Marcel Duchamp, “Boîte-en-valise” (1935-1941)

Metti l'arte in valigia

Ugo Nespolo

Un manifesto del nomadismo e dell’irrequietezza. Opere portatili, in miniatura, libere e deliranti. Il maestro era Duchamp. Con lui anche altri “viaggiatori”: alcuni prendevano la strada di Kafka

Già si sa con quanto disappunto e quanta malinconia si patisce oggi la fiacca stagione del far arte. Nuvole di artisti (ma non lo sono tutti quanti?) alla ricerca di un qualsiasi gimmick, architettato allo scopo disperato di dar colore, animo, energia ed interesse ad una lunga stagione creativa nebulosa e disperatamente sempre più marginale. Persino l’idea dell’arte come choc (vecchio MacGuffin?) nasce tra l’indifferenza generale divorata e sottomessa alla diabolica creatività del reale e dei suoi sconvolgenti esiti visivi e dunque sempre culturali.

 

Si coglie anche il senso di sfida alla staticità dei musei, che già allora si stavano trasformando in arbitrari cimiteri delle opere d’arte

Alla ricerca di strade creative influenti si risponde sovente con opere che fanno dello spettacolo la propria sostanza. Son talvolta catafalchi dal mai scomparso sapore autarchico, manufatti monumentali, installazioni déjà-vues, colate bronzee più impressionanti nel tonnellaggio che in emozioni, roba da arredo pubblico per la interessata gioia di amministratori e sponsor comunque opulenti. Oggetti stucchevoli, mai facilmente trasportabili che – il più delle volte – testimoniano solo il loro greve ingombro fisico.

 

Il campionario è piuttosto vario e variegato. Si può andare – così per citare – dal vacuo quanto sotto-disneyano Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Hirst adagiato sui comodi e maleodoranti lidi veneziani giù verso le invadenti e stranianti Floating Piers o Running Fence o ancora gli accumuli di svariate decine di migliaia di bidoni per greggio dei Mastaba, gioia visiva di affluenti petrolieri e affini. Un’orgia d’impacchettamenti di porzioni della povera natura, già così tanto violata da autentiche isole di rifiuti plastici, chilometri di fiumi afflitti da avanzi d’ogni sorta, vallate che volentieri – se potessero – farebbero a meno delle orde di vacui ombrelloni plastici. Per non dire delle tronfie e milionarie carcasse bronzee di alberi sradicati da Penone fino al claustrofobico transito tra le disumane barriere degli esagerati lastroni rugginosi di Richard Serra che vorrebbero – suppongo – costringerci a vivere esperienze stranianti e meditative mentre altro non riescono a comunicare che l’inutilità di uno sforzo economico di interessati addetti ai lavori e l’arroganza del solito sistema dell’arte e del suo potere. L’atteggiamento obeso di opere inamovibili, ipervoluminose, intrasportabili esprime chiaramente l’idea che non si tratti d’altro che di artefatti autoreferenziali che parlano soltanto della propria violenta fisicità.

 

Un mondo che non contempla la possibilità di un fine tuning e per conseguenza esclude qualsiasi idea di nomadismo, di meditativo, di sensibile e di portatif. Maestro indiscusso di cose da viaggio e dunque facilmente trasportabili, portatili è Marcel Duchamp, che già nel 1913 definisce ready-made i suoi oggetti estrapolati dal mondo del già fatto e dei quali egli parla nel 1964 a Calvin Tomkins nelle sue Afternoon Interviews: “I was really to get out of the exchangeability, I mean the monetization of the work of art…”. Lontano non solo pare dalla monetizzazione dei lavori d’arte – se non dall’arte tutta – ma anche lontano dalla fisicità degli oggetti stessi se egli mette in opera nel tempo (con la lentezza che lo tiene alla larga e disgusto dalla rat race che scorge intorno a se) attraverso la realizzazione di opere portatili, libere e deliranti. A partire dalla sua Boîte de 1914, realizzata in tre soli esemplari e contenente 16 riproduzioni di note manoscritte e un disegno, poi La boîte verte (il cui vero nome è La mariée mise à nu par ses célibataires, même) pubblicata a Parigi nel 1934 per le edizioni Rrose Sélavy. Dove però Duchamp mette in opera il suo capolavoro portatile è nella Boîte-en-valise, alla quale lavora per ben sei anni dal 1935 al ‘41. La scatola contiene riproduzioni miniaturizzate di 69 opere, in pratica l’intera produzione che egli ha prodotto in quegli anni. L’oggetto è una valise (ecco ciò che serve per il viaggio) e all’interno con un sistema di pannelli mobili che fatti scorrere, spostati, sovrapposti si trasforma in un vero museo da viaggio. Manifesto concreto del nomadismo, dell’irrequietezza, della leggerezza, dell’intimità. Non si può non vedere dietro e dentro questa volontà di ridurre le proprie opere ad oggetti lillipuziani il fine di renderli trasportabili da una parte all’altra del mondo o attraverso un’Europa martoriata dai conflitti bellici, così come si coglie con chiarezza anche il senso di sfida verso la staticità dei musei che già in quegli anni si stavano trasformando negli arbitrari cimiteri delle opere d’arte in omaggio anche al trionfo dei nuovi poteri politico-economici, quelli che presto oscurano l’École de Paris per celebrare con molta enfasi tutto il presunto nuovo ed autoctono d’oltreoceano.

