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Fermare la magistratura militante

Giovanni Fiandaca
Chi tradisce quell’immagine di terzietà che il giudice dovrebbe sempre preservare. Argomenti fuffa con cui i pm giustifcano il proprio protagonismo. Catalogo.

Facendo seguito a un primo commento del caso Morosini (cfr. il mio intervento su questo giornale del 10 maggio), può essere utile passare in rassegna le principali argomentazioni avanzate da alcuni magistrati per giustificare il loro impegno nella campagna referendaria relativa alla riforma costituzionale. Ma, nel farlo, ometterò riferimenti nominativi a questo o a quell’esponente del mondo giudiziario che ha ritenuto di dover prendere posizione nel dibattito pubblico. Ciò per evitare confronti personalistici, nel convincimento che la fondatezza delle opinioni manifestate sia da vagliare anche a prescindere dalla notorietà personale, dalla autorevolezza o dal carisma mediatico di quanti sono intervenuti.

 

Richiamo, innanzitutto, il percorso argomentativo che pretende di collocarsi in un orizzonte di riflessione di respiro particolarmente ampio. Che cioè non solo abbraccia la missione della giurisdizione nel quadro costituzionale e nella contingente cornice politica domestica, ma – dilatando al massimo il campo di osservazione – si spinge sino a includere le tendenze politico-economiche emergenti nello scenario globale. Viene da rilevare subito che esisterebbe, in ogni caso, una grande sproporzione di scala tra il potere d’intervento della magistratura italiana (e, più in generale, la complessiva capacità di incidenza del sistema politico-istituzionale nostrano) e le pericolosissime minacce, in termini di involuzioni autoritarie e di eccessi liberistici, che si paventa derivino dall’attuale modo d’atteggiarsi del capitalismo mondiale. Sicché, non risulta affatto chiaro per quali ragioni una riforma costituzionale volta a rafforzare  la governabilità del sistema italiano, con temuto ridimensionamento del ruolo del Parlamento, dovrebbe provocare – come automatico e ineluttabile effetto –  una deriva del nostro sistema democratico, tale da impedire addirittura alla stessa magistratura di salvaguardare efficacemente i diritti fondamentali dei cittadini e, in particolare, di quelli appartenenti alle fasce più deboli. A prescindere dall’obiezione dell’involversi del ragionamento in una manifesta petizione di principio, le valutazioni pessimistiche relative alla paventata riconversione oligarchica del potere mondiale hanno natura politica, e poco hanno a che fare con la dimensione strettamente costituzionale (a meno che non si sia convinti della impossibilità di distinguere tra diagnosi  politica su scala internazionale e approccio costituzionale, ma allora proprio questa ritenuta indifferenziabilità  di piani di osservazione fornirebbe la conferma delle valenze “politiche”, e non soltanto costituzionali, della campagna referendaria!). Quanto poi alla missione strategica che si ritiene i nostri padri costituenti avrebbero affidato alla magistratura, e cioè il compito di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo, diciamo che si tratta di un assunto abbastanza ardito proprio sul versante costituzionale. Non c’è bisogno di essere costituzionalisti di mestiere per sapere che gli artefici della nostra Costituzione concepirono la Corte costituzionale proprio perché diffidavano dal consegnare il controllo di costituzionalità nelle mani della magistratura comune. Lungi dall’avere una qualche legittimazione costituzionale, la tesi che vorrebbe assegnare alla magistratura penale prioritariamente il compito di esercitare un controllo di legalità sul potere politico ha, in realtà, una genesi riconducibile alla cultura giudiziale dei magistrati di sinistra e, in particolare, di quelli appartenenti a Magistratura Democratica.

 

Si tratta, com’è evidente, di una tesi che presta il fianco a non poche obiezioni, ma che risulta coerente con l’attenzione privilegiata che gli iscritti a Md tradizionalmente rivolgono alle dinamiche politiche. 

 

Rispetto all’ulteriore argomento posto a fondamento giustificativo dell’impegno referendario, e cioè il fatto che il giudice sia tenuto a interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione, anche questa volta ci troviamo di fronte a una mancanza di connessione logico-giuridica: la riforma costituzionale concerne infatti la seconda parte della Costituzione relativa all’organizzazione statuale, mentre lascia intatti i diritti fondamentali e tutti i princìpi invocabili ai fini di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle leggi. Dove sta, allora, il problema? Forse, nella preoccupazione emotiva che il rafforzamento dell’esecutivo comporti, anche come messaggio simbolico, una limitazione delle libertà fondamentali e una svalutazione dei diritti sociali.

