Magnini, Pivatelli e Boniperti per la coppa internazionale vinta dei nostri avversari per 4-0 (Foto LaPresse)

Quando c'erano i quotidiani del pomeriggio

Michele Brambilla

I cronisti battevano la città dalle cinque del mattino per vedere, raccogliere testimonianze, verificare, e scrivere per raccontare. L'epopea del Corriere d’Informazione

Alle cinque e mezza del mattino di un giorno qualunque del millenovecentottanta, per le strade di Milano circolavano ancora tre sole categorie di umani: qualche barista che si accingeva a tirar su la saracinesca, i metalmeccanici che andavano al primo turno della Breda e della Falck, e i cronisti dei quotidiani del pomeriggio. Di questa mattiniera fauna, solo i primi sono sopravvissuti. Non ci sono più, nelle città, le grandi fabbriche con le loro ciminiere, che di notte scaricavano tanto fumo da oscurar la luna e le stelle; e non ci sono più neppure quei vecchi cronisti con le loro personali ciminiere, in genere Ms, Stop, Gauloises o Nazionali Esportazione senza filtro, tonnellate di tabacco consumate nell’illusione di sopportare le alzatacce, e responsabili invece di ulcere, infarti e tumori ai polmoni che hanno decimato generazioni di giornalisti.

 

In quel 1980 ero un ragazzo e appartenevo a quella scombiccherata categoria di cronisti dei giornali del pomeriggio, gente votata all’autolesionismo, e condannata a essere esclusa da un consesso sociale che non si adeguava, giustamente, ai nostri pranzi alle undici e alle nostre cene alle diciotto, più o meno in contemporanea con i pasti serviti all’ospedale militare di Baggio. Eravamo insomma dei disadattati, devastati dalle sveglie alle 4,50 anche perché comunque incapaci di andare a letto presto la sera: ma forse nessun periodo è stato più felice di quello, e sarà anche perché quant’è bella giovinezza, con tutto quel che segue, ma felice era felice, eccome.

 

Torna in mente, quel tempo, leggendo della nascita, imprevista e sorprendente, di un giornale digitale “del pomeriggio”

M’è tornato in mente, quel tempo, leggendo in questi giorni della nascita, per me del tutto imprevista e sorprendente, di un quotidiano digitale “del pomeriggio” appunto, che si chiama Dire Oggi e sarà confezionato – apprendo – da una redazione di giovani quando non di giovanissimi. Mi sono domandato come mai andare online “nel pomeriggio”, scelta desueta e un po’ romantica, in un’èra in cui tutto è subito in rete accaventiquattro; e mi sono domandato soprattutto che cosa sappiano, quei ragazzi della redazione, dei vecchi giornali cartacei del pomeriggio e di quelle scomparse redazioni composte da cronisti che non avevano smartphone e neppure computer e tantomeno zainetti video; cronisti che battevano la città armati solo di penna, taccuino, gettoni del telefono e soprattutto di “suola delle scarpe”, come diceva il più grande dei loro direttori, Nino Nutrizio. Era un giornalismo il cui comandamento imponeva infatti di “andare sul posto”, vedere, raccogliere testimonianze, verificare, e solo infine scrivere per raccontare. L’abc del giornalismo, oggi ahimè dimenticato.

 

Nati perlopiù dopo la Seconda guerra mondiale, ma qualcuno anche prima, quei giornali del pomeriggio – La Notte, il Corriere d’Informazione, il Corriere Lombardo, Milano Sera, Stampa Sera, il Resto del Carlino Sera, Paese Sera, L’Ora di Palermo – erano la rete del tempo, nel senso di mezzo più veloce per comunicare tutto ciò che era successo dalle due di notte (ora in cui “chiudevano” i quotidiani del mattino) fino alle due del pomeriggio, e anche oltre. C’era allora, infatti, un solo telegiornale, sul canale Nazionale alle ore venti: e per saper prima di quell’ora se era scoppiata una bomba, o caduto il governo, bisognava comprare appunto il quotidiano del pomeriggio. Furono quei giornali, tanto per dire, i primi a dar notizia agli italiani della strage di Brescia e del sequestro Moro; e fu il Corriere d’Informazione a pubblicare in prima pagina la foto scattata in via De Amicis il giorno in cui fu ucciso il vicebrigadiere Antonio Custra (14 maggio 1977), foto destinata a diventare l’immagine simbolo degli anni di piombo: un giovane incappucciato, con le gambe leggermente piegate, le braccia tese in avanti, le mani giunte a impugnare una P38.