 

L’Odradek che nasce in un enigmatico racconto di Kafka, l’oggetto animato di cui parla Borges, e poi anche Landolfi e Mari

Degno di molta attenzione il raffronto (interessante coincidenza!) che Carla Subrizi delinea tra la Scatola di Duchamp, del 1935, e il saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936: “Duchamp colleziona in una piccola valigia riproduzioni di sue opere e mette insieme una sorta di autobiografia; Benjamin arriverà nel 1938 all’ultima redazione dell’Infanzia berlinese, un’autobiografia anch’essa costruita come un montaggio di racconti brevi ognuno dei quali è un episodio, un ricordo, un sogno riemerso dall’infanzia”.

 

“Colonna della vittoria brunobiscotto con lo zucchero invernale dei giorni dell’infanzia”. Anche Duchamp come Benjamin con la sua Valise dà l’idea di ricostruire il suo lavoro passato, proprio come una testimonianza da conservare, alla ricerca di un tempo andato, perduto forse per indicare ad altri un possibile percorso futuro, un viaggio suggerito.

 

Il viaggiatore ideale per Duchamp e per Benjamin è però la figura del flâneur, osservatore urbano disincantato a New York o a Parigi, Greenwich Village o Passages, deambulazioni prive di urgenza, stili di vita. Girovaghi entrambi, eterni viaggiatori, Enrique Vila-Matas scrive: “… ambedue vagabondi, sempre in viaggio, esiliati dal mondo dell’arte e al tempo stesso collezionisti arrabbiati di cose, o per meglio dire di passioni. Ambedue sapevano che miniaturizzare significa rendere portatile e che questo è il modo ideale di possedere cose per un vagabondo o un esiliato”.

 

Vila-Matas ricorda ancora come miniaturizzare abbia il senso di rendere meno evidente, di occultare insomma. L’amore per il minuscolo è un’emozione infantile. La Boîte-en-valise di Duchamp si è rapidamente trasformata nell’emblema della letteratura portatile un poco come la valigia scrittoio di Paul Morand, con la quale lo scrittore percorreva su treni di lusso un’Europa notturna, misteriosa e sull’orlo del baratro.

 

Magistralmente Vila-Matas racconta una vicenda sfolgorante dove la storia della letteratura portatile ha da fare con libri, ricerche, amori, cospirazioni, bellezza, follia, misteri, viaggi, incontri, coincidenze, fughe… “Un libro in cui si racconta con la vertigine della citazione e del collage l’improbabile storia della società segreta Shandy, in cui si rifugiano le più brillanti menti del primo quarto di secolo del ‘900”.

 

Per entrare nella società segreta Shandy gli scrittori portatili stabilirono rigide regole alle quali non si poteva derogare. Intanto si doveva restar celibi, cioè sentirsi affini a macchine celibi, produrre opere leggere che potessero entrare con facilità in una valigetta. Si doveva avere spirito innovatore, massima sensualità, mancanza di grandi propositi, nomadismo instancabile, forte convivenza con la figura del proprio doppio, simpatia per la negritudine, esercizio dell’arte dell’insolenza.

 

Vila-Matas ricorda come miniaturizzare abbia il senso di occultare. L’amore per il minuscolo è un’emozione infantile

Pare che il primo significato di Shandy abbia da fare con forme dialettali dello Yorkshire, dove visse Laurence Sterne, l’autore del Tristan Shandy, per indicare un personaggio mattacchione, volubile ed eccessivamente allegro, fuori norma ma anche un personaggio difficile, uno che ama trasgredire le regole. Il nome pare possa venire invece da una bevanda inglese, quella che detta alla francese è Panaché o Radler in tedesco. Un cocktail cioè a base di acqua tonica e birra gassata al limone ben mescolati per favorire la formazione di schiuma e da servire con l’immancabile fetta di limone. Essere Shandy significa combattere per una causa priva di scopo dal momento che ogni membro sa benissimo di star congiurando per nulla, o meglio, just for the fun of it!

 

Si è anche – in qualche modo – immersi nel paludoso terreno ludico, colto anche nella sua declinazione radicale e amara. Sorge vivo il desiderio di tirarsi fuori dall’agone del far arte, esattamente quello che fece Marcel Duchamp se già nel 1923 si considerava “un prete spretato”. Filippo Pretolani ci ricorda che per Susan Sontag “l’atteggiamento veramente serio è interpretare l’arte come un mezzo per raggiungere qualcosa che forse si può ottenere solo abbandonando l’arte”.

 

Abbandonare o non dire, se Ludwig Wittgenstein fa sapere che “in arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dir niente”.

 

Quella che è stata definita la Congiura Shandy annovera nella vulcanica fantasia di Vila-Matas oltre a Duchamp, Blaise Cendrars, Jacques Rigaut, Scott Fitzgerald, Francis Picabia, Georgia O’Keeffe, Ezra Pound, Tristan Tzara, Ferdinand Céline e tutti gli altri che lo scrittore spagnolo include in un’infinita lista di personaggi fuori norma.

 

A Praga tra nebbie dove: “… dolcemente si rischiara il barocco tormentato” (Hikmet), dopo un ordine di adunata generale impartito da Walter Benjamin tutti gli Shandy dispersi nelle infinite vie del mondo ebbero finalmente la possibilità di trovare il proprio Odradek. Franz Kafka ne parla nel suo enigmatico racconto La preoccupazione del padre di famiglia: “Alcuni sostengono che il nome Odradek derivi dalla lingua slava e, in base a questo, tentano di dimostrare l’evoluzione del termine. Altri invece ritengono derivi dal tedesco e che la lingua slava lo abbia solo influenzato. L’incertezza di entrambe le interpretazioni induce a concludere, a ragion veduta, che nessuna delle due sia corretta, tanto più che né una né l’altra consente di risalire ad un risultato univoco”.

 

Per entrare nella società segreta Shandy gli scrittori portatili stabilirono rigide regole alle quali non si poteva derogare

Kafka però ci fa sapere che nessuno s’occuperebbe di una tale questione linguistica se “… non esistesse davvero un essere chiamato Odradek”. Si tratta di un oggetto fisico che sembra aver da fare con un giocattolo casalingo, quelli che da bambini si costruiva con ciò che si trovava in casa. Kafka lo racconta come un rocchetto da filo, in legno e a forma di stella piatta che da l’idea di essere come avvolto in un intrico di fili colorati: “… arruffati, strappati e riannodati, tutti di diverso spessore e svariati colori”. Poi nel rocchetto c’è una bacchettina che sporge e s’incrocia con un’altra ad angolo retto. Lo straordinario è che l’Odradek “… riesce a tenersi su come se fosse in piedi”. Poi si muove anche a una velocità eccezionale e infine se gli chiedi il suo nome (non domande difficili please!) risponde “Odradek”, e dichiara anche di essere senza fissa dimora e infine ridacchia con un suono che ricorda vagamente il fruscio delle foglie morte.

 

Di questo curioso oggetto animato parla Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica e poi Landolfi e anche Michele Mari nel suo romanzo Tutto il ferro della torre Eiffel. Ma di Odradek si sa anche della sua inutilità o almeno di un’utilità finita, forse è un oggetto rotto,è un essere in miniatura e non ha dimora fissa, proprio come gli shandy, come le qualità portatili delle Bôites di Duchamp. Poi esattamente come il personaggio di Bartleby lo scrivano di Melville è un essere inetto, impotente, in balia dei valori altrui, non impone un proprio stile di vita, non lascia intendere che la propria sia la forma di vita giusta o ideale. Se lo si potesse interrogare più a fondo si può star certi che Odradek risponderebbe come Bartleby: “I would prefer not to!”

 

Gli Odradek sono però anche “macchine celibi”, definizione attribuita da Duchamp ad alcuni elementi che stanno nella parte inferiore del suo Large Glass.

 

Lo scrittore francese Michel Carrouges ha indagato il mito di queste speciali macchine: “… Nella loro mirabile ambiguità le macchine celibi significano contemporaneamente l’onnipotenza dell’erotismo e la sua negazione, morte e immortalità, tortura e wonderland, caduta e resurrezione”.

 

Trionfo del portafit allora e trionfo in arte della dimensione intellettuale, intima, shandy e odradek a cancellare la pena di asfissianti quanto esteriori frigide e ingombranti presenze, quelle che ingrigiscono lo splendore del fare in luce di ragione e c’incupiscono al suono dell’ossessivo e perennemente cantilenante assioma del ciò che costa vale. Null’altro.

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