Senza mai perdere di vista l'umanità. Addio a Gianrico Tedeschi

Aveva iniziato a recitare in un lager tedesco con Enzo Paci e Giovannino Guareschi, suoi compagni di prigionia, e da allora non aveva mai smesso di vivere il teatro come passione per la vita. È morto ieri sera, a 100 anni

Marina Valensise

Il Teatro Greco di Siracusa e soprattutto l’Inda, l’Istituto nazionale del dramma antico, che da oltre un secolo organizza le rappresentazioni classiche, piangono Gianrico Tedeschi che ne è stato un protagonista assoluto. Mitica la sua partecipazione all’Elettra di Sofocle per la regia di Guido de Monticelli, in cartellone nel 1990. Era la prima volta che Tedeschi, veterano delle scene teatrali italiane, calcava le sacre tavole del Teatro Greco, scolpito nella roccia calcarea del colle Temenite dove Eschilo aveva visto la messa in scena delle Etnee.

 

E c’è ancora chi come Aldo Mantineo ricorda l’emozione e il candore con cui il grande attore ormai settantenne affrontò la nuova prova. “Non mi meraviglio mai di niente, e confesso, mi sento ancora emozionato. Guai anzi se non fosse così”, disse Tedeschi, che aveva quarant’anni di carriera alle spalle e la genuinità di un esordiente pieno di entusiasmo. “Questo è un luogo unico al mondo. Qui non si recita solamente, è come compiere un rito. Quando si entra in scena col sole e si rientra nei camerini al buio, sotto la luce artificiale dei riflettori, si provano sensazioni indescrivibili che tolgono quasi il fiato….È come fare un tuffo nel passato, tornare indietro di tremila anni, e poi invece alzi gli occhi, vedi il pubblico intorno a te, e ti accorgi che tutto è realtà”.

 

Gianrico Tedeschi recitava i versi di Sofocle nel Teatro Greco di Siracusa nell’anno di Italia 90. Allora come oggi il campionato mondiale di calcio calamitava l’attenzione dei più, spingendo tanti a bistrattare la cultura a vantaggio del pallone, quando invece com’è ormai assodato il rapporto tra l’indotto dell’una e dell’altro è senza proporzione e tutto a favore della cultura. Eppure allora Tedeschi aveva chiari non solo i numeri, ma soprattutto l’incommensurabile portata del teatro, del teatro dal vivo e della tradizione teatrale, insidiata in quegli anni dalla televisione oltreché dal cinema, e da un uso dissennato dei parametri dell’audience che minacciava di scalfire la legittimità dello spettacolo dal vivo. Lungi dall’essere un integralista, però, il grande attore, artista versatile, popolare e amatissimo dal grande pubblico, per la sua capacità di rinnovarsi e di accettare sempre nuove sfide, guardava senza pregiudizi al possibile connubio tra teatro e televisione. Era convinto che fosse possibile celebrare quel matrimonio e persino con reciproca soddisfazione, come del resto la sua stessa carriera dimostrava per il continuo andirivieni e tra teatri di prosa e rivista, tra cinema e pubblicità.

 

Impegnato a portare in scena la tragedia classica della maledizione degli Atridi e la vendetta di Elettra, la figlia di Agamennone, smaniosa di sangue contro la madre uxoricida Clitemnestra, e sobillatrice del fratello Oreste, creduto morto, Tedeschi recitò il ruolo del pedagogo, svettando sopra tutti gli altri nel famoso monologo del racconto della morte di Oreste, accolto da applausi fragorosi. Era all’apice del suo talento, eppure conservava l’umiltà dell’artista vero, dell’artigiano della voce, della declamazione limpida, chiara, intensa e mai stentorea.

 

Aveva iniziato a recitare in un lager tedesco con Enzo Paci e Giovannino Guareschi, suoi compagni di prigionia, e da allora non aveva mai smesso di vivere il teatro come passione per la vita. Allievo dell’Accademia Silvio D’Amico, destinato a una carriera sfolgorante sotto la direzione dei grandi registi del Novecento, da Luchino Visconti a Luca Ronconi passando per Giorgio Strehler, era un artista eclettico e un uomo curioso, che non disdegnò mai di combinare l’alto e il basso, alterando la rivista o la commedia musicale, famosa My fair lady di Garinei e Giovannini, coi capolavori del teatro di prosa, cimentandosi con successo nei drammi radiofonici, ma anche nelle trasmissioni di varietà, come pure negli sceneggiati televisivi di Antonello Falqui, e trovando naturalmente il suo posto di protagonista nel cinema e persino nella storia della pubblicità televisiva. Un artista a tutto campo, insomma, un attore completo, un mostro sacro che ha segnato l’arte drammatica italiana, passando il testimone dalla generazione di Salvo Randone e Romolo Valli a quella di Sergio Rubini e Massimo Popolizio, senza mai perdere di vista l’umanità estrema e dunque l’umiltà del suo talento di istrione.

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