Berthe Morisot, Un giorno d'estate (1879)

La Pittura è una devozione ribelle che rende libere (dagli uomini, e non solo)

Sofia Silva

“Le disobbedienti”, il libro di Elisabetta Rasy su sei artiste vissute d’arte

"E’ irrequieto", si dice dei bambini pestiferi. “E’ un’anima in pena”. Con l’avanzare dell’età l’irrequietezza è propensa a sfociare in un estremo – nella trasgressione o nell’ubbidienza – oppure continua una sommessa esistenza nel reame dei segreti. L’irrequietezza è un sentimento paziente, cerca un altrove, al contempo prova amore per lo stato delle cose, non vi si oppone. Elisabetta Rasy ha scritto un libro sulla vita di sei pittrici (Le disobbedienti, Mondadori); a ognuna di loro ha attribuito una condizione dell’anima: Berthe Morisot è l’irrequietezza.

  

Berthe Morisot, la dama dell’Impressionismo, appartiene al ceto della borghesia benestante di Parigi; destinata al matrimonio, è portata a lezione di pittura per arricchire il bagaglio delle virtù. Con grande dispiacere della madre Cornélie, l’occupazione della virginale giovinezza diventa una ragione di vita. Benché gli ammiratori abbondino tra professionisti e Impressionisti, Berthe protrae la propria verginità per molti anni, in un rifiuto del matrimonio e del cibo a favore dell’unica compagna, la pittura. L’esile Berthe vive un lungo amore platonico per Edouard Manet, posando per lui numerose volte, e alla fine ne sposa il quieto fratello Eugène; è fautrice, insieme ai più trasgressivi tra i suoi compagni, della grande rottura tra l’Impressionismo e l’accademia. Berthe pittrice di donne e di luce vistosamente ghigliottina la tradizione, Berthe figlia rispetta tutte le regole borghesi; è in questo nucleo dialettico che vive la grandezza di un sentimento pacato, l’irrequietezza.

 

Il libro di Elisabetta Rasy, nelle pagine che trattano di Artemisia Gentileschi come in quelle dedicate a Suzanne Valadon, svela un passaggio spesso sottovalutato dalla storia dell’arte: il nucleo sociale in cui nasce e sviluppa l’artista donna è la famiglia. Ben prima di dover affrontare le leggi della comunità pittorica maschile, la pittrice è una figlia. Gelosamente custodita, selvatica, modello di castità, modella di place Pigalle, priva di padre, di madre o priva di educazione, qualunque rapporto nutra con il proprio contesto d’origine, l’artista è estranea all’usuale metamorfosi della ragazza in moglie: diventa pittrice quando è ancora figlia. Nella prosa di Rasy emerge che per tutte e sei le donne – Gentileschi, Vigée Le Brun, Morisot, Valadon, Salomon, Kahlo –, siano esse nubili o maritate, la Pittura è una forma di devozione artemidea, vera sposa di un patto extra-sociale che preserverà le sue devote dal dominio maschile per perpetrare quella libertà incontrata come figlie di genitori a proprio modo progressisti.

 

Saltando di letto in letto, di corte in corte, di nave in nave, le disobbedienti di Elisabetta Rasy hanno tessuto nei secoli il diario della femminilità, guidate dal vessillo di libertà individuali che sono precognizioni della fierezza di genere. La lettura di quest’opera ricorda che la libertà non danza il can-can delle possibilità, ma vive in una pulsione dialettica che lotta tra limite e desiderio.

 

Narrando la vita di Elisabeth Vigée Le Brun, Rasy scrive: “Non esita a ispirarsi alle sante in estasi della grande pittura italiana per ritrarre le signore che si affidano al suo sguardo: lei è la pittrice di un’estasi laica, di cui le donne possiedono il segreto. […] Quando arriva a corte, tutti sanno ormai che Elisabeth è la pittrice del desiderio”. Che siano fiere figlie di un padre morto prematuramente come nel caso di Vigée o figlie senza padre come Suzanne Valadon, fanciulle disinteressate all’amore o passionali regine dei letti di Parigi, le sei pittrici amano le donne e donano a queste la cognizione di un corpo moderno, talvolta tramite la riscoperta dell’arcaico. Non si limitano ad accogliere i dettami della pittura sperimentale del proprio tempo, li creano; lo stravolgimento compositivo di Gentileschi, le vaporosità di Vigée, la rotta crudeltà delle linee di contorno di Valadon, l’effimerità del bianco di Morisot, la narrazione fluida di Salomon e il rapporto tra arte alta e popolare ribaltato da Kahlo sono i punti salienti della storia della pittura, non corollari di genere. Ai nostri giorni si parla talmente tanto e con una tale genericità a proposito della revisione del canone in favore del ruolo della donna che l’inquietante dubbio su suddetto canone si è trasformato in un’anestetizzante battaglia; ci si pongano alcune schiette domande: nella sua maestria Renoir è un pittore più meritevole di essere studiato rispetto alla guizzante Berthe Morisot? E le espressive, grafiche rese del mondo moderno padroneggiate da Toulouse-Lautrec hanno lasciato una maggiore eredità ai giovani pittori rispetto alla sgraziata mano della Valadon? Tra gli alti meriti di Elisabetta Rasy, quello di raccontare le sei disobbedienti in quanto pittrici, più che eroine o avventuriere; l’autrice ne descrive con accuratezza ed eleganza lo stile, le connessioni tra biografia e rapporto con la forma.

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