Enrico Baj, "I funerali dell’anarchico Pinelli", 1972

L'assassinio di Pinelli diventò il suo funerale. Storia accidentata di un dipinto

Francesco M. Cataluccio

L’opera di Baj dal titolo contrastato, a 50 anni da Piazza Fontana

Cinquant’anni fa avevo tredici anni e mi sono portato dietro per tutto questo tempo le immagini in bianco e nero della strage di Piazza Fontana e di quello che ne seguì: i titoli urlati dei giornali; la disperazione delle persone; il volto spaventato di Valpreda e il faccione bonario di Pinelli; altre stragi; la paura; il terrorismo; le bugie e i depistaggi. Nulla era come sembrava. Nella mia testa quelle immagini hanno roteato in continuazione, come una giostra impazzita in un bizzarro e tragico castello di specchi che ha accompagnato il mio diventare adulto. Qualcuno ha scritto che allora “perdemmo tutti l’innocenza”. Troppo semplicistico e ipocrita: ai miei occhi la perse lo stato.

 

C’è un ricordo, di qualche anno dopo, che mi è tornato in mente in questi giorni perché si parla della famosa opera di Enrico Baj (1924-2003) dedicata alla morte dell’anarchico Pinelli: 13 pannelli di panforte di betulla finlandese per un totale di 3 metri di altezza per 12 di lunghezza, con 18 figure ritagliate nel legno e unite con la tecnica del collage. Come è noto, il dipinto commissionato dal comune di Milano (sindaco il socialista Aldo Aniasi, assessore alla Cultura il socialdemocratico Paolo Pillitteri) per essere collocato nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale (dove era stato esposto, nel 1953, “Guernica” di Pablo Picasso, al quale Baj si era evidentemente ispirato), non fu mai presentato nella data stabilita (il 17 maggio 1972) perché quella stessa mattina venne assassinato il commissario Luigi Calabresi. Il dipinto fu considerato parte della campagna della sinistra contro il commissario, ritenuto tra i responsabili della caduta di Pinelli dalla finestra della Questura di Milano (nella notte tra il 15 e il 16 dicembre di quel 1969). L’inaugurazione fu annullata e il catalogo della mostra fu ritirato. Allora Baj regalò l’opera alla vedova di Pinelli, che però non sapeva dove tenerla. Così l’artista riuscì a venderla alla Fondazione Giorgio Marconi donando il ricavato alla famiglia Pinelli. L’opera girò per l’Europa e riapparve a Milano, a Brera, solo nel 2003. Dopo quarant’anni (nel 2012) fu esposta temporaneamente a Palazzo Reale, nella Sala delle Cariatidi, per iniziativa del sindaco Giuliano Pisapia. Oggi si trova nel deposito della Galleria Fondazione Marconi (in via Tadini 15, a Milano). Pochi giorni fa è stata dato la notizia che verrà collocata, in modo permanente, in una sala di Palazzo Citterio, a Brera, quando diverrà agibile… 

 

 

Noi fiorentini potemmo ammirare l’opera di Baj per un paio di settimane, nel settembre del 1975, nel parco delle Cascine, in riva all’Arno, in occasione del Festival nazionale dell’Unità. La sezione universitaria del Pci se ne prese carico e la espose in un padiglione apposito fatto di tubi Innocenti e ben sorvegliato, giorno e notte.

 

I giovani universitari crearono all’organizzazione del festival una serie di grattacapi. Il primo fu quello di collocare al vertice dell’alta torre lì accanto, che doveva esporre le bandiere di tutti i “paesi fratelli”, quella della Repubblica popolare cinese. I tedeschi dell’Est protestarono vivamente e i bulgari si incaricarono di andare lassù a toglierla (ma non gli fu permesso di sostituirla con quella dell’Unione Sovietica).

 

Il vero “caso politico” fu però il dipinto di Baj. Nei contatti con il pittore, egli chiese di presentarlo “con il titolo giusto”. Fu quindi preparata subito la didascalia: L’assassinio dell’anarchico Pinelli. Quando la vide, sbiancò in volto il responsabile dell’organizzazione, Graziano Cioni (diventato in seguito assessore alla Sicurezza del comune di Firenze, soprannominato “Catena” per le sua encomiabile propensione a limitare il traffico, e protagonista di una bella intervista sul Foglio: “Il giustizialista pentito”, 13 maggio 2016). Cioni chiese che quella didascalia venisse subito rimossa e sostituita con la più “neutra” I funerali dell’anarchico Pinelli. Ci furono delle accese discussioni, minacce di chiamare il Maestro, accuse di andare contro la verità, richiami alla disciplina di partito. Alla fine vinse quest’ultima.

 

Il titolo I funerali dell’anarchico Pinelli viene usato ancora oggi, ma non è il vero titolo. Baj ce lo disse chiaramente, forse in un momento di rabbia e amarezza o per mettere alla prova il coraggio e l’anticonformismo del Pci. Nel parlare di “funerali” c’è sicuramente l’eco del bellissimo dipinto futurista di Carlo Carrà I funerali dell’anarchico Galli (1911), oggi custodito al Museum of Modern Art di New York. L’anarchico Angelo Galli era stato ucciso nel 1904, sempre a Milano, durante uno sciopero generale. Carrà era presente al momento dei tumulti che accompagnarono il feretro, e con l’opera decise di riproporre le emozioni sentite in quel momento: “Io che mi trovavo senza volerlo al centro della mischia, vedevo innanzi a me la bara tutta coperta di garofani rossi ondeggiare minacciosamente sulle spalle dei portatori; vedevo i cavalli imbizzarrirsi, i bastoni e le lance urtarsi, sì che a me parve che la salma cadesse da un momento all’altro e che i cavalli la calpestassero. Fortemente impressionato, appena tornato a casa feci un disegno di ciò a cui ero stato spettatore. Da questo disegno presi più tardi spunto per il quadro Il funerale dell’anarchico Galli che venne in seguito esposto alle mostre futuriste di Parigi, Londra e Berlino nella primavera del 1912” (C. Carrà, La mia vita, 1943).

 

Se si guarda però bene l’opera di Baj non ci si può sbagliare nell’interpretazione: sul lato destro ci sono degli orrendi uomini in divisa con coltelli, fucili e bastoni (che tornano spesso nei suoi dipinti con tanto di collage di bottoni, placchette/medaglie, tessuti…); su quello sinistro, persone che piangono e sono arrabbiati, alcuni sventolano le bandiere anarchiche. Ai due lati estremi, staccate dalla tela, le sagome di due bambine piangenti e, dall’altra parte, una giovane donna, seminuda, che si dispera. Al centro della tela un uomo a torso nudo che precipita in una selva di braccia che cercano di afferrarlo. Sopra la scena troneggia, come un baldacchino, una finestra che fa intravedere una lampada accesa sul soffitto della stanza e quattro mani che si agitano come tentacoli.

 

Baj così spiegò pubblicamente la sua opera: “Mi si reclamava una rappresentazione, e rappresentazione ho fatto, affinché testimonianza resti del fatto, di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia Pinelli, delle figlie Claudia e di Silvia”. Si può chiamare tutto questo un “funerale”? E’ la scena di un uomo defenestrato, e non certo per un “malore attivo”.

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