il ritratto della scienziata

Remare all'indietro col traguardo alle spalle

Grazie a Katalin Karikó possiamo baciarci. A causa sua facciamo progetti per Capodanno. Per distruggere basta un tweet di un secondo, ma lei ha speso la vita intera per costruire la sua scoperta. Traslochi, fallimenti, povertà e gioia della scienziata ungherese che ha salvato il mondo 

Annalena Benini

Questo articolo è tratto dal secondo numero del Foglio Review, il magazine mensile diretto da Annalena Benini, da sabato 27 novembre in allegato con il quotidiano. 

 


 

Susan Francia, giovane americana di origini ungheresi, ha vinto due medaglie d’oro alle Olimpiadi nel canottaggio. Dice che questo sport le ha insegnato la determinazione: “Noi remiamo all’indietro. Non sappiamo dove sia il traguardo, ma confidiamo che sia lì e che lo raggiungeremo”. Andiamo avanti e guardiamo indietro, diamo le spalle al traguardo, senza sapere esattamente dove e quando arriveremo. Susan Francia ha imparato questo particolare tipo di ostinazione, prima che dal canottaggio, da sua madre: in Ungheria, nei primi anni Ottanta, e poi in America. Niente soldi, molto remare, molto studiare, spesso fallire, e usare i fallimenti per imparare, concentrandosi sulla strada e non sul finale. Susan si è sposata l’anno scorso, e durante i preparativi cercava di raccontare a sua madre del vestito da sposa, ma la madre la interrompeva per parlarle del vaccino contro il Covid, e le diceva: cerca BioNTech su Google. Susan non capiva. Dopo, mille baci tra loro, e poi altri mille. 

 

Il nostro sistema immunitario ora riconosce il virus e lo combatte. Grazie a Kati che dormiva sul pavimento e non ascoltava chi le diceva: cambia strada, pensa alla carriera


La madre di Susan è la scienziata biochimica Katalin Karikó: grazie a lei ci siamo vaccinati contro il Covid (Pfizer e Moderna dipendono entrambi dall’Rna messaggero scoperto da Karikó e dal suo collega Weissman), grazie a lei abbiamo ricominciato a vivere e a incontrarci, grazie a lei (o a causa sua) stiamo facendo progetti per Capodanno. Ci baciamo. Ci tocchiamo. Siamo fragili e restiamo vivi. Possiamo difenderci perché il nostro sistema immunitario adesso sa riconoscere il virus e combatterlo. Grazie all’Rna messaggero creato da Karikó, possediamo l’informazione genetica necessaria. Offriamo al medico il nostro braccio, a volte ci fa un po’ male la notte, e poi diciamo, sprofondati nel divano o a cena con gli amici, con l’aria sospettosa di chi non si fa prendere in giro: ma io non so che cosa c’è dentro. C’è qualcuno che lo sa? Sì, c’è. Katalin Karikó, sessantasei anni, l’ha studiato tutta la vita. L’Rna messaggero, e la sua capacità di istruire le cellule a costruire le proprie medicine, è la somma degli esperimenti, le borse di studio, i decenni, i traslochi, le notti in laboratorio per risparmiare sull’affitto di una stanza. A volte Katalin ha dormito direttamente nel sacco a pelo sul pavimento. Sua figlia l’aspettava a casa il sabato, suo marito costruiva i mobili della casa, anzi ha costruito anche la casa. Niente vacanze perché non c’erano soldi (adesso sono tantissimi, premi su premi, adesso a Katalin viene da piangere se pensa a quanto a lungo è stata povera, ma allora non se ne accorgeva: “Mi sentivo Dio”, ha detto). L’Rna messaggero è stato la sua fissazione da quando era una ragazza bionda, allegra e competitiva. Una scienziata di campagna che non aveva mai incontrato un altro scienziato, ma aveva osservato i cervelli delle mucche e delle pecore perché suo padre era macellaio, come il nonno, in un paese a centocinquanta chilometri da Budapest. L’Rna messaggero è rimasto la fissazione anche in tutti gli anni in cui gli esperimenti andavano male e i colleghi ridevano di lei, venivano promossi, andavano altrove: si chiama fallimento se l’esperimento arriva fino a un certo punto, va tutto a meraviglia e poi zac, le cellule impazziscono e muoiono? Secondo Katalin Karikó no: era solo remare all’indietro. I capi erano seccati, i fondi per la ricerca finivano o le venivano negati. Lei poi parlava con questo accento ungherese forte e non faceva attenzione alle relazioni, alla politica accademica, alle alleanze: non gliene importava se uno meno bravo faceva carriera al posto suo, voleva solo saperne più di tutti. Un giorno un suo superiore in Pennsylvania disse agli altri: “Kati lavora per me”. Lei rise: “Oh, Frank. Non lavoro per te. Credi che quando vengo qui il sabato e la domenica, sto venendo per te? Sono qui per me. Per saperne di più, per capire”.  Se Katalin Karikó avesse ascoltato chi le diceva: è un bel concetto, ma è un vicolo cieco, cambia strada, tesoro. Se si fosse stancata di conservare gli elementi per gli esperimenti nei barattoli dei sottaceti ungheresi, e di portare a casa l’attrezzatura guasta per farla riparare da suo marito, negli anni Novanta, negli anni Duemila, se avesse deciso di passare più tempo con sua figlia, anche, di accompagnarla alle partite di basket e di mandare al diavolo la sua ossessione, le nostre prospettive adesso sarebbero diverse, la libertà più lontana. Quando parlava al marito e alla figlia dell’Rna messaggero loro dicevano “Wow, grande”, e poi Susan pensava: ma quando si cena?

