Il volo di Tosca

Gli applausi a Mattarella e quelli a Riccardo Chailly, il silenzio inconsueto della folla radunata davanti allo schermo in Galleria, due chiacchiere con Patty Smith. Il racconto della Prima della Scala

Corrado Beldì

Non accorgersi della Prima alla Scala camminando a Milano verso il Teatro è davvero impossibile. Sarà merito della strategia di comunicazione ma gli accenni sono ovunque, i manifesti rinnovati nella grafica, le mostre, gli incontri, gli spot in televisione e i social che da giorni sparano video, immagini e curiosità dal backstage e le foto di Giovanni Hänninen che raccontano i palchi da nuovi punti di vista. È uscito anche un fumetto di Sara Colaone che racconta una Tosca militante coi jeans a zampa, negli anni della contestazione, era in via De Amicis negli scontri con la polizia, alla ricerca del suo Cavaradossi, un giovane fumettista tentato dalla lotta armata.

 

Mi fermo davanti ai decori e alle torte di Cova, il pasticciere ha fatto una Scala in zucchero e cioccolato con un Giacomo Puccini al pianoforte, in gessato grigio e cappello e una rosa rossa appoggiata alla partitura. Una vetrina perfetta per il giorno di Sant’Ambrogio, il patrono meneghino che avrebbe lasciato le penne nella mia Novara se non vi avesse trovato, durante una tempesta di neve, la casa dell’amico Gaudenzio e un giardino che fiorì all’improvviso, dando i frutti con cui Ambrogio poté rifocillarsi e tornare a Milano a predicare le parole che lo avrebbero reso Santo.

 

Basta il pensiero di quella tempesta a mettermi i brividi, per distrarmi voglio sentire qualcosa che mi prepari alla serata, l’ho fatto spesso in questo mese e curiosamente Spotify mi propone il primo album del duo elettronico Tosca di Rupert Huber e Richard Dorfmeister, a Vienna avevo una cameretta in semicentro e alternavo al melodramma lunghe notti di musica elettronica in un club sulla riva del Donaukanal. La cover del disco è un’immagine della Wiener Staatsoper, il teatro da cui viene Dominique Meyer, che da gennaio sarà nuovo sovrintendente alla Scala. Stasera (ieri ndr) sarà ospite tra i palchi chissà cosa pensa di questa ultima Prima guidata da Alexander Pereira che ha fatto di tutto per lasciare un ricordo indelebile, Die Soldaten, la Chovanščina, l’ultimo Kurtág, il Die Tote Stadt di Graham Vick, quel Trionfo del Tempo col fuoco al bancone, le regie di Wake-Walker, fino all’incanto dei controtenori in mitra e mimetica nel Giulio Cesare in Egitto di Carsen e Antonini, una serie di spettacoli meravigliosi fino a questa Tosca che si presenta con un tris d’assi diretto da Riccardo Chailly, la protagonista è Anna Netrebko, Cavaradossi è Francesco Meli, il perfido Scarpia è Luca Salsi.

  

Leggo il cast sotto i portici del teatro prima di immergermi in un foyer intasato di telecamere e acconciature, resterei volentieri ad aggirarmi in questa scintillante euforia ma non c’è tempo, la platea è già piena e ci alziamo in piedi ad applaudire il Presidente della Repubblica e a cantare l’Inno di Mameli (alla prima di Tosca a Roma il 14 gennaio 1900 c’era la Regina Margherita ad ascoltare la Marcia Reale) in attesa di tuffarci nella storia appassionante di questa apertura di stagione.

 

Puccini non fece l’ouverture e ci troviamo subito immersi nel terrore papalino, è la Roma oscurantista e oppressiva di Pio VI, nei giorni della battaglia di Marengo, Cesare Angelotti fugge da Castel Sant’Angelo, è evaso e trova rifugio nella Basilica di Sant’Andrea della Valle che si compone delle sue architetture. Nemmeno un respiro e già il pittore Cavaradossi canta il suo
Recondita armonia di fronte a un ritratto della Maddalena che si trasforma a colori. Appare Tosca e capisco perché Puccini fu attratto da questo personaggio così combattuto e testardo, era stato portato al Filodrammatici di Milano dalla divina Sarah Bernhardt, ne era rimasto folgorato ma poi era passato un decennio prima che decidesse di mettere in scena il libretto elaborato da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa in cui amore e sacrificio sono inseparabili.

