"Les vêpres siciliennes". Musica di Giuseppe Verdi, opera in cinque atti su libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier. Stasera la prima al Teatro dell'Opera di Roma (foto Teatro dell'Opera)

Quel Verdi parigino

Marina Valensise

Il compositore odiava la capitale francese ma le regalò “Les vêpres siciliennes”. Questa sera il debutto all’Opera di Roma, con tutte le forze del teatro in campo

Stasera s’apre alla grande la stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Il direttore musicale Daniele Gatti ha scelto “Les Vêpres siciliennes”, un kolossal di Giuseppe Verdi, nell’originale francese su libretto di Eugène Scribe. Composta per l’Esposizione universale del 1855, è un’opera in cinque atti, con balletti, cori, grandi effetti scenografici secondo la tradizione del Grand Opéra. Una bella sfida per l’istituzione che negli ultimi sei anni ha raddoppiato gli incassi fino a 15 milioni, senza aumentare il prezzo dei biglietti, arrivando così al 36 per cento di autofinanziamento. Per la prima di stasera (cinque repliche fino a domenica 22, dopo l’anteprima giovani di sabato), sono state mobilitate tutte le forze: l’orchestra, portata da Gatti a un livello smagliante, gli allievi di “Fabrica”, il programma per giovani artisti dal quale è uscita il soprano Roberta Mantegna, siciliana, 32 anni, reclutata per il ruolo di Hélène dopo il successo alla Scala nel “Pirata” di Bellini (Henri è John Osborne, Monfort Roberto Frontali, Procida Michele Pertusi), il coro di Roberto Gabbiani, con le sue voci bianche, il corpo di ballo, con gli allievi della scuola di danza, i mimi e le comparse impegnati in uno spettacolo nello spettacolo, con le coreografie di Valentina Carrasco, l’argentina della Fura dels Baus, e Massimiliano Volpini. Per le scene il soprintendente Carlo Fuortes e il direttore artistico Alessio Vlad hanno scelto Richard Peduzzi, lo scenografo di Patrice Chéreau, già direttore di Villa Medici, che torna a Roma dopo dieci anni. Non poteva darsi scelta più felice. “Ho immaginato l’antico per fare un’opera contemporanea, pensando a una tragedia greca più che a un’opera di Verdi”, mi ha spiegato Peduzzi durante le prove. “Mi sono ispirato alle grandi carriere di marmo, alle vedute di Francesco di Giorgio Martini, per creare le fortificazioni, la macchina da guerra, una città sotterranea terrorizzata dall’assedio nemico”. Due quinte mobili, con grandi torri bianche in pietra sbrecciata, all’Anselm Kiefer, dilatano e restringono la scena, mentre l’azione passa dalla piazza al carcere, sino all’attacco finale, il giorno delle nozze di Hélène e Henri, salvo lasciare il vuoto per il ballo del governatore, quando dall’alto scende una cortina di tende variopinte come i costumi di Luis Carvalho, esaltate dalle luci di Peter Van Praet. E’ la Sicilia medievale, assediata dai Francesi alla vigilia dei Vespri, la rivolta del 1282 contro l’esercito di Carlo d’Angiò. Terra europea per antonomasia, la Sicilia di Valentina Carrasco è un’isola cosmopolita, per secoli invasa e occupata, sfruttata e ferita dagli stranieri, come la donna che spunta fuori all’inizio dal blocco di pietra preso a martellate, metafora delle sue viscere, del cuore rubato dal potere straniero… 

 

 

“Ho immaginato l’antico per fare un’opera contemporanea, pensando a una tragedia greca più che a un’opera di Verdi”

E pensare che Verdi all’inizio non pensava affatto alla Sicilia. Voleva ambientare l’opera a Napoli e cambiò idea quando il librettista gli fece notare che era l’ambientazione della “Muette de Portici” di Daniel Auber, che allora spopolava. Padrone indiscusso delle scene parigine ai tempi di Luigi Filippo e di Napoleone III, Eugène Scribe “era considerato un faccendiere e un cinico mestierante”, scrive Mario Bortolotto, e però coll’italiano ebbe il suo penare. Verdi era all’apice della carriera. Conosciuto in tutta Europa, aveva già vissuto a Parigi, che conosceva benissimo e non amava per niente. Nel 1847 aveva presentato, con scarso successo, “Jérusalemme”, la versione francese dei “Lombardi alla prima crociata”. Poi aveva iniziato a scrivere “La Battaglia di Legnano”; aveva scoperto “La Dame aux Camélias” di Alexandre Dumas che avrebbe ispirato la “Traviata”, aveva vissuto la rivoluzione del 1848 e, soprattutto, aveva ritrovato Giuseppina Strepponi per non lasciarla più, e ripartire con lei per Busseto.

 

All’inizio non pensava alla Sicilia. Voleva far svolgere l’opera a Napoli ma era la stessa ambientazione della “Muette de Portici” di Auber

Nel febbraio 1852 firmò un contratto col direttore dell’Opéra di Parigi, Nestor Roqueplan, impegnandosi a comporre quattro o cinque atti, a condizione di avere Scribe per librettista, dal quale avrebbe ricevuto un trattamento entro sei mesi e, se approvato, il libretto entro un anno. Le prove sarebbero iniziate nel giugno 1854, in vista della prima in novembre, seguita da 40 repliche. Nell’estate 1852, Scribe gli mandò un prima proposta, “Les Circassiens”, già rifilata a Giacomo Meyerbeer tre anni prima e offerta a Auber che la metterà in musica all’Opéra comique. Ma Verdi la bocciò: “Ho bisogno di un soggetto grandioso, appassionato, originale: di una messa in scena imponente, abbagliante” gli rispose il 26 luglio 1852 da Busseto, in una lettera riesumata dal fondo dei manoscritti della Bibliothèque Nationale (le lettere di Scribe, note ai musicologi Andrew Porter e Andreas Giger, conservate a Villa Sant’Agata, sono ancora inedite), elogiandone le magnifiche scene e concordando sulla necessità di uno spettacoli pieni di lusso, di donne, di balletti. Passa un mese e Scribe manda un altro soggetto, già letto due anni prima a Meyerbeer, “Wlaska, ou Les Amazones de Bohème”, o “La Guerre des femmes”, la storia di un ufficiale dell’esercito di Libussa, eroina innamorata del soldato nemico. “Le donne soldato mi hanno sempre fatto una strana impressione”, replica Verdi al francese bocciandolo di nuovo, ma gli lascia il tempo di operare “uno dei vostri miracoli”. Non ha fretta. E infatti sta finendo il “Trovatore” e ha in programma la “Traviata”, ma non vuole rinunciare a Scribe. “Non è colpa mia: se sono viziato, difficile, esigente, la colpa è vostra. I vostri precedenti poemi mi hanno talmente esaltato e inebriato che ne ho bisogno di uno nuovo che mi dia la febbre e mi faccia gridare: eccolo, ci siamo, presto, provvediamo”.

 

Il francese ci ripensa e ai primi di settembre gli propone di resuscitare “Le Duc d’Albe”, libretto scritto nel 1838 per Halévy e riciclato per Donizetti, che l’aveva lasciato incompiuto: “Converrete con me che, dopo tanto parlare di quest’opera prima e dopo la morte di Donizetti, il soggetto ha perduto quella fresca fragranza e quella novità piccante che invece servono egregiamente nel teatro” gli risponde Verdi, storcendo il naso, il 27 settembre 1852. Passa un anno, Verdi ritorna a Parigi, per tener fede al suo progetto e soprattutto sfuggire lo scandalo del concubinato con Giuseppina Strepponi, la cantante dal passato agitato, già madre di tre figli naturali, e finalmente trova un’intesa. Il 3 dicembre 1853, Scribe riassume la situazione al co-librettista Charles Duveyrier, cercando di arruolare nell’impresa quel poligrafo sansimoniano, che aveva fondato una specie di Sipra, per distribuire la pubblicità nei giornali. E’ una lettera che testimonia l’opportunismo superficiale e versatile è alla base del suo immenso successo, e di un’opera straordinariamente prolifica quanto mediocre. “Je le hais parce qu’il est né coiffé, et que l’art est pour lui chose claire et facile. Il est l’antithèse absolue de l’artiste… nulle passion et une mémoire d’almanach”, scriveva Baudelaire nel 1846 per bollare il pittore Horace Vernet, e rimproverare ai Tedeschi “il loro gusto per Scribe e per Horace Vernet”. Ed è tutto dire…

 

D’accordo su vari punti, Verdi tuttavia restava perplesso su molte cose: “Innanzitutto che l’opera fosse destinata a Donizetti, e che avesse l’aria di trattare un soggetto rifiutato, deflorato, in una parola un fondo di magazzino”, riferiva a Duveyrier. “Bisognava cambiare il titolo. Ho accettato senza difficoltà. Cambiare il personaggio principale. Era più difficile, quasi impossibile. Bisognava cambiare il luogo della scena, trasferirla in un clima meno freddo che nei Paesi Bassi, in un clima caldo e musicale, come Napoli e la Sicilia. Era meno difficile; io l’ho fatto. Infine bisognava cambiare completamente il secondo atto, perché in Sicilia non ci sono birrerie; e tutto il quarto, con l’imbarco e la partenza del duca d’Alba, e aggiungerne un quinto, perché Verdi vuole un bel lavoro in cinque atti, di grandi dimensioni come gli Huguenots o le Prophète”. Qualche giorno dopo Scribe aggiorna il suo amico: “Il duca d’Alba diventa Charles de Montfort, l’odiato governatore di Sicilia sotto il regno di Carlo d’Anjou. Montfort e i francesi non esitano a corteggiare le ragazze siciliane, e persino a rapirle se serve. Monfort ne ha rapita e violentata una, dalla quale ha avuto un figlio, Luigi de Torella, che sostituirà Henri de Bruges. Daniel, il maestro birraio, ruolo assai insignificante, verrà sostituito da Jean de Procida, anima della cospirazione, così arriviamo diritto dritto ai Vespri siciliani per il finale (…) Al posto dei Fiamminghi che vogliono e non possono massacrare gli Spagnoli, saranno i Siciliani, furiosi, oltraggiati e vendicativi, a massacrare i Francesi, che cercheremo di rendere interessanti”.

 

Il 31 dicembre 1853 il libretto arriva in mano a Verdi. Segue un silenzio di sei mesi, interrotto da alcune domande sulla tarantella

Il 31 dicembre 1853 il libretto arriva in mano a Verdi. Segue un silenzio di sei mesi, interrotto dalla richiesta al napoletano Cesarino De Sanctis di alcuni dettagli sulla tarantella: “E sempre in tono minore e in tempi di 6/8?”, domanda Verdi, che vuole sapere se esistono in Sicilia altri balli popolari, ma ancora ignora il titolo del libretto di Scribe. Passano i mesi e Verdi, che pure ha ricevuto la legion d’onore da Napoleone III, è stanco. “Un’opera all’Opéra è fatica da ammazzare un toro”, confessa a Cesarino. E ha “una smania feroce” di tornarsene a casa. Odia Parigi, città amusicale per eccellenza, e se non la odia, non riesce a farsene conquistare. “Mettere radici qui a Parigi? E’ impossibile!”, scrive il 2 marzo alla contessa Clarina Maffei. “A quale scopo? Per la gloria? Io non ci credo. Per i denari? Io ne guadagno altrettanti e forse più in Italia. E poi anche se lo volessi, ripeto, è impossibile. Io amo troppo il mio deserto e il mio cielo. Io non mi cavo il cappello né a conti, né a marchesi, a nessuno. Infine io non ho milioni e le poche migliaia di franchi guadagnate con le mie fatiche non le spenderò mai in réclame, in claque e simili sozzure. E ciò pare necessario pel successo”. Insomma nessuna indulgenza per i fasti imperiali, per la macchina dell’Opéra, né per il pubblico parigino, che dopo trent’anni non ha ancora capito il Guglielmo Tell, e lo esegue storpiato, mutilato con una messa in scena indegna: “E questo è il primo teatro del mondo…”. Non parliamo di quei connazionali che smaniano estasiati per la Ville lumière mentre sono solo provinciali: “I nostri lions milanesi hanno un’opinione così esagerata di tutto quello che si fa a che esiste in Parigi”, sentenza Verdi, il patriota.

