Ancora gli impressionisti? Sì, con tesori nascosti in collezioni private e nomi sconosciuti ai più

La mostra “Impressionisti Segreti” inaugura il nuovo spazio espositivo di Palazzo Bonaparte a Roma 

Giuseppe Fantasia

Roma. Dici impressionisti e si apre un mondo fatto di luci, colori, aria aperta e pulita, ma anche fatica e coraggio nel rompere gli schemi di un’arte che, fino al loro arrivo era statica e cupa. Quel gruppo di artisti, prevalentemente francesi e tutti nati tra il 1830 e il 1840, abbandonarono la pittura di scene storiche, mitologiche o religiose eseguita nella penombra degli atelier per spostarsi – come molti sanno – en plein air, innalzando la pittura a rango di ossessione. Dipingevano ciò che vedevano, dai paesaggi a scene di vita quotidiana. Costretti a portare con sé e spesso materiali sulla schiena, prediligevano i piccoli e i medi formati, perché più facili da spostare; le loro pennellate – eseguite con colori brillanti, simbolo del loro stesso brillare – erano sbrigative, perché la luce del sole poteva seccare il colore in fretta o poteva andarsene via presto, costringendoli a tornare il giorno dopo o quello dopo ancora. Potremmo definirli “Gli escursionisti”, come il quadro realizzato da Henri-Edmond Cross tre il 1893 e il 1895, negli stessi anni in cui Signac stava realizzando il suo grande quadro decorativo. Gli impressionisti, come manifesta quel dipinto dove la vista di Saint-Tropez va a confondersi con una sorta di paradiso tra la natura più bella ed incontaminata, avevano una visione idilliaca dell’uomo in armonia proprio con la natura stessa e il loro, era un mondo pacificato dall’avvento dell’anarchia. Quell’opera potete ammirarla in questi giorni a Palazzo Bonaparte, nuovo spazio espositivo affacciato vicino piazza Venezia che fino al 1836 fu la dimora di Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone – grazie alla mostra Impressionisti Segreti, in programma fino all’8 marzo del prossimo anno.

 

Cosa ci sarà da vedere e da sapere ancora sugli impressionisti? Tanto, perché nonostante siano molto popular anche presso chi l’arte non la conosce affatto, guardando quelle loro pennellate emerge sempre qualcosa di nuovo o di sconosciuto. Anche dei nomi. Claude Monet, Camille Pisarro, Pierre-Auguste Renoir e Paul Gauguin sono arci-noti anche da chi, degli stessi, compra solo t-shirts, tazze o poster che riproducono le loro opere, ma che dire di Théo van Rysselberghe o di Federico Zandomeneghi, uno dei due italiani (l’altro era Giuseppe De Nittis) che fu chiamato (da Degas) a partecipare alle otto mostre impressioniste tra il 1874 e il 1886? Nella mostra romana ci sono alcuni loro dipinti assieme a L’indolenza di Eva Gonzales. L’amica di Edouard Manet ritrasse quella giovane donna con abito rosa pallido abbinato al fiocco sulla chioma mentre è seduta sul parapetto di un balcone mentre lasciava vagare il suo sguardo assorta in qualche fantasticheria. La stessa ricorda in parte Devant la psyche (1890) di Berthe Morisot, un’opera tutt’altro che segreta, visto che è parte della collezione svizzera della Fondation Pierre Gianadda di Martigny, uno dei tanti dipinti che ritraggono donne alla toilette che la pittrice francese realizzò nel corso della sua carriera.

   

Conoscete poi Georges De Bellio o Victor Chocquet? Non furono pittori, ma a loro gli impressionisti devono tutto. Entrambi sono stati i primi e i più grandi collezionisti di questi artisti sin dalle origini, arrivando a possedere 64 tele di Monet (il primo) e più di 50 tele di Cézanne (il secondo). Nomi che scoprirete assieme a quello dell’americana Louisine Haveneyer – che lasciò la sua preziosa collezione al Metropolitan Museum di New York – e a tante altre opere che vi sorprenderanno. “I collezionisti furono decisivi per gli impressionisti, furono i loro mecenati: li sostenevano ma si impegnarono per primi al loro riconoscimento ufficiale”, spiegano al Foglio Marianne Mathieu – direttrice scientifica del Musée Marmottan Monet di Parigi, sede delle più ricche collezioni al mondo di Claude Monet e Berthe Morisot, già curatrice della mostra al Vittoriano su Monet che totalizzò 460 mila visitatori – e Claire Durand-Ruel, discendente di Paul Durand-Ruel, colui che ridefinì il ruolo del mercante, entrambe curatrici di questa mostra prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia.

 

Imperdibile, Monet. Niente ninfee o cattedrali questa volta, ma Il frutteto (da lui dipinto quando viveva ad Argenteuil), Il braccio della Senna presso Vétheuil, La Senna a Lavacourt e soprattutto I meli i fiore in riva all’acqua del 1880, provenienti da una collezione privata. Aveva venticinque anni quando iniziò a osservare, studiare e poi dipingere una quercia. Un amore per la natura sconfinato il suo, continuato poi con la riproduzione di un melo dal 1872 in poi di cui solo lui poteva esplorarne la profusione decorativa del fogliame così bene. Splendida la sua visione di Antibes (1888), ma soprattutto L’isola delle ortiche (1897), un angolo di natura selvaggia tra l’Epte e la Senna, a Giverny (che poi, come si sa, divenne il suo “quartier generale”), una zona umida in cui le ortiche raggiungono i due metri di altezza e gli alberi si curvano sull’acqua del fiume. A guardarle bene, sono le sue personali “sequenze di sogni”, le sue “evocazioni misteriose”, delle autentiche sorprese che vanno ad impreziosire non poco questa che è una mostra da non perdere.

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