Graziano Cioni (foto LaPresse)

Il giustizialista pentito

Annalisa Chirico

“Per me la legalità era un vessillo. Dopo 8 anni di processo ingiusto e un’assoluzione dico: che puttanata”. Cioni, ex assessore a Firenze, si confessa con il Foglio. “Non solo i magistrati: è un sistema che va cambiato”.

Graziano Cioni mi accoglie in un noto bar in piazza della Signoria. “Esiste forse un ufficio più bello?”, lo sceriffo di Firenze non ha perso l’ironia. Si accomoda sulla sedia, intrattiene i camerieri, poi alza lo sguardo e fissa la Torre di Arnolfo, in cima a Palazzo Vecchio, antica sede dei Priori delle Arti e culla del potere comunale. I’ Cioni, come lo chiamano qui, osserva i passanti, lancia un’occhiata su ambo i lati della piazza, poi punta il dito verso una stradina laterale: “In quel punto, di tanto in tanto, si piazzano gli ambulanti. Oggi non ci sono, meglio così”. L’aspetto baldanzoso di un tempo è solo un ricordo, i’ Cioni è un uomo ritratto nel corpo e nello spirito. “Viviamo un’autentica barbarie. Io ero un giustizialista convinto, che puttanata il giustizialismo. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie, la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione. La sinistra ha difeso i magistrati a prescindere dalla ragione e dal torto. Li abbiamo resi intoccabili”.

 

Cambia todo en este mundo, cantava Mercedes Sosa. “Cambia tutto, è vero. Io sono cambiato, non so più chi sono. Quando ti capita una storia come la mia, che ti toglie il sonno e la salute, ti rendi conto che non si può ammazzare un innocente”. Cioni è stato deputato e senatore per tre legislature, nel solco del Pci-Pds-Ds, quando il Partito pretendeva la ‘p’ maiuscola. “Sarà stata pure ideologia, non lo nego, ma all’epoca il Partito era una famiglia, ti faceva commettere alcuni errori ma ti riempiva l’esistenza. C’era la passione per un’idea, l’ardore di chi voleva rivoluzionare il mondo, Ho-chi-min-min-min, Che-Guevara-che-che-che”. Cioni, torniamo all’oggi: dopo un’assoluzione in primo grado e una condanna in appello, la Cassazione ha messo la parola fine perché il fatto non sussiste. “Eppure per qualcuno resto un condannato. L’altra sera su La7 quel Di Battista, come si chiama, quello dei 5 stelle, mostra una piovra tentacolare che si estende sull’Italia intera. In corrispondenza della Toscana compare un nome, il mio, e accanto si legge condannato. Mi prende un colpo. Il conduttore non lo corregge. Li ho querelati. Non ci sto più a prendere schiaffi”.

 


Di Battista mostra "la piovra" nel corso del programma Piazza Pulita


 

Graziano Cioni nasce, settant’anni or sono, a Pontorme, frazioncina dell’empolese, da mamma Cesarina e papà Bruno, confezionista lei e cenciaio lui. “A scuola usavo i libri fotocopiati. Quando si consumavano i gomiti dell’unica giacca che possedevo, la mamma la rattoppava, non potevamo comprarne un’altra. Lei confezionava impermeabili a domicilio, il che voleva dire che se la fabbrica chiudeva la prima a essere licenziata era lei. Il sabato mia sorella mi portava davanti al bar Italia di Empoli: mi appostavo davanti alla vetrina e osservavo la gente che mangiava il gelato, non avevamo i soldi per comprarlo. Anni dopo, quando il Partito mi mandò per la prima volta in Unione sovietica, dissi a un compagno: posso fermarmi dal gelataio? Lui rispose: il gelataio è lo stato”. Il piccolo Cioni non arriva alla licenza media. “A casa non c’erano soldi, non me ne importava una sega di studiare. Cominciai come commesso in una cartolibreria nel centro di Empoli. Un giorno il figlio del proprietario mi strappò la ramazza dalle mani per mostrarmi come dovevo spazzare. Te tu sai come si spazza? Gli dissi io. E allora fallo tu. Li mandai al diavolo”. Un caratteraccio proverbiale, quello del Cioni. “E meno male, sennò sarei già morto”. Cessata prematuramente l’esperienza da commesso, i’ Cioni s’improvvisa cenciaio insieme al babbo. “Un lavoraccio, si stava seduti per terra a sfilare le stoffe per poi rivenderle e farci pochi quattrini. D’inverno si soffriva un freddo pungente, la mamma mi aveva cucito un paio di guanti senza dita e un copricapo che lasciava scoperti naso e occhi. I geloni ti divoravano. A diciassette anni avevo un’unica certezza: quella vita non era la mia”.

 

A Pontorme il ragazzo designato per l’incarico di segretario dei giovani comunisti è gay: quando i maggiorenti scoprono la “devianza” sessuale, cercano una soluzione alternativa, e la trovano nel Cioni notoriamente etero. “Il giorno prima mi chiamarono e mi dissero: domani tu sarai eletto. Fui sostanzialmente un ripiego per scongiurare l’insostenibile vergogna di un omosessuale”. Nel pieno del ’68 Cioni diventa funzionario di partito. “La mia prima moglie non mi vedeva mai. Ero sempre in giro, all’epoca non c’erano i cellulari e sparivo per giorni. Bisognava andare ovunque, essere ovunque. Il Partito pagava poco, perciò la domenica portavo la famiglia a pranzo da mia madre. Mangiavamo pollo e burischio, e facevamo il pieno di vettovaglie per il resto della settimana. L’acqua corrente non c’era, la trasportavamo nelle brocche. Per vedere qualche minuto di televisione in bianco e nero pagavamo cento lire alla Casa del popolo. La domenica, dopo pranzo, papà accendeva la radio e ci faceva ascoltare i’ Grillo canterino prodotto dalla sede Rai di Firenze.

 

Era un programma irriverente con le storie di sora Alvara e del Gano di san Frediano”. Gano chi? “E’ il latrinlover fiorentino, lo sciupafemmine del romanzo ‘Le ragazze di san Frediano’ di Pratolini. Il Gano è quello sempre pronto alla conquista colla sigaretta ’n bocca e con quell’aria di nonscialanse che l’ha fatto conoscere dappertutto”. I’ Cioni è un tripudio di amarcord e consonanti aspirate, un instancabile raccontastorie; la coppia seduta al tavolo accanto lo riconosce e sorride. Nella seconda metà degli anni Settanta il leader della Federazione giovanile comunista si chiama Massimo D’Alema. “Il più intelligente di tutti. A parte lui, il resto della nostra classe dirigente peccava di autoreferenzialità. Veltroni? Uno che s’intende di cinema e di Africa, disse una volta Cossiga”. Nel 1976, all’indomani del terremoto in Friuli, Michele Ventura, segretario di Federazione del Pci fiorentino, invita Cioni al ristorante Il Cavallino in piazza della Signoria: “La direzione nazionale chiede che uno di noi vada nelle zone terremotate per rivitalizzare il Partito, ho pensato a te”. “Da buon militante io risposi: quando parto? A Gemona trascorsi un anno e mezzo tra i superstiti. All’inizio nessuno mi rivolgeva la parola, dopo tre mesi tutti mi adoravano. Mi sistemai in una roulotte, una Laika 6000, parcheggiata sotto l’unico muro rimasto in piedi. Un ex frate salesiano domandò: chi è l’idiota che ha piazzato qui la roulotte? La sposto subito, risposi io. Tre giorni dopo una scossa di assestamento fece crollare il muro”.

 

I terremoti nella vita sono più d’uno. “E pure quando passano – prosegue Cioni – e le scosse telluriche paiono cessate, le macerie restano sul campo”. Anni Duemila, Cioni è assessore alla Sicurezza nella giunta guidata da Leonardo Domenici, gode di un’enorme popolarità e scalda i motori per la corsa a sindaco. “Un giorno entrai nella stanza di Domenici, stava facendo un solitario al computer, come al solito. Gli dissi: Leonardo, mi voglio candidare alle primarie per sindaco. Ti faranno a pezzi, tu fai paura, mi rispose lui senza alzare lo sguardo”. 18 novembre 2008, un avviso di garanzia gli viene recapitato nell’ambito dell’inchiesta sulla urbanizzazione della piana di Castello. “Il giorno prima avevo festeggiato il mio compleanno. Il giorno dopo fu l’inizio della fine”. Al centro dell’inchiesta c’è il progetto ‘Sviluppo a nord-ovest’ nell’area a ridosso dell’aeroporto. Alla fine degli anni Ottanta il Pci prepara una mega variante per edificare 4 milioni di metri cubi ma il progetto viene bloccato all’ultimo da Achille Occhetto. Vent’anni dopo la giunta Domenici ci riprova: il piano prevede uno stadio, un parco divertimenti, un mix di immobili pubblici e privati, inclusa la nuova sede della Provincia guidata da un giovane Matteo Renzi. La proprietà fa capo alla Fondiaria di Salvatore Ligresti. Secondo la procura di Firenze, Cioni avrebbe favorito gli interessi di Ligresti ricevendo in cambio un aiuto sulla carriera di uno dei suoi figli (dipendente di Fondiaria), una casa ad affitto scontato per un’amica e alcune migliaia di euro come sponsorizzazione. Otto anni di processo e un’assoluzione definitiva che non restituisce la vita strappata.

 


Milano, inaugurazione dell'anno giudiziario 2015 (Foto LaPresse)


 

“Accusato di un reato infamante come la corruzione, non potevo che dimettermi. Non credo nei complotti ma sono incuriosito dalle circostanze”. Le prove mancano, i finanziamenti provenienti da Fondiaria sono stati impiegati per una campagna sulla sicurezza stradale e per acquistare i climatizzatori destinati a un centro anziani. “Bilancio e urbanistica erano le sole materie di cui non mi ero mai occupato da assessore. Ho partecipato a una sfilza di udienze in tribunale, mi sembrava di vivere una vita non mia: com’è possibile che io mi trovi qui? Proprio io che in passato avevo denunciato due soggetti che avevano tentato di corrompermi. In tribunale ho visto sfilare decine di persone, convocate in qualità di testimoni, che non avevo mai incontrato prima”. A Cioni gli inquirenti contestano il rapporto privilegiato con Fausto Rapisarda, braccio destro di Ligresti scomparso due anni fa. “Io chiedevo soldi a tut-ti-a-tut-ti. Era il mio compito: portavo avanti decine di iniziative sociali in favore di anziani, barboni, disabili. Qualcuno mi chiamava i’ Padre Pio. Raccoglievo contributi finalizzati a migliorare la vita delle persone normali. Che cosa deve fare un politico se non questo?”.

 

Con ogni probabilità oggi finirebbe indagato per traffico di influenze. “Pura follia. Se hanno armi spuntate, è difficile che i politici possano servire gli altri oltre che se stessi. Io le scale della Federazione le ho sempre salite poco. Io stavo tra la gente, per questo ero amato e odiato. Al momento delle elezioni ero sempre il più votato”. Le iniziative contro lavavetri e mendicanti: lei ha sdoganato il tema della sicurezza a sinistra. “La sicurezza non appartiene a questo o a quel partito, la sicurezza è buon senso. I lavavetri aggredivano le donne che portavano i bambini a scuola. I mendicanti alimentavano un racket: ogni mattina un furgoncino li scaricava e poi passava a ritirarli la sera, come fossero un pacco. L’Arci e la sinistra ortodossa mi fecero la guerra, la gente ancora oggi mi ringrazia”. A ogni tornata elettorale lei faceva il pieno di preferenze. “Mi adoperavo per tutti. Sa quante volte ho trovato un lavoretto a un disoccupato? La porta del mio ufficio era sempre aperta, fuori c’era la fila. Non me ne vergogno. Se uno ti chiede qualcosa che puoi fare, perché negarla? A me non riesce dir di no”. Gli ultimi otto anni sono scanditi dai processi, dal secondo matrimonio naufragato, dal “paziente inglese”, il morbo di Parkinson, che in certe giornate storte non gli consente di uscire di casa. I cinque figli, anzi quattro, gli stanno vicino.

 

“Nel 1996 Valentina è rimasta uccisa in un incidente stradale. Aveva 26 anni. Tutti mi rompono i coglioni con la storia che sono dalemiano. Sapete chi fu il primo che bussò alla porta di casa mia? Il signor D’Alema. Si era fatto la strada da Roma fino alla campagna di Empoli per abbracciarmi”. Cioni fa una pausa, abbassa lo sguardo e prende fiato. “Io resto ateo e comunista. Ma dopo la morte di mia figlia ho cominciato a pormi il problema dell’aldilà. Non sa che cosa darei per poterla reincontrare un giorno”. Non c’è spazio per le parole, silenzio. “Se non fosse stato per i miei figli che in questi anni mi hanno detto: papà, devi reagire, non devi mollare, io mi sarei chiuso in casa e mi sarei lasciato morire di vergogna. A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione?”. Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono.

 

Luglio 1992, Camera dei deputati, in occasione del voto di fiducia al governo Amato il leader socialista Bettino Craxi chiama in correità tutto il Parlamento per l’inchiesta Tangentopoli dichiarando “spergiuro” chi avesse negato di aver fatto ricorso al finanziamento illecito dei partiti. Cioni assiste silente a pochi metri da quello scranno. “Ricordo ogni istante di quel discorso. Craxi è uno dei pochi statisti che l’Italia abbia avuto. Averlo lasciato morire da reietto a Hammamet è una vergogna che ci portiamo sulla coscienza”. 1992, lei da che parte stava? “Io ero un anti craxiano di ferro. Votai per l’autorizzazione a procedere, oggi non lo rifarei. Pensavo che lui avesse torto. A distanza di diversi anni, ho capito che avevamo torto noi, lui aveva ragione”. All’epoca lei ignorava i canali di finanziamento del Pci attraverso “l’oro di Mosca”? “A Firenze il Partito si reggeva sul tesseramento e sulle feste dell’Unità. Che a livello nazionale arrivassero soldi dall’Urss, era qualcosa che s’immaginava. Oggi è una verità storica”. Lei ha militato tra gli antiberlusconiani duri e puri.

 

“Per certi versi lo sono ancora, le leggi ad personam le ha fatte e io l’ho contrastato. Penso però che il processo Ruby sia la prova di un accanimento sfacciato nei suoi confronti: chi se ne frega di chi si scopa, peraltro se le pagava lui. Sapessero quello che facevo io a Firenze” (ride). Cioni è tra i fondatori dell’Italia dei valori. “Fui incaricato dal Partito di seguire l’iniziativa di Antonio Di Pietro, lo ricordo come un uomo autoritario. Che vuole che le dica, ero un giustizialista, che puttanata il giustizialismo”. Qual è il pensiero di un neofita del garantismo? “Le carriere di pm e giudici vanno separate. L’assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado ma il pm è ricorso in appello. Così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera. Perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare? E poi c’è l’equilibrio dei poteri. Io non ne faccio una questione di singoli magistrati: è il sistema che va riformato. Nel corso di un’udienza in tribunale ho sentito dire da un magistrato: grazie a noi si è evitata l’ennesima cattedrale nel deserto. Queste considerazioni si addicono forse a una toga?”.

 

All’indomani dell’assoluzione definitiva D’Alema le ha inviato un sms? “No, non l’ho sentito. Mi ha telefonato il premier e l’ho ringraziato. Ho capito sin dall’inizio che era la scarpa giusta per Firenze. Dopo di me, s’intende. Quando Renzi contesta il Primo maggio o l’articolo 18, io non lo seguo, al referendum costituzionale voterò contro. Tuttavia gli riconosco le qualità del politico di razza”. I fiorentini al potere lei li ha conosciuti giovanissimi. “La Boschi l’ho incontrata quando animava il comitato elettorale di Ventura, avversario di Renzi. Al governo, dopo un’iniziale diffidenza, è riuscita a piacermi, lo scivolone su CasaPound poteva evitarlo. Luca Lotti me lo ricordo bene: è uno dei pochi cavalli pregiati di questo governo. Di lui Renzi può fidarsi. Bonifazi, il tesoriere, è uomo di retrovia, fa un lavoro necessario lontano dai riflettori. Conosco suo padre, Pci come me, da quando era segretario amministrativo dell’azienda di gas e acqua a Empoli. Ogni tanto glielo dico a Francesco: dovresti dormire di più…”. S’intuisce che l’ex apparatcik dalemiano è incuriosito dal nuovo corso renziano. “La giustizia va riformata, è un’urgenza e mi auguro che il governo agisca”. I’ Cioni compulsa lo smartphone, con l’indice fa scorrere i messaggi: “In questi anni vissuti da imputato e pensionato forzoso Facebook mi ha tenuto compagnia. Ho oltre 5 mila amici e ogni giorno scrivo un’opinione”. Tra le foto con Kofi Annan e Maria Grazia Cucinotta, sul social network i’ Cioni si descrive così: “Uno che, nonostante tutto, crede che la vita, unica e irripetibile, sia una cosa meravigliosa”.