 

Ecco Cavaradossi che canta. Mia vita, amante inquieta, dirò sempre Floria t’amo, si capisce che è disposto a tutto e non teme il pericolo che si annida nel buio di Roma, non sarà certo la chiesa a difenderlo, c’è Scarpia a caccia di bonapartisti, arriva in Sant’Andrea dove il regista Davide Livermore s’inventa una salita delle schiere ecclesiastiche durante il Te Deum.

 

All’intervallo salgo nel ridotto Toscanini dove girano bicchieri di Bellavista e vassoi di mandorle tostate. Faccio due chiacchiere con Patty Smith che ricorda ancora una cena in trattoria a Correggio anni fa e poi mi butto come tutti a fare foto agli abiti più curiosi, c’è una ragazza con un abito bianco pieno di lampadine, è tutta illuminata ma non trova l’interruttore, se non riesce a spegnerle non potrà più tornare in sala. Dovrà restarsene qui a guardare il meraviglioso busto di Puccini fuso nel bronzo da Paolo Troubetzkoy, vorrei farci un selfie ma c’è un gran tavolo di rose rosse e di verzure che lo copre, arrivano altri a imitare i miei tentativi e alla fine della campagna fotografica col compositore siamo tutti impolverati e coperti di foglioline. Per fortuna c’è una signora con il gadget più utile di questa Prima, uno di quei rulli adesivi per togliere i pelucchi e allora ci facciamo dare una passata al revere dello smoking prima di rientrare in platea.

 

In realtà ho un piano diverso, recupero il tabarro al guardaroba e faccio una piccola fuga, la mia vera Tosca mi aspetta in Galleria per la prima diffusa, perché l’opera è per tutti, ci sono quaranta postazioni in città, qui lo schermo è proprio al centro dell’ottagono, a due passi dal toro che ogni giorno dà speranza alle persone. Siamo in duemila ad ascoltare la voce del povero Cavaradossi, torturato dagli sgherri di Scarpia nelle segrete di Palazzo Farnese. C’è un silenzio inconsueto per una folla così numerosa e si sta come sardine, di questi tempi succede, c’è un altro smoking con tanto di farfallino rosso, proprio come me. Chissà cosa gli è passato per la testa.

 

Guardo meglio e in effetti sono io nelle vetrine di Prada, sembrava strano in questo mare di giubbotti e scarpe da ginnastica. Sono tutti molto attenti alle immagini e in effetti si vedono particolari che in teatro avrei perso, la telecamera inquadra la mano di Scarpia mentre scrive il salvacondotto per Tosca e Cavaradossi, per questa diretta la Rai non ha proprio lesinato, hanno piazzato tredici telecamere per inquadrare anche i dettagli dell’abito disegnato da Gianluca Falaschi per Tosca, sopra è azzurro
cielo e sotto è rosso sangue. Anche i decori di Palazzo Farnese sono un ambiguo compromesso tra terra e cielo, tra morte e vita, gli affreschi di Annibale e Agostino Carracci sembrano così veri e infatti sono attori che si muovono lentamente come nei video di Bill Viola. Le proiezioni di Giò Forma sono più reali del reale durante il Vissi d’arte, vissi d’amore, che ascoltiamo abbracciati mentre in fondo alla Galleria come un cannocchiale si vede la facciata del Piermarini illuminata a festa. Non ha la stessa espressione Scarpia quando Tosca gli pianta la sua prima coltellata, non gliene basta una ma ne tira altre due e poi lo strangola, vuole essere certa che non respiri mai più.