 

Ma vi sono approcci argomentativi sviluppati in un orizzonte di riflessione meno generale e impegnativo, e dunque più interessati alle ragioni concrete delle polemiche contingenti. Così, si è da parte di qualcuno osservato che, se la riforma costituzionale ha assunto valenze politiche anche in termini di consenso o dissenso all’attuale governo, la colpa sarebbe tutta di Renzi per avere impropriamente voluto includere la revisione della Costituzione nella contesa politica, mentre ai magistrati impegnati contro la riforma starebbe a cuore soltanto la questione costituzionale in sé considerata. Questo modo di ragionare è capziosamente formalistico: a magistrati interessati più alla sostanza delle cose, che al rispetto di formali regole di deontologia, non dovrebbe sfuggire che l’avvenuta politicizzazione – piaccia o non piaccia – della campagna referendaria conferisce (oggettivamente) il ruolo di attori politici anche a quanti vorrebbero avversare la riforma sulla base di (soggettive) motivazioni di ordine puramente costituzionale. Da parte di altri si è obiettato che non pochi magistrati italiani sono stati attivi protagonisti della precedente campagna referendaria del 2006, schierandosi pubblicamente, senza che ciò – a differenza di oggi – sollevasse alcun problema di legittimità o di opportunità. E si aggiunge, più o meno maliziosamente, che questa militanza sarebbe stata tollerata forse perché alla sinistra di allora faceva comodo avere la magistratura progressista alleata contro Berlusconi, mentre l’attuale sinistra al governo non gradirebbe l’opposizione politica di questa stessa magistratura. Fondata o meno, una simile obiezione rimane circoscritta pur sempre nell’ambito delle valutazioni politiche, e non tocca ancora il piano delle argomentazioni costituzionali. Lo toccherebbe, invece, se si volesse anche sostenere che la tolleranza manifestata nel recente passato abbia avuto l’effetto di legittimare costituzionalmente, in chiave per così dire di Costituzione materiale, la partecipazione di singoli magistrati o di gruppi associativi alla battaglia referendaria. Sennonché, ribadendo quanto ho osservato nel mio precedente articolo, non basta un precedente atteggiamento di tolleranza “di fatto” a dare vera copertura costituzionale alla militanza attiva dei magistrati: se fosse decisiva la “forza normativa del fattuale”, se fosse sufficiente riuscire a occupare uno spazio per rendere (costituzionalmente) legittimo questo spazio, che bisogno più si avrebbe di una Costituzione scritta?

 

Inoltre, è diffuso il rilievo che la militanza magistratuale sarebbe giustificata dal fatto che le competenze professionali dei giudici sarebbero utilissime per affrontare i problemi giuridici connessi alla riforma costituzionale. Sennonché, anche qui, il mestiere di magistrato ordinario (di merito o di legittimità) di per sé non conferisce alcuna speciale competenza nell’ambito del diritto costituzionale; e se ne ha una riprova considerando – come è già stato osservato – che non risulta che i magistrati finora intervenuti nel dibattito abbiano fornito contributi originali, in termini di analisi o di proposta, ai lavori di riforma.

 

Non si è, infine, mancato di obiettare che è preferibile consentire ai magistrati una leale battaglia di idee professate a viso aperto e col coraggio di esporsi, piuttosto che costringerli a un impegno referendario timoroso e manifestato in modi ambigui o sotterranei. Questo tipo di argomentazione perde di vista che non è in questione il profilo etico di una eventuale militanza referendaria, per cui il viso aperto sarebbe da preferire al sotterfugio. In ballo vi è qualcosa di diverso e di molto importante, che attiene alla natura stessa della funzione giurisdizionale vista con gli occhi dei cittadini. I magistrati militanti, infatti, trascurano che la loro militanza risulta alquanto sgradita a una parte consistente del popolo italiano, la quale vede appannata l’immagine di terzietà che il giudice dovrebbe riuscire sempre a preservare.

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