Le tante vite e reincarnazioni di Carlo Coccioli, lo scrittore sciamano

Edoardo Rialti

L'opera omnia del girovago che incarnò il Novecento

Come scrisse della nonna ebrea livornese, siamo tutti “padroni e schiavi di un segreto”. Dio è un cielo, o “tetto”, cui accedere da “tanti pianereottoli”. Carlo Coccioli è uno di quegli autori che si può dire abbiano effettivamente incarnato il Novecento, anzi i Novecento. Attraversandoli nello spazio, negli eventi della storia collettiva, nella ricerca culturale e spirituale. Da Bengasi a Fiume e poi Livorno, Parigi, Città del Messico, realizzando le sue opere e traduzioni in italiano, francese, spagnolo, partecipando alla Resistenza e varcando le molteplici soglie di un turbinoso caleidoscopio di identità spirituali. In un libro-intervista si paragonerà ai malamatiyah musulmani, o agli sciamani Sioux la cui fluidità di genere e connessione con l’Altro Mondo si esprimeva nel nome “Due-Anime”.

 

Quelle di Coccioli sono state assai di più: da un cattolicesimo tormentato à la Bernanos (La mia porta fu Satana è il titolo del primo capitolo del primo romanzo) a un ateismo col quale disintossicarsi dalle ossessioni che dilaniavano la sua omosessualità per poi tornare all’unicità del Dio ebraico d’un ottavo del suo sangue e infine (se una fine c’è davvero) approdare a un induismo-buddismo che riconosceva in Krishna il fanciullo eterno, perennemente inseguito in ogni volto umano, dai compagni partigiani ai ragazzi amati in Messico: “Nell’induismo c’è tutta la filosofia del mondo. Gesù Cristo è induista. Lo sono anche Marx e Freud”. Scandalizzò critica e pubblico, e perfino i suoi ammiratori, difendendo le telenovele venezuelane, attaccando duramente Giovanni Paolo II e sostenendo che lo humour britannico di G. P. Wodehouse gli avesse salvato la vita. Come Calderón de la Barca, considerava essere nati il peggiore delitto imputabile agli uomini, e le vita esposta alle domande ultime una “succursale dell’inferno”, seppure percorsa da gioie e benedizioni come l’amore carnale, o la tenerezza sconfinata degli animali. Sperava in un “Dio Caramella” anziché Padre e Giudice.

 

“Esule, girovago, curioso, senza patria, innamorato di Firenze, di Città del Messico, di San Antonio nel Texas e di Parigi nello stesso tempo, Carlo Coccioli rappresenta un momento inafferrabile della nostra letteratura”, scrisse Giuseppe Marchetti. A questa caccia una e molteplice, dove lo scrittore è al tempo stesso preda e inseguitore, si richiama anche Alessandro Raveggi nel suo romanzo appena uscito Grande Karma-Vite di Carlo Coccioli (Bompiani), nel quale, come in Possessione di Antonia S. Byatt, un giovane studente sulle tracce dello scrittore-sciamano, scopre che quei crocevia spirituali e psichici sanno prendersi spazi che forse non avremmo voluto concedergli. In questi stessi mesi la casa editrice Lindau sta meritoriamente ripubblicando l’opera omnia dello stesso Coccioli, da Il Cielo e la Terra a Piccolo Karma, passando dal celebre Davide o L’Erede di Montezuma.

 

Si è detto che il rinnovato interesse per la sua opera (che ha conosciuto entusiami, stroncature, oblii), riecheggiò nel Pasolini di Teorema e in tanto Tondelli (“pensando a Tondelli, ho voglia di piangere…Barukh Atà, Signore dell’Universo, Benedetto Tu che fai esseri così umani e generosi che subito te li riprendi!”), segna un ritorno dell’Assoluto nella letteratura contemporaneo, e ciò è vero e non vero: gli anni 90 hanno certamente conosciuto una certa indifferenza progressista alla spiritualità, sebbene più circoscritta di quanto spesso si affermi; semmai le questioni metafisiche sono state espresse in modalità altre rispetto agli espliciti canali tradizionali, ma sarebbe certamente sciocco sostenere che Roth o Houellebecq non interroghino il cosmo e Dio. E il primo ventennio del nuovo millennio, con l’esplosione drammatica del sacro nella società globale e consumistica, ha trovato proprio nell’arte uno degli spazi fondamentali della ricerca ed espressione metafisica, dove l’ateismo, agnosticismo o la religiosità di partenza sono tutte cornici dalle quali affacciarsi sulle tenebre e cercare di tenere gli occhi bene aperti. Si pensi a Marilynne Robinson, Antonio Moresco, Walter Siti, o a percorsi gnostici come quelli che attraversano le opere di Vanni Santoni. In questo clima di fermento e al tempo stesso nuovo analfabetismo religioso, dove si oscilla tra l’indifferenza narcotizzata da giocattoli tecnologici e la perenne umana tendenza a sgozzare capri espiatori per placare gli dei delle epidemie e delle tempeste, i cortocuicuiti insoluti additati dal picarismo spirituale di Coccioli, la sua guerra contro le “mille ridicole astrazioni” dei fanatismi dogmatici costituiscono una riscoperta artistica salutare. “Non vi sono amori pazzi o folli. Tutti gli amori sono sensati, sani, ammissibili, necessari”.