con quello cantato da John Lennon in Imagine, pensando di espungere il tragico dalla condizione umana con parole più o meno edificanti. 

Non intendo negare ovviamente l’orrore della guerra, di ogni guerra, anche della guerra giusta, ma è precisamente di questo orrore che bisogna cercare in qualche modo di rendere conto, specialmente se vogliamo evitare che ogni volta si assecondi semplicemente il diritto del più forte, senza nemmeno provare a distinguere il torto dalla ragione o le vittime dai carnefici. Si tratta in fondo di salvaguardare un minimo di decenza nelle cosiddette relazioni internazionali. Per questo, ad esempio, i nostri ordinamenti giuridici prevedono uno jus ad bellum, il diritto di fare la guerra, ma anche la proporzionalità nell’uso della forza militare, nonché uno jus in bello, il diritto che dovrebbe impedire alla guerra di trasformarsi in qualcosa di assolutamente disumano. Tutto ciò purtroppo non sempre impedisce che i prepotenti calpestino le norme più elementari della giustizia, accampando ragioni il più delle volte inconsistenti (vedi la dichiarazione con la quale Putin ha dato il via alle “operazioni militari” in Ucraina). Come scrive Raymond Aron, “la guerra rischia sempre di spazzare via le norme legali o convenzionali cui normalmente è soggetta… Non è mai ‘legalizzata’ a titolo pieno e definitivo”. Ma proprio per questo le cosiddette “leggi di guerra” sono preziose. Per quanto deboli e precarie, esse  esprimono pur sempre la volontà di non rassegnarsi all’arbitrio del più forte.   

A causa della violenza e delle vittime innocenti che porta con sé, la guerra esaspera la tragica irrazionalità che spesso avvolge la politica e le vicende umane in generale. Ma questo non significa l’impossibilità di distinguere le ragioni dai torti. Nel caso della guerra in Ucraina, ad esempio, sono evidenti le ragioni degli ucraini che si difendono e i torti dei russi invasori, come pure l’impossibilità per gli ucraini di evitarla. Ciò che Putin pretendeva da loro, infatti, sia detto a dispetto di tutti i pacifisti, semplicemente non era negoziabile, tanto è vero che ha deciso di prenderselo con i carri armati, mettendoli di fronte a un’alternativa secca: arrendersi o combattere.

Magari più avanti gli storici ci diranno di più sulla vera posta in gioco in questa guerra, sulla vera strategia di Putin, sui suoi errori e i suoi crimini, sugli errori dell’occidente e via discorrendo; vedremo forse aspetti che adesso non riusciamo a vedere; fra qualche secolo poi non possiamo escludere che dell’eroismo degli ucraini non resterà più nulla, che ragioni e torti saranno dimenticati e resterà forse soltanto la vaga memoria di altro sangue che è stato versato. Fa parte anche questo del tragico che incombe sulla storia e sulla condizione umana. Ma il giudizio che dobbiamo dare adesso non è un giudizio storico, bensì politico e morale. E allora non si può darla vinta ai prepotenti, né si possono assumere posizioni equidistanti, vuoi in nome del pacifismo vuoi in nome dell’opportunismo, specialmente quando una delle parti in causa (l’Ucraina) si sta giocando la sopravvivenza col sacrificio dei suoi soldati e dei suoi cittadini. 

Se questa guerra continuerà, non possiamo escludere che molti europei, in particolare tedeschi e italiani, vista la loro dipendenza dal gas russo, dovranno fare sacrifici notevoli. Ma spesso è proprio la disponibilità al sacrificio a dare dignità agli uomini e alle nazioni, dimostrando in modo eloquente la giustezza di una causa. Di certo non possiamo dire la stessa cosa della tendenza a venire a patti a ogni costo con la Russia, anche chiudendo gli occhi sui massacri perpetrati in questi giorni nei confronti di civili ucraini (vedi Bucha), pur di salvaguardare semplicemente un benessere che diventerà proprio per questo sempre più precario. E’ tempo dunque di uscire dalle nostre semplificazioni consolatorie e dai nostri biechi calcoli opportunistici, guardando la realtà e il male per quello che sono. Quanto alla politica, c’è soltanto da augurarsi che essa sia all’altezza del suo compito, che in questo momento è quello di cercare in tutti i modi di ripristinare la pace con quanta più giustizia è possibile. Ma senza lisciare il pelo al più forte.

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