Una delle celebri incisioni che il francese Gustave Doré fece nel 1861 per la Divina Commedia di Dante Alighieri (Wikipedia)

Il foglio del weekend

Divina parolaccia

Siegmund Ginzberg

Ingiurie, invettive, maledizioni e improperi. La Commedia di Dante è piena di insulti e turpiloqui. Quello che le celebrazioni non hanno detto

Era uno che parlava come noi. La politica lo faceva soffrire. E lui la prendeva a male parole come facciamo noi. Questo forse è un aspetto che è stato trascurato nell’alluvione di retorica celebrativa. Le parole più ingiuriose Dante le dedica alla politica e ai politici della sua Firenze e della sua Italia, ai partiti che si dilaniano l’un l’altro e soprattutto al loro interno, tra famiglie e correnti. Lo sappiamo: è un militante, un uomo di parte, ma le parole più amare le riserva spesso non alla parte avversa ma alle sfilacciature della propria stessa parte. Sfogliamo la Divina Commedia. Tra “la gente attuffata in uno sterco”, che “da li uman privadi parea mosso” (come fosse appena svuotato dalle latrine), vede “un col capo sì di merda lordo” che non si capisce se fosse laico o tonsurato (Inferno, Canto XVIII, versi 113-117). Quello gli chiede sgarbatamente cos’ha da fissarlo. E Dante riconosce un tale Alessio Interminei da Lucca, un adulatore, un leccaculo, che, “battendosi la zucca”, (v. 124) gli rivela: “Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe / ond’io non ebbi mai la lingua stucca” (125-126).

 

I commentatori chiariscono: il personaggio è un guelfo bianco, quindi uno dello stesso partito di Dante, venuto da Lucca a dar man forte ai compagni fiorentini. Poi Virgilio gli indica una “sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose”” (130-131), la “puttana” Taide. Poco più avanti, arrivano Papi corrotti la cui “avarizia il mondo attrista / calcando i buoni e sollevando i pravi” (Inf. XIX, 104), adusi qual la grande meretrice dell’Apocalisse di Giovanni “a puttaneggiar coi regi” (v. 108). Nel Canto VII si scontravano insultandosi a vicenda con “ontoso metro” (v.33) le schiere degli avari e degli spendaccioni, gridandosi: “’Perché tieni?” e “Perché burli?” (v.30). I partigiani dell’austerità contro quelli della finanza allegra? “Pape Satàn, pape Satàn Aleppe!” è il modo, che non suona esattamente come parole gentili, in cui all’inizio del canto li aveva accolti l’infernale Pluto. Ma poi leggiamo di tutto e peggio in fatto di volgarità: dal demone che “avea del cul fatto trombetta” (Inf. XXI, 139), fino a chi bestemmia niente meno che il Padreterno, alzando le mani “con ambedue le fiche, / gridando: ‘Togli, Idio, ch’a te le squadro’” (Inf. XXV, 2,3).

 

Non si contano ingiurie, invettive, maledizioni e improperi. Diretti ai nemici storici di Firenze (“Ahi Pisa, vituperio delle genti | del bel paese là dove ‘l sì suona, | poi che i vicini a te punir son lenti, | muovasi la Capraia e la Gorgona, | e faccian siepe ad Arno in su la foce, | sì ch’elli annieghi in te ogne persona!” - Inferno XXXIII,79-83), ma anche agli amici e alleati. Ma soprattutto ai suoi concittadini, con particolare accanimento verso quelli più noti, che furono a capo dei principali partiti, o che furono suoi colleghi nelle istituzioni cittadine. “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!” lamenta Sordello nel canto VI del Purgatorio (vv.76-78). Tutta Italia è lacerata dalle lotte di fazione, di corrente, tra famiglie: “Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi e questi con sospetti! […] Vieni a veder la tua Roma che piagne […] vieni a veder la gente quanto s’ama” (Purgatorio, VI, 106-115). Non solo Guelfi e Ghibellini, ma fazioni all’interno delle fazioni. Anche Dante è uomo di parte, si capisce. Appassionatamente, sfegatatamente di parte. Odia gli indifferenti, disprezza gli ignavi, quelli che non presero parte, color che “vissero sanza’nfamia e sanza lodo” (Inf. III, 36), mischiati “a li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio”. “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. “Ghibellin fuggiasco” fu definito dal Foscolo. In realtà non era ghibellino ma guelfo, guelfo di parte bianca. Nella sua Firenze ci si scannava non tanto per ideologie ma per lealtà di famiglia, clientela, potere e, soprattutto, per i soldi. Si cambiava facilmente parte e casacca. Anche Dante cambiò ripetutamente parte, idee, simpatie, fedeltà. Talvolta gli capitò di andarsene da un partito, e poi tornarci. Qualcuno gli darebbe del voltagabbana. Arrivò a umiliarsi perché lo lasciassero tornare dall’esilio. Rivelatosi tutto inutile mandò senz’altro gli interlocutori all’inferno.

 

Era un politico, aveva ricoperto cariche elettive e incarichi importanti. Se lo si vede sempre ritratto nella divisa rossa dei medici e farmacisti, è perché a un certo punto, nel “nuovo stato di popolo” che aveva sostituito il prepotere dei “magnati”, per fare politica a Firenze bisognava essere iscritti a una corporazione di mestiere. Teneva famiglia. E ingombrante. Il padre faceva l’usuraio. Pure il nonno egli zii. E anche uno dei fratelli. Da parte di moglie era imparentato con i Donati, capifila della fazione opposta dalla sua. Interessante che dal pochissimo che sappiamo della sua attività politica venga fuori che era favorevole ai compromessi, all’allentamento delle misure restrittive che una parte imponeva all’altra, se non addirittura alla riconciliazione.

 

La politica fiorentina a cavallo tra 1200 e 1300 era un gioco intricatissimo in cui si intrecciavano interessi corporativi, di clientela, alleanze estere, alleanze e divergenze di corrente e di famiglia, oltre che interessi di classe, ma anche interessi privati e personali. Un gioco in cui ci si poteva trovare all’improvviso insieme a compagni di strada imprevisti, avvertono gli studiosi. O a doversi separare dai compagni di un attimo prima. Era rampante la corruzione, e pure la corruzione giudiziaria, cioè di chi avrebbe dovuto vigilare sulla corruzione.  Quanto alle regole di elezione e avvicendamento alla testa delle istituzioni, sono un vero e proprio rebus. Aria di attualità? Appunto, ed è proprio questo a rendere l’argomento assolutamente affascinante. 

 

La fama di ghibellino gli viene dalla foga con cui se la prende con i papi che gli stanno sullo stomaco e con la corte di Roma, e dalla convinzione con cui invoca un’autorità imperiale che metta fine al marasma delle lotte di fazione, dalla nostalgia con cui guarda all’Impero di Federico II, e alla sua corte di intellettuali eccellenti. Dante è uno che guarda al passato, non al futuro. È un “reazionario”, come sostenne Edoardo Sanguineti. Sogna il leader perfetto, il “governo dei migliori”, C’è chi ha spiegato, in tempi non sospetti: “Dante, insomma, coltiva l’immagine di una curia (quella dell’Imperatore svevo) che era stata capace di calamitare i migliori ingegni d’Italia e di raccoglierli entro una prospettiva politica e culturale unificante”. Un’utopia meritocratica, insomma. Una speranza immaginaria, così come lo è quella dell’uomo della provvidenza, del leader duro e puro, del Veltro che avrebbe dovuto venire a salvare l’Italia. Sappiamo che allora andò in tutt’altro modo. Ma chi se la sente di biasimare le illusioni, o almeno le speranze quando la crisi morde con più ferocia?

 

Quelli a cui Dante non perdona, che vitupera ricorrendo a parole ancora più dure di quelle con cui si riferisce agli avversari, sono quelli della sua parte, quelli tra i quali aveva militato, e pure in posizione di spicco. Quelli li sbrana proprio, altro che limitarsi a provare “vergogna” per loro. Li chiama malvagi, scempi, ingrati, matti, empi, addirittura bestiali. “E quel che più ti graverà le spalle, / sarà la compagnia malvagia e scempia / con la quale tu cadrai in questa valle; / che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr’a te; ma poco appresso, / ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. / Di sua bestialitate il suo processo / farà la prova, sì ch’a te fia bello / aver fatta parte per te stesso”. Così fa profetizzare il suo avo Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso (vv. 61-69). Bellissimo quel “far parte per se stesso” riferito a un uomo che per metà della sua vita aveva militato, e con quanta passione, in un partito che non lo riconosce più e in cui lui non si riconosce più. “Resterai solo” mi aveva profetizzato, ormai parecchi decenni fa, il mio direttore Gerardo Chiaromonte, uno dei più intelligenti e lucidi dirigenti storici del Pci, oltre che uno dei non molti con cui si poteva discutere con franchezza. 

