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Come un banale igloo può diventare il simbolo della civiltà umana

Francesco Bonami

L’arte povera di Mario Merz in mostra al Pirelli Hangar Bicocca

Davanti a certe opere di arte contemporanea, ancora oggi lo spettatore non addetto ai lavori è costretto a chiedersi se quello che vede è arte oppure rimane, ad esempio, lo zerbino identico a quello che ha davanti alla porta della propria casa. Ma se lo spettatore è costretto a farsi questa domanda significa che l’artista dello zerbino ha fallito, non riuscendo a trasformare l’oggetto in un’immagine e in un simbolo capace di valicare la quotidianità e accamparsi da qualche parte nella fantasia e nelle emozioni di chi si è trovato davanti l’oggetto mutatosi in opera d’arte.

 

Lo sapeva bene il grande Marcel Duchamp già quando nel 1917 comprò un orinatoio nel negozio d’idraulica, lo mise capovolto su un piedistallo, lo firmò e lo intitolò “fountain”, fontana. L’oggetto non piacque, ma non tanto in quanto orinatoio bensì come scultura troppo astratta per quei tempi. Il gesto di Duchamp, benché frainteso, al tempo non fu una semplice provocazione ma un gesto artistico. Da allora il confine fra queste due operazioni, provocazione e gesto artistico, si è spesso confuso, ma solo da coloro che sono incapaci di apportare la dovuta trasformazione alle cose, compito di chi sa cosa è l’arte.

 

Chi invece ha capito qual è il proprio compito ha prodotto capolavori. Pensiamo alle bandiere americane e ai bersagli dell’artista americano Pop Jasper Johns, che diventano quadri rimanendo però quello che sono. A nessun spettatore davanti a una bandiera a stelle a strisce di Johns viene da chiedersi “ma che cos’è ?”. E’ un quadro di una bandiera, che piaccia o non piaccia è un’altra questione e onestamente irrilevante, tanto quanto irrilevante sarebbe il fatto che a qualcuno, legittimamente, non piaccia Caravaggio. Sia Johns sia Caravaggio rimangono grandi artisti capaci di segnare la storia dell’arte.

 

Un altro buon esempio sono i dipinti del pittore tedesco Gerard Richter. Richter dipinge una candela e la dipinge come se fosse una fotografia. Potrebbe lasciarla così, ma il dipinto rimarrebbe un esercizio di virtuosismo e artigianato pittorico di quelli che piacciono così tanto a Vittorio Sgarbi. Invece Richter una volta finita di dipingere la candela perfettamente, la “rovina” sfumandola come se la foto fosse stata fatta fuori fuoco. Il soggetto del quadro esce dalla realtà e diventa un simbolo, un sogno, un miraggio. Non è più solo una candela ma una candela universale.

 

Dove voglio arrivare? Voglio arrivare agli Igloos di Mario Merz (1925-2003), uno dei più visionari esponenti dell’arte povera, il movimento fondato dal critico Germano Celant nel 1967. Con l’igloo Merz raggiunge esattamente quello che Johns e Richter raggiungono con la bandiera e la candela. L’igloo da forma semplice, basica, banale e folcloristica, diventa un simbolo della civiltà umana, del bisogno di riparo e della ricerca di uno spazio comune di convivialità. Al Pirelli Hangar Bicocca di Milano il direttore artistico – lo spagnolo Vicente Todoli – ha raccolto tutti gli igloo prodotti da Merz, più di trenta dal 1968 al 2003, con un risultato eccezionale. La stessa operazione l’aveva fatta nel 1985 il mitico curatore svizzero Harald Szeeman alla Kunsthaus di Zurigo creando un villaggio di igloo. A quel tempo, però, ovviamente le unità abitative di Merz erano di meno. Tuttavia sia Szeeman sia Todoli dimostrano che un grande curatore è un po’ come un grande artista. Dalla più ovvia delle idee riesce a costruire uno spettacolo meraviglioso e simbolico. Per godersi la mostra non c’è bisogno di sapere nulla o quasi ed è questo che rende un’esposizione un’esposizione riuscita e probabilmente di grande successo, senza barare o dover infilarci dentro un Van Gogh qualsiasi o qualche Monet sfuso.

 

Il segreto del buon curatore o del bravo artista si potrebbe racchiudere in una parola anglosassone che a me piace tirare in ballo ogni due per tre, ingenuity. Così ad occhio nudo e al suono verrebbe da tradurla in “ingenuità” ma sarebbe un errore. Ingenuity significa “genialità”. Gli anglossasoni hanno capito che per essere geniali bisogna essere anche un po’ ingenui, altrimenti si rischia solo di essere saputelli o furbi. Se Steve Jobs non avesse avuto quel pizzico d’ingenuità non avrebbe usato una mela morsicata per il suo prodotto ma qualcosa di più contorto. Se Merz non fosse stato un po’ ingenuo e avesse pensato che copiava semplicemente le casette degli eschimesi, pardon, degli inuit, non si sarebbe mai azzardato a fare il suo igloo. Certo, con il passare degli anni – in particolare agli inizi degli anni 80, con la pittura che faceva da padrona e i poveristi finiti in minoranza – anche il nostro Merz perse un po’ di lucidità e un po’ della sua ingenuity, diventando più furbo, inserendo elementi pittorici nella struttura primordiale dell’igloo che non le donano molto indebolendo la genialità originale dell’idea nel tentativo di avvicinarla a un dipinto. Poi però alla fine degli anni 90 si riprende, ritrovando una sua eroica essenzialità e pure un certa orgogliosa monumentalità. Coraggioso è stato anche il curatore Todoli che ha presentato la mostra di Merz gomito a gomito con l’altra grande installazione permanente che fa parte dell’identità storica del Pirelli Hangar Bicocca, i sette palazzi celesti del tedesco Anselm Kiefer che dal 2004 occupano quasi metà dello spazio espositivo , divisi dal resto solo da un enorme e sottile parete. Ecco davanti agli igloo di Merz i palazzi di Kiefer si trasformano al meglio in una romantica ricostruzione di un quartiere di Beirut sud della metà degli anni 80 e al peggio nella scenografia di un’Aida ambientata pure quella nel sud di Beirut con gli Hezbollah al posto degli egiziani. La “wichtiguerei”, prosopopea, di Kiefer viene messa al tappeto dall’ingenuity di Merz. La genialità di Merz è racchiusa già nel’igloo di tutti gli igloo, il primo e famosissimo – almeno per noi – igloo di Giap del 1968, dove i blocchi di ghiaccio della classica e tradizionale cupoletta sono sostituiti da pacchetti di argilla sui quali è attaccata una scritta al neon che cita la frase del generale vietcong Võ Nguyên Giàp che combatteva gli americani in Vietnam negli anni 60: “ Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza”.

A noi per concludere e riassumere l’esperienza di questa mostra basta parafrasare Giap: “Se l’artista si concentra guadagna forza, se si disperde guadagna terreno”. Cosa perfettamente riuscita sia a Mario Merz che al suo curatore.