 

“Nella storia di ogni popolo ci sono virtù e crimini, e noi non siamo peggiori degli altri. In tutti i modi, io sono prima di tutto un italiano”

Si spiega così l’insofferenza verso la Grande Boutique e verso lo stesso Scribe, al quale Verdi non si perita di chiedere alcune modifiche, come aggiungere una sillaba ai versi del coro, o cambiare la scena del quarto atto, col quartetto, per farne la situazione più drammatica, modificare il ritmo, aggiungere alcuni versi al “De Profundis” per preparare l’esclamazione finale: “Mon père, mon père” (cruciale perché il francese Monfort salvi dal patibolo il siciliano Henri, dopo aver scoperto che è suo figlio). E poi bisogna aggiungere al coro di donne, che entra e esce di scena dopo solo quattro versi all’inizio del quinto atto, un coro maschile dietro le quinte, con otto versi per i siciliani, che cantano e ballano allegri per il perdono ottenuto da Monfort, e otto per i francesi riconciliati. Finalmente si arriva alle prove. Ma quando il soprano Sophie Cruvelli scompare per una fuga d’amore col barone Vigier, suo futuro marito, la misura è colma. Roqueplan si dimette. Verdi chiede la rescissione del contratto. Soffre per l’assenza di Scribe, che diserta le prove. Trova “desolante e umiliante che non si dia pensiero alcuno di rimettere mano al quinto atto, che tutto il mondo trova unanimemente di nessun interesse”, come scrive il 3 gennaio 1855 al neodirettore Louis Crosnier. Cocente è la sua delusione di patriota. Si aspettava che il librettista avrebbe cambiato tutto ciò che offende l’onore degli italiani? E invece “Scribe insulta i francesi, dacché li si massacra, e insulta gli italiani, facendo del personaggio storico di Procida un comune cospiratore, e mettendogli in mano l’inevitabile pugnale. Mio dio! Nella storia di ogni popolo ci sono virtù e crimini, e noi non siamo peggiori degli altri. In tutti i modi, io sono prima di tutto un italiano e non mi renderò mai complice di una offesa al mio paese, costi quel che costi”.

 

Certo, la crisi è passeggera. Il librettista ottempera ai desiderata di Verdi e il 13 giugno 1855, la prima dei “Vêpres”, davanti a Napoleone III e all’élite diplomatica italiana, è un trionfo. Berlioz, che è anche critico musicale, esulta per “la varietà sontuosa, la sapiente sobrietà della strumentazione, la poetica sonorità dei pezzi di insieme, il colorito caldo e la forza appassionata del genio di Verdi, che dà all’opera un’impronta di grandezza, una maestà sovrana”. Verdi torna a casa come il miles gloriosus. Trent’anni dopo fingerà di scoprire la somiglianza tra il libretto dei “Vêpres” e quello del Duca d’Alba, opera terminata dall’allievo di Donizetti Matteo Salvi, e messa in scena a Roma nel 1883. Così, la memoria selettiva riscrive il passato a suo piacimento, là dove la corrispondenza con Scribe attesta un’intesa piena, che oggi solo le difficoltà della rappresentazione mettono in causa, rivelando il connubio impossibile tra due mondi. Da un lato il genio musicale di Verdi, attento alla psicologia dei personaggi – il padre in cerca del figlio, il figlio che rifiuta il padre – all’intreccio delle passioni, vendetta, gelosia, tradimento – che dettano il ritmo incalzante della partitura. Dall’altro, la fredda logica della drammaturgia di Scribe, che obbedisce a un congegno meccanico perfetto, anche a rischio di ridondanze e incongruenze, come il balletto dopo l’agnizione tra padre e figlio e l’esplosione del dramma, o come il repentino cambiamento di Hélène, al quinto atto, che prima si oppone, poi acconsente alle nozze, poi le rifiuta di nuovo per evitare la strage, e alla fine soccombe anche lei, vittima del massacro dei francesi scatenato dai cospiratori siciliani.