 

“Kati sta lavorando per me”. 
“Oh, Frank, non lavoro per te. 
Credi che il sabato e la domenica vengo qui per te? Sono qui per me”

 

Katalin Karikó ha avuto per la ricerca e per le difficoltà lo stesso atteggiamento di Marie Curie, che da Parigi scriveva a casa, in Polonia, a suo fratello: “La vita non è facile per nessuno di noi. E allora?”. La differenza più evidente (a parte il Nobel, non ancora vinto) è che Marie Curie è serissima in tutte le fotografie, Katalin Karikó sorride sempre. Da bambina, da ragazza con le amiche, alla laurea, con il fidanzato, con i colleghi, sui prati ungheresi e nei laboratori della Pennsylvania (il suo posto preferito è in piedi, al banco, con le mani nei barattoli), Katalin Karikó ride: sembra felice. E risponde a tutte le mail. Ha risposto anche a me, che le chiedevo il permesso di usare le sue fotografie private, e anzi si è scusata per averci messo qualche ora di troppo. Mezzo secolo fa un endocrinologo  piuttosto famoso le ha mandato una lettera di risposta nella piccola città ungherese. Quando ha visto arrivare quella busta carica di francobolli, Katalin ha capito che qualcosa di più grande era possibile. Che la distanza non esiste. Così adesso risponde per ore anche a quelli che hanno esitazioni sul vaccino, che le chiedono, appunto, che cosa c’è dentro. Risponde perché si sente responsabile delle vite e dei dubbi, risponde alle lettere perché qualcuno una volta ha risposto alle sue. Karikó ha ricevuto anche molte lettere di rifiuto. Fondi negati, esperimenti non riusciti, altri rifiuti, abbandoni. Colleghi che dicevano: adesso basta. Superiori che dicevano: niente più spazio al banco

 

Hanno venduto l’auto rossa, hanno cucito i soldi nell’orso marrone di Susan e sono andati in America. Quell’orso ha una gloriosa cicatrice 

La prima volta è successo in Ungheria, quando era una giovane ricercatrice. Allora ha scritto ovunque in Europa, cercando un lavoro, ma nessuno aveva un posto per lei. Nel 1985 (trentacinque anni prima del Covid) le hanno offerto un lavoro a Filadelfia, all’università. Sua figlia Susan aveva tre anni. Hanno venduto l’automobile rossa che vedete nella foto. Il governo comunista impediva ai cittadini di emigrare portandosi via più di cento dollari, così Karikó ha cucito tutto quello che avevano, circa 1.200 dollari, nell’orso marrone con gli occhi cerchiati di rosso di Susan. Quell’orso c’è ancora, ha quarant’anni e una lunga, gloriosa cicatrice sulla schiena. Ma in America non è stato facile, non ci sono stati scatti di carriera. A nessuno importava granché dell’Rna messaggero. Sempre remare all’indietro. Serviva un modo diverso per salvare quelle cellule. Karikó non ha mai pensato di abbandonarle alle loro improvvise infiammazioni. Non ha mai pensato di sentirsi delusa, di dire addio: ogni fallimento era un’informazione in più. Ogni esperimento non riuscito affina la conoscenza, mostra qualcosa di impreciso che può essere migliorato. Gli esperimenti non sbagliano mai, le aspettative sì, è lei a dirlo.

 

Gli esperimenti non sbagliano mai, le aspettative sì. Ogni fallimento è un’informazione in più. I barattoli dei sottaceti ungheresi


Un giorno, verso la fine degli anni Novanta, una di quelle volte in cui Karikó era rimasta di nuovo senza fondi e senza laboratorio, ha incontrato un tizio vicino alla fotocopiatrice. Ha detto: ciao, sono Kati, una scienziata dell’Rna messaggero. Drew Weissman, immunologo, le ha detto: io vorrei sviluppare un vaccino per l’Hiv. Lei ha risposto: ok, posso farlo, sono piuttosto brava, mi serve solo qualche altro esperimento.  Dal giorno della fotocopiatrice in quasi dieci anni insieme hanno salvato le cellule dagli effetti collaterali e hanno pubblicato la loro ricerca. Il lieto fine però non è qui, ci vuole ancora, di nuovo, pazienza. Karikó e Weissman non hanno ricevuto neanche una telefonata. Pochi complimenti. E niente soldi. Fino a quando gli scienziati Ug˘ur S¸ahin e Özlem Türeci, marito e moglie, e la loro nuova azienda, una piccola start-up chiamata BioNTech, hanno deciso di sviluppare vaccini contro il cancro e hanno chiesto la licenza del brevetto di Karikó e Weissman. Nel 2013, dopo trent’anni di studio, Karikó ha lasciato il suo laboratorio, dove non aveva raggiunto nessuna carica importante, ed è andata in Germania a BioNTech, che non aveva ancora neanche un sito web. “Per una settimana, ogni notte, mi sono addormentata piangendo”. Ma la scienza si muove prima molto lenta, poi molto veloce, e Karikó è arrivata al traguardo di spalle: dopo che gli scienziati cinesi hanno pubblicato la sequenza genetica del Covid 19, per creare il vaccino sono bastate poche ore. Karikó ha salvato il mondo remando all’indietro. Ora il capo del suo vecchio laboratorio terrà una conferenza su di lei: racconterà la grandezza che si è lasciato scappare, il fallimento di chi guarda solo l’obiettivo e non la strada. Lei invece ogni mattina va a correre. Poi si siede, e prima di ricominciare a studiare legge le lettere che riceve. Molti vogliono solo dirle grazie, mandarle un bacio. Risponde a tutti e si firma: Kati.

 

Per uno slogan o per un tweet contro il vaccino basta un secondo. Per il traguardo di Kati c’è voluta la vita intera.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.