 

 La telefonata di Afeltra a Buzzati. La stagione d’oro del Corinf con Gino Palumbo. Cala il sipario con la tragedia di Alfredino Rampi 

 Proprio il Corriere d’Informazione era il giornale in cui lavoravo in quel 1980, quando alle cinque e mezza del mattino potevo ancora comodamente parcheggiare la mia Due Cavalli a spina di pesce in via Solferino, proprio davanti all’ingresso del palazzo progettato dal Beltrami, non ancora transennato com’è ora, a difesa di autobomba. Il Corriere d’Informazione, da tutti chiamato Corinf, era in quell’anno già vicino ai titoli di coda. Il suo tempo glorioso stava infatti per finire. Nato nel 1945 come sostituto del Corriere della Sera – testata ritenuta ancora imbarazzante, nell’immediato dopoguerra, per la trascorsa fascistizzazione – il Corinf divenne poi l’edizione pomeridiana del Corsera, e per un buon decennio fu diretto di fatto da un caporedattore, Gaetano Afeltra, che in via Solferino era arrivato, dalla sua Amalfi, alcuni anni prima, Mussolini ancora regnante. Di non eccelsa scrittura, Afeltra era tuttavia un grande giornalista. Formidabile “uomo macchina”, come si dice nel nostro gergo, aveva un ineguagliabile fiuto per le notizie, una straordinaria capacità nel far titoli che attirassero la gente alle edicole e una particolare capacità di comandare a bacchetta la truppa, nella truppa comprendendo anche i purosangue, come Dino Buzzati e Egisto Corradi, inviati che Afeltra era solito tirar giù dal letto per spedirli in ogni angolo d’Italia fosse accaduta, nottetempo, una qualche disgrazia.

 

Si raccontava ancora, quando entrai io al Corinf, della telefonata di Afeltra a Buzzati all’alba del 17 luglio 1947. Il giorno prima, verso sera, s’era rovesciata al largo di Albenga la motobarca Annamaria, che doveva portare all’isola Gallinara ottantaquattro bambini, tutti fra i quattro e gli undici anni, quasi tutti milanesi e orfani di guerra. Ne morirono subito quarantatré, di bambini, e un altro nei giorni seguenti. “Corri ad Albenga, sta arrivando il pullman delle mamme!”, urlò Afeltra a Buzzati: “Devi raccontarmi il loro dolore, il loro strazio!”. Il Corinf uscì con un titolo che occupava gran parte della prima pagina, “Sono arrivate le mamme dei 43 fratellini della morte”, e un pezzo di Buzzati dettato di corsa agli stenografi dal telefono di un bar e ancor oggi ricordato nelle scuole di giornalismo: “Le 42 mamme, perché due delle vittime sono fratelli, li aspettavano di ritorno per la fine della settimana. Ma il mare si è opposto e perciò esse si sono precipitate qui ad Albenga, a bordo di una corriera. Il loro terrificante drappello di desolazione e di pianto è accorso dal nord per raccogliere ciò che è rimasto delle loro creature, per baciare questi gelidi bambolini per l’ultima volta. Da alcune ore, Albenga le aspetta con una specie di paura. Perché si capisce come soltanto al loro arrivo, quando si udranno le loro voci, il dolore sarà vero dolore. Che cosa diranno? Che volto avranno? Il solo pensiero fa spavento. Mentre ora telefoniamo, un brusio si ode provenire dalla piazza che poco fa non c’era. Intravediamo dalla porta un autobus che avanza lentamente e adesso si ferma. Un richiamo solitario e altissimo. ‘Ginetto!’, o ‘Ninetto!’, non si capisce bene. Un braccio si agita dal finestrino: sono loro”.

 

Dal 1972 il Corinf ebbe direttori autonomi dal Corsera, e conobbe la sua stagione d’oro sotto la guida di Gino Palumbo. Anch’egli campano (Cava de’ Tirreni), anch’egli grande giornalista e anch’egli formidabile uomo macchina, Palumbo fu l’arcinemico di Gianni Brera, al quale contestava l’esaltazione del calcio all’italiana, difensivista e sparagnino. Brera, “leghista” ante litteram, replicava dicendo che troppi giocatori vengono dal sud, e sono pertanto malnutriti, e quindi non in grado di pareggiare in tattica e atteggiamento offensivista i marcantoni tedeschi e olandesi, che possiamo battere solo grazie alla nostra virtù più antica: l’astuzia. I due arrivarono perfino a darsi di boxe una domenica pomeriggio nella tribuna stampa di Brescia, ma poi fecero pace. Con Palumbo, il Corinf arrivò a vendere duecentomila copie, praticamente solo a Milano e provincia. Se una dannata malattia non l’avesse messo fuori gioco, nel 1984 sarebbe diventato direttore del Corriere della Sera.

 

Nati perlopiù dopo la Seconda guerra mondiale, quei giornali erano la rete del tempo. Allora c’era solo un tg, alle otto della sera 

Al tempo in cui ci lavoravo io, il Corinf faceva due edizioni. La prima, che si chiamava “ultima”, chiudeva alle dieci del mattino e arrivava in edicola a mezzogiorno; la seconda, che si chiamava “ultimissima”, chiudeva alle due e arrivava in edicola alle quattro. Ormai chiusi, e da un pezzo, il Corriere Lombardo e Milano Sera, avevamo come unico concorrente La Notte, quotidiano del pomeriggio reso grande dal già citato maestro Stefano Nutrizio detto Nino. Nato in Dalmazia nel 1911, fratello di Mila Schön, Nutrizio è stato uno di quei personaggi geniali e poliedrici (fu perfino allenatore dell’Inter con Giuseppe Meazza) del giornalismo degli anni d’oro. Uomo di destra, una sera del 1976 a Tribuna Politica mise in difficoltà Enrico Berlinguer, che stava lavorando per il compromesso storico, mettendogli davanti un pacco di pasta e un pacco di riso: “Onorevole, mettere insieme la Dc e il Pci sarebbe come mettere a bollire nella stessa pentola questa pasta e questo riso: se li facciamo bollire dieci minuti, la pasta è buona ma il riso è crudo e immangiabile; se facciamo venti minuti, il riso è cotto al punto giusto ma immangiabile è la pasta”. Genio della comunicazione e grande cronista, Nutrizio fece la fortuna de La Notte anche inventando un’ultima pagina, “Dove andiamo stasera”, in cui erano elencati tutti i film e gli spettacoli in programma a Milano, ciascuno con una recensione di due righe. I tweet dell’epoca.

 

Al Corinf il primo turno in cronaca cominciava alle sei, ma si entrava un po’ prima, il tempo di leggere i titoli dei giornali, e poi si andava a far colazione al bar all’angolo con via Moscova, che si chiamava (e si chiama ancora) Ted One, così che tutti lo pronunciavano all’inglese – teduàn – mentre stava invece a significare il cognome dei proprietari, Tedone, di origine pugliese. Rientrati in redazione, si accendevano le radio (illegali, ma tollerate) sintonizzate sulle lunghezze d’onda della polizia e dei carabinieri. Appena si sentiva che era successo qualcosa, partiva la caccia alla notizia. Un cronista e un fotografo (con autista e radiotelefono: i lussi del Corriere di una volta) andavano sul posto; un altro giornalista prendeva in mano un librone rosso di cui s’è persa perfino la memoria: lo Stradario. Era, lo Stradario, una particolare guida del telefono nella quale gli abbonati erano elencati in ordine alfabetico non per cognome, ma per indirizzo. Così, se sapevamo che era successo ad esempio un delitto in via Tal dei Tali al 6, chiamavamo tutti gli inquilini del condominio, naturalmente ricevendo in risposta un novantanove per cento di vaffanculo, vista l’ora. Ma quell’uno per cento che collaborava risultava prezioso. “Quando chiami qualcuno per rompere le scatole, tu dì che sei de La Notte”, mi diceva Alfonso Scotti, il caporedattore. Era un giornalismo un po’ cialtrone, come quello dei cronisti del Chicago Examiner del film “Prima pagina” di Billy Wilder: ma quanti grandi inviati ha allevato.

 

Fu il Corriere d’Informazione a pubblicare in prima pagina la foto destinata a diventare l’immagine simbolo degli anni di piombo

 Il sipario calò davvero il 10 giugno del 1981, quando nella campagna romana, a Vermicino, il piccolo Alfredino Rampi cadde in un pozzo artesiano profondo sessanta metri. Per tre giorni consecutivi, la Rai trasmise tutti i disperati tentativi di soccorso in una lunghissima diretta no stop che non aveva precedenti e che avrebbe cambiato la storia della tv. Il 13 giugno, un eroico speleologo calatosi nel pozzo riuscì ad afferrare il polso di Alfredino. Il Corinf stava per chiudere l’ultima edizione e fu azzardato un titolo: “Alfredino è salvo”. Con il giornale ormai stampato, e già in viaggio verso le edicole, il polso scivolò dalla mano dello speleologo e Alfredino precipitò per sempre. Con lui morirono anche il vecchio Corinf, che infatti cessò le pubblicazioni il 15 dicembre dello stesso anno, e più in generale tutti i quotidiani del pomeriggio, uccisi da una diretta tv e da un mondo che stava cambiando, e che sarebbe cambiato ancor di più negli anni a venire: gli anni allora inimmaginabili dei social, dei post, dei tweet, e di fake news ben più difficilmente smascherabili di quella sul salvataggio di Alfredino.

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