 

Il mio secondo intervallo è al Camparino che ha riaperto da poco. Gaspare Campari si era spostato in questi locali negli anni in cui Puccini cercava fortune a Milano, la sala liberty è tutta restaurata e in cima alla scala ci accoglie il manifesto originale disegnato de Leonetto Cappiello che danza con una bottiglia di Campari circondato da una zeste d’orange ben più grande di quella che Tommaso Cecca prepara per decorare i nostri due campari sapientemente shakerati e accompagnati da un pancotto alla Milanese, immaginato da Davide Oldani, impasto con zafferano, spuma di grana padano e cipolla caramellata, pochi e memorabili bocconi.

 

Mi precipito in teatro giusto in tempo per l’inizio del terzo atto, qualcuno ha preso il mio posto e finisco accanto a Quirino Principe che apprezza ogni dettaglio anticattolico, d’altra parte sarebbe ancor meglio se si potesse togliere l’aggettivo cattolico dalla galassia, mai ammetterebbe che solo un miracolo potrebbe salvare Cavaradossi, imprigionato in Castel Sant’Angelo in attesa di esecuzione. Sappiamo tutti che i colpi non sono stati caricati a salve, Scarpia non ha mantenuto la promessa e la fucilazione avviene inesorabile. Il finale è il momento più atteso, il gesto estremo di Tosca sconvolta dagli eventi, Puccini si sarebbe accontentato di farla impazzire ma fu Sardou a insistere perché si spegnesse come un uccello. Tosca si butta dalle mura di Castel Sant’Angelo, ma il suo volo per Livermore è una sorta di ascensione ai cieli.

 

Una scena che incanta mentre tornano le note del E lucevan le stelle, è l’ultimo e più efficace degli otto inserti musicali recuperati da Riccardo Chailly, che chiude con la bacchetta puntata in alto e dopo un attimo di silenzio viene travolto da sedici minuti di applausi, coriandoli e petali di rosa, probabilmente un record nella storia del Teatro.

 

Non sarebbe una vera prima se non ci fosse un quarto atto. La cena alla Società del Giardino quest’anno è offerta da Enrico Bartolini, ha appena preso la terza stella ed è toscano come Puccini e ricorda ancora quando da piccolo andò in gita a Lucca a visitare la casa natale del compositore. C’è un legame speciale e si capisce, mi sarei aspettato che ci accogliesse con un Negroni in memoria di quelli che il conte Camillo preparava al suo amico Giacomo dopo le battute di caccia sul lago di Massaciuccoli, invece si parte subito con un bicchiere di Petra Toscana e una minestra di cavolo nero e piccione che mi distrae dalla scrittura di queste note.

 

Ad essere filologici ci sarebbero state bene anche le uova alla Sardou con carciofi e spinaci, me le sono fatte stamattina a colazione ed erano proprio favolose, devo tentare anche questo Omaggio a Cavaradossi, un risotto di rape rosse e salsa gorgonzola e la tenerezza di vitello con salsa affumicata, curcuma e millefoglie di funghi e patate. Pereira si aggira istrionico tra i tavoli e raccoglie complimenti dai tanti che già rimpiangono i suoi anni alla Scala. Avremo tempo di parlarne, la serata non è ancora finita.

 

Il quinto atto è sempre una certezza, lo Sbagliato in chiusura al Bar Basso. Siamo tutti riuniti a commentare questa Tosca che ha convinto tutti per le voci e la direzione di Riccardo Chailly, i giornali sono in stampa mentre ho altri dieci minuti per pensare al diabolico Scarpia, nero di pelle vestito, un Luca Salsi così umano e consapevole e in ginocchio durante gli applausi a baciare il legno del più grande palcoscenico del mondo. L’ultimo brindisi è con Gianluca Falaschi che nel trionfo finale si è preso un mazzo di garofani in testa da un melomane troppo entusiasta, mi fa i complimenti per il mio smoking di taglio così rétro, in effetti lo fece mio padre negli anni Cinquanta dal sarto Tricotti, nel taschino interno c’è il nome scritto a mano e un numero di telefono a quattro cifre, di certo lo usò per andare a ascoltare Guido Cantelli al Teatro Coccia. Certi abiti, come i grandi titoli dell’opera, non passano mai di moda.

Di più su questi argomenti: