Steve Bannon (foto LaPresse)

Ve la do io l'Italia

Joshua Green

L’ossessione di Bannon per la rivoluzione populista in Europa ha due basi: Lega e M5s. Obiettivo: uscire dall’euro

[Pubblichiamo la prefazione, esclusiva per l’Italia, a “Il Diavolo - Steve Bannon e la conquista del potere”, il libro di Joshua Green edito da Luiss University Press (248 pp., 23 euro). La postfazione è di Giovanni Orsina. Green è corrispondente per Bloomberg e analista politico della Cnn. Ha collaborato con l’Atlantic e come editorialista politico al Boston Globe].


 

La voce che sentivo al telefono era euforica, come se la persona che stava chiamando avesse bevuto un po’ troppe tazze di caffè. “Sono pronto a intervenire pubblicamente” mi disse Steve Bannon. Non mi aspettavo di sentire questo.

Era il 18 agosto del 2017, quasi un anno dopo che Bannon aveva assunto il controllo della convulsa campagna presidenziale di Donald Trump, e poche ore prima il suo incarico come capo stratega della Casa Bianca era appena arrivato a una brusca conclusione – in parte a causa del libro che avete fra le mani.

 

Il ruolo di Bannon alla Casa Bianca mi aveva sempre colpito come qualcosa di precario. Lui era un provocatore, un outsider senza esperienza nella gestione delle leve di governo, un uomo con forse più nemici di chiunque altro a Washington, uno abituato a lottare aspramente contro tutti quelli con cui non era d’accordo. Inoltre Bannon era un estremista dotato di un piano grandioso per trasformare la politica, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. Qualcosa dunque doveva succedere.

Abituato all’autorità indiscussa di cui aveva goduto durante i tumultuosi mesi finali della campagna di Trump, e infatuato della celebrità globale che si era guadagnato per aver orchestrato l’incredibile vittoria contro Hillary Clinton, Bannon era infastidito dalle restrizioni che comportava il fatto di vivere alla Casa Bianca. Si scontrò ripetutamente con tutti, dalla figlia di Trump Ivanka e il marito Jared Kushner (suo stretto alleato durante la campagna elettorale), alle persone che in modo derisorio definiva “i globalisti”, un gruppo di dirigenti di Goldman Sachs che Trump aveva nominato in ruoli di rilievo nella sua Amministrazione, inclusi il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, e il direttore nazionale del Consiglio economico, Gary Cohn.

 

 

Ma alla fine a provocare la caduta di Bannon fu il suo profilo pubblico e la rabbia che questo generò nel suo capo. Come mi disse lo stesso Bannon quando erano passati appena due mesi dalla sua nomina alla Casa Bianca – dopo che Time lo aveva soprannominato “Il grande manipolatore” e aveva messo il suo volto sulla copertina –, “Trump non vuole alcun coprotagonista”. Sapendo che questo libro gli avrebbe probabilmente causato altri problemi, Bannon aveva provato per due volte (senza successo) a posticiparne la pubblicazione e poi era sparito dalla circolazione non appena il volume uscì negli Stati Uniti, nel tentativo di mantenere un profilo più basso.

 

Un’ossessione che aveva covato per tutto il tempo con Trump: il riordino della politica europea. Una rivolta della destra a livello globale

Non funzionò. La stessa mattina, sempre del 18 agosto, il Washington Post riferì che Trump era “infuriato per la partecipazione di Bannon al libro del giornalista Joshua Green di Bloomberg News, Devil’s Bargain – in particolare per una foto di copertina che attribuiva la stessa attenzione a Trump e al suo capo stratega. Ogni volta che Green era alla Cnn, con la quale ora collabora, Trump si irritava sempre più per i suoi riferimenti a Bannon come ideologo e stratega – ed era infastidito dal fatto che la conversazione non riguardasse invece Trump stesso”.

In definitiva, l’idea che qualcuno oltre il solo Trump fosse responsabile della sua vittoria alle elezioni del 2016 – ed è quella precisamente la tesi di questo libro – era qualcosa che il presidente non poteva tollerare. Così il destino di Bannon fu segnato. Doveva aspettarselo.

 

Eppure Bannon non è una persona che serba rancore. E il suo allontanamento dalla Casa Bianca significò che finalmente sarebbe stato libero di perseguire un’ossessione che aveva covato per tutto il tempo in cui aveva lavorato per Trump, ma alla quale non aveva potuto dedicarsi mentre prestava servizio come alto funzionario del governo degli Stati Uniti: il riordino della politica europea. Bannon era convinto che la sconvolgente vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del 2016 non fosse un fenomeno americano, ma parte di una rivolta della destra a livello globale che era iniziata in Europa, era stata decisiva per il voto della Gran Bretagna a favore della Brexit, e poi aveva terremotato la politica americana portando Donald Trump alla Casa Bianca. Questa rivolta, ne era certo, non era vicina alla propria fine. “E’ iniziata in Europa, si è diffusa negli Stati Uniti” mi disse Bannon “e ora si diri- ge di nuovo lì da dove è venuta”.

Alcuni mesi prima, seduto nel suo ufficio della Casa Bianca a pochi passi dal presidente Trump, Bannon mi aveva confessato che desiderava essere coinvolto nelle elezioni francesi per conto di Marine Le Pen, la leader politica che si stava battendo per sconfiggere Emmanuel Macron. Bannon, la cui alta opinione di sé non aveva mai vacillato, era certo che se gli fosse stato permesso di gestire la campagna elettorale della Le Pen, lei avrebbe vinto. Ma naturalmente la sua posizione di capo stratega della Casa Bianca non gli aveva permesso di agire.

Ora Bannon era senza impedimenti, libero da ogni costrizione della Casa Bianca. E telefonava per farmi sapere che oltre alla campagna per Trump aveva tutte le intenzioni di dedicarsi alle questioni europee. La rabbia contro le “élite” che gestiscono l’Unione europea, gli attacchi del terrorismo islamico in tutto il continente e le ondate di immigrati che sconvolgono la politica interna dei paesi dell’Unione come la Germania avevano convinto Bannon che l’Europa sarebbe stata ancora una volta l’epicentro per il populismo di destra che egli sperava di fomentare. Un paese in particolare attirò il suo interesse, al punto che mi disse che intendeva visitarlo il prima possibile: l’Italia.

 

Bannon era stato a lungo affascinato dall’Italia. Aveva letto a fondo gli scritti del controverso filosofo italiano Julius Evola, le cui idee erano alla base delle teorie razziali fasciste di Benito Mussolini e che aveva anche influenzato le opinioni di Bannon sul nazionalismo. Negli anni Novanta, quando era un banchiere d’affari specializzato nei media, Bannon aveva consigliato Silvio Berlusconi, la cui Fininvest stava spendendo centinaia di milioni di dollari per acquistare diritti di film e programmi televisivi americani (“Non aveva idea di cosa stesse facendo” disse di Berlusconi il socio d’affari di Bannon). Più di recente, Bannon, che si considera un cattolico devoto ma disprezza Papa Francesco, aveva fondato la redazione romana di Breitbart News per dare manforte alle forze conservatrici all’interno del Vaticano.

 

Tuttavia l’aspetto dell’Italia che più interessava Bannon era la politica di questo paese. Mentre era alla Casa Bianca, aveva seguito avidamente l’emergere di partiti politici italiani come la Lega e il Movimento cinque stelle, convinto che rappresentassero una strada verso il futuro per il populismo di destra. “Quello a cui stai assistendo in Italia è un impegno straordinario da parte dei giovani sulle questioni più importanti del momento” mi disse con tono concitato diversi mesi dopo aver lasciato la Casa Bianca. “Quando osservi le dimensioni e l’energia di questi comizi, organizzati senza soldi e attraverso internet, ti ricordano i comizi di Trump”.

 

Su consiglio di alcuni amici, ha cercato Armando Siri, attuale sottosegretario di stato al ministero delle Infrastrutture e Trasporti

Nel febbraio del 2018, Bannon si è recato in Italia per assistere da vicino a questi eventi. Su consiglio di alcuni amici, ha cercato Armando Siri, attuale sottosegretario di Stato al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. “Era un signore che ho tentato di contattare fin dall’inizio, per incontrarlo e conoscerlo” racconta Bannon. Ciò che Bannon trovava così allettante della politica italiana – la ragione per cui pensava che l’Italia fosse “il centro di gravità del movimento populista-nazionalista a livello globale” – era che politici un tempo posizionati alle ali estreme come Matteo Salvini e Luigi Di Maio (“attori marginali”, come li definì) erano emersi apparentemente dal nulla e sembravano in grado di attuare una sintesi politica che Bannon avrebbe tanto voluto vedere realizzata negli Stati Uniti: l’unione delle forze anti-establishment (il Movimento cinque stelle di Di Maio) con le forze nazionaliste (la Lega di Salvini). Quando i due partiti hanno formalizzato questa unione nel maggio 2018 con il “Contratto per il governo del cambiamento”, Bannon fu entusiasta. “Hanno messo da parte la politica di sinistra e di destra in modo che un movimento puramente populista e un movimento nazionalista possano unirsi” disse mentre accostava i palmi delle mani come a mimare quell’avvicinamento. “Ora vedremo se possono essere buoni alleati.”

 

Bannon pensò che questo esempio tracciasse una rotta per i partiti nazionalisti di destra in tutta Europa e si rallegrò quando il Financial Times si riferì alla coalizione Lega-Cinque stelle come ai “moderni barbari”. Gli ricordava il modo in cui Hillary Clinton aveva etichettato i sostenitori di Trump, “deplorevoli”, un insulto che Bannon e le legioni di Trump avevano abbrac- ciato con entusiasmo, e che si era ritorto contro la Clinton. La decisione di Salvini di condurre una campagna elettorale sullo slogan “Prima gli italiani” aveva ulteriormente convinto Bannon che il marchio politico di Trump stava ora riecheggiando in Europa.

Questo era molto importante per Bannon, non solo perché voleva che queste idee si diffondessero e germogliassero, ma anche perché nel gennaio 2018 divenne improvvisamente chiaro che l’Europa era l’unico posto in cui Bannon poteva sperare di esercitare una qualche influenza politica. Poche settimane prima, l’autore Michael Wolff aveva pubblicato un libro, Fire and Fury: Inside the Trump White House, in cui si citava Bannon che insultava la figlia del presidente, Ivanka, alla quale aveva dato dell’idiota, e che definiva “sovversivi” gli incontri nella Trump Tower tra alcuni agenti russi e il figlio del tycoon, Don Jr. Per Trump fu la goccia che fece traboccare il vaso: ancora un altro libro in cui Bannon aveva promosso sé stesso senza pudore, a spese del presidente che avrebbe dovuto servire.

 

“Alla fine spingeranno per tornare alla lira… Ho detto a Salvini: Se avrai un po’ di coraggio politico, avrai un’opportunità unica”

Trump si scagliò pubblicamente contro il suo ex stratega in un sorprendente comunicato stampa della Casa Bianca con il quale lo soprannominò “sciatto Steve”, ribadendo che non aveva nulla a che fare con la sua vittoria. Cosa ancora più importante, Trump scomunicò Bannon dalla politica repubblicana, incoraggiando i finanziatori del suo ormai ex consigliere, la ricca famiglia Mercer, a tagliarlo fuori e ad allontanarlo dal potente ruolo di capo di Breitbart News. Trump disse ai funzionari di rango della Casa Bianca, molti dei qua- li erano stati scelti da Bannon durante il suo periodo come capo stratega, che avrebbero dovuto scegliere fra lui e Bannon. Ma era difficile parlare di una “scelta”: i funzionari più alti in grado, come lo zelota anti-immigrazione Stephen Miller, furono mandati in televisione per attaccare e criticare Bannon.

Separato forzosamente dai suoi vecchi alleati americani e ostracizzato da Trump, Bannon ha cercato di ristabilirsi in Europa. Ha fatto dell’hotel Raphael, a Roma, una sua sede temporanea. Dal panoramico ristorante all’ultimo piano, ha lavorato per riunire una vasta coalizione di partiti populisti che avrebbero dovuto diffondersi in tutta Europa, incontrando i rappresentanti di Cinque stelle e Lega, Fratelli d’Italia, il Popolo della Famiglia, Alternative fiir Deutschland e Front National.

Ma organizzare semplicemente una coalizione politica era troppo banale per un personaggio come Bannon, uno che ragiona soltanto ricorrendo alle categorie della Storia. Oltre a offrire i suoi consigli ai partiti nazionalisti, Bannon e alcuni dei suoi alleati rimasti hanno deciso di lanciare un progetto davvero bizzarro.

 

Dopo aver incontrato Armando Siri, Bannon era rimasto affascinato da una scuola che il politico italiano aveva fondato a Milano, la Scuola di formazione politica, una sorta di campo di addestramento ideologico per indottrinare i giovani alla politica di destra. Bannon pensava che questa idea fosse geniale. Poco dopo, lui e un amico, Benjamin Harnwell, un attivista cattolico conservatore dalla Gran Bretagna che dirige l’Istituto per la dignità umana, hanno preso in affitto un remoto monastero costruito ottocento anni fa su una collina a Trisulti, poco più di cento chilometri a sud di Roma, con l’obiettivo di aprire una propria scuola ideologica. “Stiamo costruendo una scuola di gladiatori” mi ha detto con orgoglio quando l’ho incontrato in una lussuosa suite di un albergo a New York City nell’estate del 2018. “Stiamo costruendo una scuola di gladiatori di destra, lassù tra le montagne, che addestrerà giovani gladiatori politici e mediatici nella difesa dei valori giudaico-cristiani. Saranno soldati nelle guerre culturali”.

Bannon ha proseguito: “Insegneremo loro tutto. Li metteremo fisicamente in forma. Insegneremo loro a difendersi, fisicamente e mentalmente. Sarà come Spartacus”.

 

Incoraggiato dall’energia politica che ha percepito tra i giovani italiani, Bannon ha immaginato un’intera rete di queste accademie ideologiche da costruire in Europa e nel mondo. Insieme a Harnwell ha dovuto superare le obiezioni del sindaco di Trisulti che si è opposto al governo italiano che ha affittato un monastero di ottocento anni fa a un gruppo di ideologi turbolenti. Gli sembrava assurdo che il famoso capo stratega di Trump fosse sbarcato nella sua tranquilla cittadina di montagna, ma eccolo lì. Bannon non si era la- sciato intimidire. Mi ha mostrato una foto del monastero sul suo laptop e mi ha detto di sperare di riuscire a esportare quell’idea negli Stati Uniti.

 

 

Le energie di Bannon alla fine hanno preso ufficialmente forma sotto la bandiera di un gruppo con sede a Bruxelles chiamato The Movement, “Il Movimento”, fondato dal politico belga Mischaél Modrikamen. L’obiettivo del Movimento è creare un’alleanza paneuropea di partiti politici che dovrebbero impegnarsi per far avanzare gli ideali nazionalisti di destra radicale che Bannon predica da sempre: importanza di confini forti, sovranità nazionale, limiti rigorosi e persino draconiani all’immigrazione, ostilità verso l’Islam. Per come lo immaginano Modrikamen e Bannon, il loro progetto si concentrerà inizialmente sulle elezioni parlamentari europee del maggio 2019; in quell’occasione i due sperano di contribuire a eleggere un blocco populista per respingere le forze “globaliste” di politici come Angela Merkel e Emmanuel Macron.

 

“Stiamo costruendo una scuola di gladiatori politici e mediatici nella difesa dei valori giudaico-cristiani. Soldati nelle guerre culturali”

Mentre il suo potere negli Stati Uniti svaniva, Bannon si è impegnato in ciò cui aveva dato inizio all’hotel Raphael, viaggiando avanti e indietro attraverso l’Europa, dall’Ungheria alla Francia, dalla Svizzera alla Germania, tentando — con scarso successo — di arruolare i partiti nazionalisti di questi paesi, spesso scettici, nel suo grande piano globale.

Eppure ha sempre fatto ritorno in Italia sia perché attirato dall’entusiasmo per il clima politico sia per necessità. A oggi, la Lega anti-immigrati di Salvini e il partito di destra radicale Fratelli d’Italia sono gli unici due gruppi che si sono affiliati pubblicamente a Bannon e al Movimento. “E’ di vitale importanza che la cosa in Italia funzioni” mi ha detto Bannon riferendosi alla coalizione di governo.

Ed era ottimista sul fatto che avrebbe funzionato. “Saranno all’avanguardia nella ridefinizione dell’Unione europea e di ciò che è l’euro. Penso che alla fine spingeranno per tornare alla lira. Penso che tutti questi paesi si muoveranno in questa direzione. Si renderanno conto che questa è stata tutta una truffa che la Germania ha inflitto a noialtri”.

Mi è sembrato strano che avesse usato la parola “noialtri”, ma questo è anche un segno dell’identificazione di Bannon con il suo progetto europeo. Non una cosa da poco per una persona che tempo fa mi aveva descritto con orgoglio la sua filosofia come quella dell’“America first”, “America al primo posto”, ancor prima che Trump facesse proprio tale slogan. Adesso che Bannon aveva iniziato a fare eco al suo nuovo alleato, Salvini, sembrava più interessato a mettere l’Italia al primo posto.

 

Stava in piedi davanti a un’enorme finestra di vetro, che appariva più piccola di quanto in realtà fosse a causa delle notevoli dimensioni della sua lussuosa suite. Mentre guardava lo skyline di Manhattan, sembrava stesse immaginando Roma. “Dipende tutto dall’Italia” mi ha detto. “E’ la stessa cosa che ho detto a Salvini. Gli ho detto: ‘Ehi, se avrai un po’ di coraggio politico, avrai un’opportunità unica per unire Nord e Sud, sinistra e destra, per combinare assieme populismo e nazionalismo’.” Bannon proseguì: “Gli ho detto: ‘Se riesci a mettere insieme tutto questo, conquisterai la leadership mondiale di queste idee”. Immaginando questo glorioso futuro, si è ritagliato un ruolo. “Mostreremo non solo all’Europa, ma a tutto il mondo, ciò che è possibile fare” mi ha detto in quell’occasione. “Scrivilo nel tuo libro: ‘Stiamo arrivando’”.