 

La Divina commedia è un poema di parole e parolacce. La grande letteratura, di ogni tempo, non si è mai tirata indietro quando si trattava di mettere i puntini sulle i, cioè un insulto o una parolaccia al posto giusto. Dall’intraducibile Catullo (Pedicabo ego vos et irrumabo) ai colossali vaffa di Giovenale, dalle meravigliose goliardate linguistiche di Rabelais (Ma dove cacavi? chiede Pantagruel ad Alcofribas [François Rabelais?] che gli era finito accidentalmente in bocca scoprendo mondi interi; in bocca a voi signore, gli risponde quello), al più timido Cervantes che le palabrotas le mette in bocca a Sancho anziché a Don Chisciotte, a Shakespeare che in quantità e varietà di insulti, parolacce e doppi sensi supera tutti quanti, la letteratura occidentale è una festa del turpiloquio. In buona compagnia della letteratura russa e di quella cinese – Lu Hsun aveva dedicato un intero saggio al tamadi, letteralmente “… di tua madre”. Per gli americani motherfucker è diventato di uso comune, anzi ormai è quasi un vezzeggiativo. Anche i turchi non sono niente male (sono arrivato da migrante in Italia che avevo solo otto anni, il turco l’ho dimenticato, ma credetemi, saprei snocciolarvi ancora un’intera sfilza di insulti da facchino). Quanto ai persiani, hanno un’etichetta tutta loro. Poi ho imparato l’italiano e ho scoperto che c’è un paese e una lingua (credo sia proprio l’unico al mondo) dove l’arte dell’insulto è così avanzata che si bestemmia, cioè si insulta non solo le donne e le madri (specie altrui, questo è comune a tutti), ma addirittura il proprio dio. 

 

Nella sterminata produzione editoriale e giornalistica che accompagna il settecentenario della morte di Dante, figura un delizioso quanto colto libriccino del filologo dell’Università di Salerno Federico Sanguineti, che è peraltro figlio di Edoardo: “Le parolacce di Dante Alighieri” (Tempesta editore, 2021). L’idea è che Dante mescoli sistematicamente nella sua Comedìa parole e parolacce, prendendo ad esempio la Bibbia, che fa esattamente lo stesso (un intero capitolo è dedicato alle parolacce nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento). Solo gli ipocriti non dicono parolacce. Per questo Gesù li taccia di “sepolcri imbiancati”. Le parolacce sono il modo in cui dialoga con gli altri poeti del dolce stil novo, con Cecco Angiolieri e Guido Cavalcanti, con i trovatori provenzali, persino con i racconti salaci dei fabliaux, cioè col punto più alto della cultura europea della sua epoca. Senza parolacce non ci sarebbe la dolce lingua del sì. 

 

Angelicata o corporea che sia, è una cultura che ancora rispetta le donne, mentre già nel secolo successivo anche un umanista colto come Leon Battista Alberti la vorrà “muta”, “serrata in casa”. Oppure, nella versione di un tantino più rozza di frate Cherubino da Spoleto, anche lui quattrocentesco, da “castigare” e “riprendere” se facesse “alcuno difetto ed errore che non debbe fare”. “Piglia il bastone e battila molto bene”, il consiglio. Non per niente Cristina da Pizan, coltissima scrittrice di fine Trecento, preferisce Dante ai predicatori: è lei a tradurlo, e farlo conoscere in Francia, dove è emigrata, c’est a dire al mondo. Da buon filologo, Sanguineti ci rende edotti anche del Dante censurato, nel corso dei secoli, di quelle che venivano considerate dai copisti parolacce. Correggono “feccia” quando Dante scrive “merda”, annerano il “puttaneggiar” riferito alla Chiesa (inf. XIX,107- 111), lasciano spazi bianchi laddove si narra della sorte riservata a Bonifacio VIII, mettono i puntini dove è la parola Dio, e così via, copia dopo copia. Aveva cominciato, purtroppo, già Petrarca a sdegnarsi all’idea che Dante parlasse in modo da farsi intendere e ottenere il plauso, per lui “offensivo” di tintori, bettolai e lanaioli (fullonum et cauponum et lanistarum ve, qui quos volunt laudare vituperant).

 

Quanto al rapporto tra Dante e la politica, alle vexata questio del perché fu processato, condannato per baratteria (cioè per corruzione), esiliato, e addirittura condannato a morte per impedire che tornasse, del ruolo che aveva quando ricoprì cariche politiche a Firenze, su che posizione aveva assunto in merito alle controversie del suo tempo, sul perché ce l’avevano tanto con lui, prima quelli del partito avverso, e poi, con pari violenza, quelli del suo stesso partito, da leggere assolutamente il “Dante” di Alessandro Barbero, che completa e sintetizza i numerosissimi studi, anche recenti su Dante che tiene famiglia e Dante politico. Uscito da Laterza nell’autunno del 2020, è da mesi costantemente nella classifica dei best-seller. Pour cause.

 

Di più su questi argomenti: