E’ il 1963: Eve Babitz e Marcel Duchamp nel celebre scatto dell’amico fotografo Julian Wasser, richiamo alla scandalosa tela del 1912 “Nudo che sende le scale”

Eve Babitz, la ragazza che giocava a scacchi nuda con Duchamp

Anselma Dell'Olio

E’ stata un’edonista impenitente, la party girl per eccellenza, prima di diventare disegnatrice, fotografa, artista e infine scrittrice di culto. Con occhi adoranti sulla sua città. Due suoi libri ora anche in italiano

Eve Babitz si presenta così in uno dei primi racconti autobiografici: “Assomigliavo a Brigitte Bardot e il mio padrino era Igor Stravinsky”. E’ una figlia purosangue di Los Angeles, che gli odiatori chiamano “that town”, “quella città”, disprezzata dagli intellettuali di New York e della East Coast in generale. Lei la ama con tutta se stessa, e disprezza a sua volta chi valorizza la visione del romanzo dark di Nathanael West, che satirizza la città del cinema come luogo corrotto, falso, infame e brutto (“Il giorno della locusta”). Vive i primi anni della maturità in un clima meraviglioso, un periodo di fioritura delle arti che non s’era mai visto prima da quelle parti. Ha cavalcato quegli anni incastonata come una gemma autoctona che non chiedeva di meglio che essere se stessa e vivere in un luogo poetico e leggero come le sue adorate jacarande, quegli alberi alti cosparsi per L.A., con le foglie pinnate che sembrano merletti e abbondanti grappoli di fiori dal blu al viola porpora.

 

Gli anni Settanta a Hollywood erano un’età d’oro. Nasceva una generazione di giovani cineasti che irrompeva nella mecca del cinema

Gli anni Settanta a Hollywood erano un’età d’oro. Nasceva una generazione di giovani cineasti che irrompeva nella mecca del cinema, calpestando le rovine degli studio e del loro “sistema”, rinnovando e riconfigurando il cinema americano dopo gli sconvolgimenti sociali degli anni Sessanta. Ma non c’erano solo Francis Ford Coppola, Bill Friedkin, Martin Scorsese, George Lucas, Stevan Spielberg, Robert Altman, Brian De Palma a portare aria fresca e vitalità spregiudicata nella landa cosparsa di stelle battezzata dagli antipatizzanti La Terra Desolata Della Cultura, la Wasteland dove le idee andavano a morire intorno a una piscina, bruciate dal sole sempre splendente, evanescente e impossibile, una non-città che penalizza chi va a piedi. Nasceva negli anni Sessanta con un’influenza sempre crescente il “CalArts”, il California Institute of the Arts (fondato da Walt Disney), stimolo importante per una movida di Arte con la maiuscola ma scanzonata, in cui si sviluppava un “linguaggio vernacolare della West Coast”. Tutto contribuiva a una festa che sembrava non finisse mai. C’erano studenti a CalArts, per citarne solo alcuni, come i futuri animatori e cineasti Tim Burton, John Lasseter, Brad Bird, gli attori Paul Rubens (Pee-Wee Herman) e Don Cheadle, la regista Sofia Coppola, i pittori David Salle e Eric Fischl, e tra le docenti le femministe Judy Chicago e Miriam Schapiro. Emergevano già maturi sul mercato i local boys Ed Ruscha, Mark Grotjahn, John Baldassari, Wayne Thiebaud e tanti altri futuri artisti star, promossi da galleristi giovani e ambiziosi come Larry Gagosian. La movida consisteva in colti innovatori “laid back”, rilassati, easy, nessuno sforzo evidente, mai una goccia di sudore. Potevano portare lontano ironia e sfrontatezza, purché “cool”, specie se arrivavano da un bel pezzo di figliola, ventenne, solare, colta, sboccata, opinionated. Il soggetto di questo ritratto era tutto questo, e ha saputo cogliere l’attimo, poi perdersi, e in infine ritrovarsi.

 

Joseph Heller, autore del celeberrimo “Comma 22”, riceve nei primi anni Sessanta una brevissima lettera – quasi un telegramma – da una ventenne californiana. Eccola nella sua totalità:

 

Dear Mr. Heller,

Sono una bionda formosa su Hollywood Boulevard. Sono anche una scrittrice.

Eve Babitz”.

 

Nei primi anni Sessanta inviò una lettera e un manoscritto a Joseph Heller, autore di “Comma 22”. Non se ne fece nulla

Lo scrittore rispose. La sfacciata, orgogliosamente popputa ragazza (finalmente una donna che non sente le tette come penosi ingombri) gli invia un suo manoscritto, che Heller fa recapitare all’allora giovanissimo redattore Robert Gottlieb (scopritore e promotore di “Comma 22”, poi un gran guru dell’editoria) ma non se ne fa nulla. Aveva altri scalpi da collezionare la ragazza, altre maschere da indossare, album rock da disegnare, fotografie da fare, collage da comporre, prima di approdare al ruolo di “scrittrice di culto”. Allora era un’edonista impenitente, sperperatrice di se stessa e scrittrice un po’ svogliata. Girava, vedeva gente e si mostrava dappertutto ma da vent’anni vive all’inguatto e gode come un riccio della rinnovata, totalmente inaspettata fama e fortuna che le sono toccate in età di pensione avanzata. Era la party girl per eccellenza, avendo fatto splash nella Art Scene losangelena come la groupie più intelligente e anche bella e disponibile del reame.

  

Lo sgarbo di Walter Hopps, che non la invitò alla grande retrospettiva della Pop Art. Lei si vendicò con una fotografia

All’epoca (1963) era la girlfriend di Walter Hopps, eclettico, irregolare e anticonformista direttore della Pasadena Art Museum (oggi Norton Simon Museum) e lui era colpevole di uno sgarbo imperdonabile: irregolare ma non suicida, aveva invitato la moglie e non Eve alla grande celebrazione per festeggiare la storica retrospettiva della Pop Art che onorava Marcel Duchamp come antesignano del movimento. C’era il gotha della due coste a quell’anteprima: tra gli altri Andy Warhol, Dennis Hopper e Beatrice Wood, la donna che ha ispirato il personaggio di Catherine in “Jules e Jim”, il romanzo di Henri-Pierre Roché, dal quale Truffaut ha tratto il film con Jeanne Moreau. Eve, furibonda per l’esclusione da cotanto evento, giura che “se avessi potuto creare caos nella sua (di Hopps) vita, l’avrei fatto”. L’amante furibonda trova il modo di vendicarsi attraverso un amico fotografo, Julian Wasser. Accetta il suo invito a posare al museo per una partita a scacchi con Marcel Duchamp, con lei nuda e lui ben coperto, un richiamo alla scandalosa tela del 1912, “Nudo che scende le scale”. Eve gongola, “Ho sempre avuto la quinta di poppe; ma con la pillola anticoncezionale erano esplose”. Hopps entra nella stanza durante il servizio fotografico e quasi si strozza sulla gomma americana che ruminava. 

 

Eve spera di vincere a scacchi con Duchamp, magari distratto dalle zinne e le curve zaftig di lei, e invece perde in due sole mosse dell’artista-campione. Ma vince in un sol colpo la partita con l’amante Hopps. Oggi le infoiate di “Time’s Up” forse darebbero fuoco al museo, a Hopps, Duchamp, al fotografo e magari anche a Eve, che non rinnega nulla del suo movimentato, poco ortodosso passato da musa, amante e modella di maschi famosi. “Il male che ho subito me lo sono fatta da sola. Non posso dare la colpa a nessun altro”. Se pentimento ci sia, è solo per i giorni perduti alle sbornie e dipendenze varie, quegli eccessi che lei denomina “squalid overboogie”. In compenso, quella di lei nuda è la più celebre foto d’arte di LaLa Land, apparsa su manifesti per il Museo d’arte moderna a New York e in molti altre pubblicità istituzionali, un classico.

 

Eve Babitz ha cantato le lodi di Los Angeles in articoli, saggi, racconti e sette libri, scrittrice più unica che rara, data la pessima reputazione di “quella città”, vasta e impossibile, dove passeggiare a piedi attira i sospetti della gendarmeria, e incontrarsi richiede sforzi notevoli e la macchina è obbligatoria. Due dei suoi libri sono stati pubblicati in Usa la prima volta negli anni Settanta e di nuovo negli ultimi due anni, e da poco in Italia per la prima volta, “Slow Days, Fast Company” (“Il mondo, la carne, L.A.”) è una raccolta di saggi-racconti, e “Sex & Rage: consigli a giovani donne che hanno voglia di divertirsi” un roman à clef che è sostanzialmente un’autobiografia con nomi e qualche insignificante particolare cambiati. La traduzione competente è di Tiziana Lo Porto. L’autrice è innamorata dei tramonti arancioni, lampone, malva di Los Angeles, che lo smog – amato pure quello – a volte tinge con striature di giallo. Adora le alte, lunghe file insieme marziali e decorative delle palme reali, sentinelle che affiancano i grandi boulevard della città: Wilshire, Santa Monica, La Cienega, Crenshaw, Lankershim e il più famoso e più piacevole da percorrere, Sunset, dalle dolci curve e l’andamento aggraziato, ondulato. Ama un po’ meno le freeways, perché il traffico veloce e le rampe multilivello per accedervi la spaventano. Sono denominate “free” perché sono le rare autostrade senza pedaggio. Da autentica indigena ama la “car culture”, l’andare a fare un giro in macchina così, senza metà, da soli o in compagnia e anche di notte, per pensare, chiacchierare, riflettere in un non-luogo in continuo mutamento.

 

Era un gusto per aficionados, di colpo si è fermata, è caduta nell’oblio e i suoi libri sono spariti dai cataloghi e dagli scaffali delle librerie

Non finisce mai di elogiare i taquitos, gli slurpissimi mini involtini di tortillas fritti che avvolgono carnitas o formaggio. Fumanti, squisiti, si comprano al meglio nei baracchini di Olvera Street, quel pezzetto di Vecchio Messico che sopravvive in mezzo ai grattacieli, destinazione per turisti e indigeni scafati, nel lontano Downtown ora gentrificato assai, vicino alla Union Station, bellissimo esempio di architettura Art Deco. Prima dei viaggi aerei era il principale punto d’arrivo dei treni della East Coast di divi in lobbia e scarpe bicolori, e dive che indossavano fantastici tailleurs in stile Adrian, cappellini deliziosi e boa di volpe con tanto di musetto, dentini aguzzi e occhi di vetro. Tutto questo e molto altro canta Babitz nei suoi libri, articoli, libri, racconti e saggi fino a vent’anni fa. Poi di colpo si è fermata, è caduta nell’oblio e i suoi libri sono spariti dai cataloghi e dagli scaffali delle librerie, ancor prima che Amazon dominasse il mercato. Da sempre era un gusto per aficionados, gli happy few. Poi più niente. E poi…

 

“Non ci sono secondi atti nelle vite americane”. L’arcinota frase è di Francis Scott Fitzgerald. Morto a quarantaquattro anni a Hollywood, fallito, dimenticato, alcolizzato e in bolletta, per lui era la triste verità. Dopo il successo precoce non riuscì mai a ritrovare la stessa vena creativa, la stessa accoglienza festosa. Ma per l’eroina di questo ritratto è andata diversamente, contro ogni attesa. Eve era una corteggiatissima party girl che conosceva quasi tutti quelli che contavano nella vita culturale della città sul Pacifico, negli anni che coincidevano con la sua gioventù. Eppure ha rischiato di diventare una Nanà dei nostri tempi, quella del romanzo di Emile Zola, uno splendore di cortigiana amata, invidiata, carica di spasimanti e doni, ricercatissima, invitatissima, poi morta disperata, sola e sfigurata dal vaiolo. Eve era una bella ragazza che ha scritto i suoi libri in quegli anni – tra i Settanta e i Novanta – libri che oggi sarebbero bollati con l’obbrobriosa etichetta “autofiction”. La sua è una prosa lieve, soave, fluttuante, accattivante, distrattamente lussuriosa e lussureggiante, con frasi e battute felici come “squalid overboogie” per descrivere la sua défaillance per overdose di stravizi; si può tradurre con “squalidi stravizi”? E’ molto lontano dall’originale spiritoso). Per i lettori che subiscono il fascino della sua scrittura, è un invito a rannicchiarsi in un angolo assolato perché possa essere divorata il più presto possibile.

  

Uno spaventoso incidente nel 1997 ha cambiato di nuovo la vita a Eve Babitz, che da allora ha smesso di scrivere. Ma continua a spiazzare e a deliziare gli anticonformisti

 

Ai tempi del suo esordio era troppo seducente, pepata, festaiola e vogliosa di sensazioni forti, seduzioni seriali, droga, alcol, liasons dangereuses – insomma squalid overboogie – per essere presa sul serio (saltare nel letto del suo primo editore, Seymour Lawrence, non migliorava la sua reputazione di scrittora wannabe poco seria). Ora sta vivendo un mini-risorgimento, con il suo backlist ripubblicato dalla chiccosa casa editrice New York Review of Books Classics, e venduto e tradotto in diversi paesi esteri come il nostro, cose mai successe quando i suoi libri erano freschi di stampa venti, trent’anni fa. Era una scrittrice di nicchia, di culto nella sola West Coast, con accaniti tifosi ma sconosciuta ai più. Il cambiamento è drammatico. Hulu sta studiando una serie televisiva tratta da tutti suoi libri autobiografici, tra i quali “L.A. Woman”, un bellissimo colpo se va in porto. Lo studio è Tristar Tv della Sony, le produttrici star sono Amy Pascal e Elizabeth Cantillon, il meglio che offre Tinseltown. Il seguitissimo blog e bookclub Belletrist, gestito da Karah Preiss e Emma Roberts, raccomanda alle socie i suoi libri addirittura con un’intervista dell’autrice reclusa. Mentre abbondano articoli in ogni dove su Babitz, lei di persona si fa poco interrogare. Inutile farsi vedere com’è adesso; sono libri di una donna giovane e sexy. Meglio la decadenza di allora, ambientale, che di adesso, fisiologica. Allora le vendite erano sempre stitiche, ora i suoi libri vendono bene, e le fan adoranti rilanciano le copertine su Instagram. E’ un fenomeno editoriale.

 

Ai tempi del suo esordio era troppo seducente, pepata, festaiola e vogliosa di sensazioni forti per essere presa sul serio

Negli anni perduti era spesso fatta di cocaina, funghi allucinogeni, Lsd, Qualuude, un miorilassante assai di moda negli anni Settanta, pillole che lei assicura essere afrodisiache, se prese a piccole dosi. Se si esagera, le persone sotto il loro effetto sembrano fatte di gomma, con gli arti che ballano da tutte le parti come fossero disossate. Aveva un appetito sessuale divorante. Secondo un suo amante e grande amico, Paul Rucha, entrava alle feste, vedeva chi c’era, e poi puntava dritto al buffet. “Facciamo in fretta”, diceva lei, “così andiamo a casa”. “Perché mai?” chiedeva lui. ”Ma per scopare!” rispondeva. Poi nei primi anni Ottanta, stufa di overboogie e giorni perduti, si è iscritta agli alcolisti anonimi e la musica è cambiata. Si può dedurlo dal cambiamento di tono dei libri scritti da sobria, come “Black Swans” (“Cigni neri”, la prima stampa è del 1993), cronache agrodolci della fine di quella sbornia collettiva degli anni Ottanta, con l’inevitabile resa dei conti; nessun party, per quanto brillante, può durare per sempre. Sbiadivano carriere, rapporti e reputazioni. Qualcuno moriva, tutti invecchiavano. L’impudente scavezzacollo prendeva nota, e se non è cambiata del tutto, i piedi di Eve sono scesi sulla terraferma.

 


 Eve Babitz è innamorata dei tramonti arancioni, lampone, malva di Los Angeles, che lo smog, amato pure quello, a volte tinge con striature di giallo. In basso, Eve negli anni Settanta


 

Ormai sobria e con la testa sulle spalle, è stata colpita dalla forza del destino, l’incidente spaventoso, da film dell’orrore. A cinquantaquattro anni era sempre una gran bella donna, a giudicare dalle foto. Una sera del 1997, tornando a casa nella Volkswagen che le aveva regalato Steve Martin, la brace del sigaro che si era accesa ha incendiato la gonna che indossava. I medici le davano il cinquanta percento di possibilità di sopravvivere. Ricoverata per lungo tempo, il viso era salvo ma la parte inferiore del corpo coperta da ustioni di terzo grado. Ha subito infiniti innesti e trapianti di pelle. Era senza soldi e senza assicurazione. Gli amici e gli ex-fidanzati, per fortuna numerosi e fedeli, spesso celebri e influenti come s’è visto, hanno organizzato una serata di beneficenza allo Chateau Marmont, e donato oggetti e opere d’arte per una grande asta che le ha fruttato il denaro necessario per le cure. Ha deliziato la sua futura biografa Lili Anolik descrivendo il suo corpo di oggi come “quella di una sirena”, le cicatrici trasformate in poetiche scaglie di una donna-pesce. Da quell’infausto giorno ha smesso di scrivere, anche se ora è più famosa che mai, letta e amata da legioni di giovani donne che sognano una vita come la sua, un’autentica icona femminista. Si mormora che un manoscritto stia prendendo lentamente forma sull’incidente che le ha cambiato la vita. Per ora ci sarebbero centoventi pagine, la lunghezza di una novella.

 

E’ perfino diventata l’eroina delle femministe, forse perché scrive che è un errore cucinare per i boyfriend: poi si sentono troppo sicuri di sé

E’ perfino diventata l’eroina delle femministe, forse perché scrive cose così: in uno dei racconti di “Slow Days, Fast Company”, avvisa che è un errore cucinare per un boyfriend, non bisogna mai farlo perché dopo si sentono troppo sicuri di sé e di te e iniziano a farti notare i tuoi difetti, le cose che non vanno. Non è una panzana, e chissenefrega delle eccezioni. Allora si cucinava poco, di solito si andava tutti da Ports a Formosa Street, un bistrot gestito da una simpatica coppia americana che aveva vissuto in Francia, e aveva fedelmente riprodotto quell’atmosfera accarezzante di ritrovo abituale, famigliare, col bancone di zinco e le divise classiche di pantaloni e camicie nere con il grembiule banco, uguale per camerieri maschi e femmine. Chiuso ormai da tanto tempo, la scomparsa di Ports è stata un lutto per i tanti abitué. Era un centro, un club culturale di fatto, dove incontravi giornalisti, artisti, attori, registi, agenti e soprattutto scrittori (“Però quando sono al lavoro sono noiosi perché stanno zitti, non parlano, per paura di sprecare in conversazione le loro battute migliori”, diceva Eve. Verissimo.) A Hollywood è laborioso organizzare appuntamenti, date le grandi distanze; avere un luogo sicuro dove trovare sempre qualcuno con cui chiacchierare dava un falso senso di sicurezza.

 

La famiglia Babitz si merita il titolo nobiliare per L.A. di “haute bohémienne”. Il padre di Eve, Sol Babitz, era violinista nell’orchestra della 20th Century Fox e per la Los Angeles Philharmonic, un ebreo colto della East Coast, amico di Igor Stravinsky, a portata di mano per fare da padrino a Eve. Sol aveva portato moglie e figlie per qualche tempo in Francia mentre lui studiava musica barocca come borsista Fulbright. La madre Mae era un’artista innamorata delle diverse gemme di architettura storica di Los Angeles come le Watts Towers, diciassette torri a punta disegnate e costruite da Sabato (Simon) Rodia, un emigrato italiano, operaio edile, muratore di piastrelle e artista autodidatta, morto nel 1965. Costruite con un calcestruzzo di sua invenzione, avvolte in reti metalliche, sono incastonate con pezzi di maioliche, piastrelle, cocci di bottiglie di vetro di diversi colori e fantasie. Sono oggi un luogo storico, una pietra miliare dell’Art Brut e parte ufficiale del patrimonio artistico cittadino, un monumento culturale mantenuto e protetto che spicca tra le cose di valore da vedere a L.A. Mae le disegnava (e molti altri landmarks della città ancora) quando erano note a pochi intenditori e rischiavano l’abbandono o la demolizione. C’è un sito Mae Babitz in cui si possono vedere e acquistare stampe delle sue opere sui tesori architettonici di L.A. a penna e inchiostro, fatte sotto la sua supervisione prima della morte nel 2003.

 

I genitori di Babitz surfavano sull’onda culturale che aveva invaso Hollywood negli anni Quaranta, creata dall’Europa travolta dal nazifascismo. La marea porta non solo Stravinsky ma Arnold Schoenberg, Lion Furtwangler, Thomas Mann, Aldous Huxley, Bertrand Russell, Christopher Isherwood e tanti altri, che si divertono con picnic lungo il fiume Los Angeles (sempre secco) insieme con Greta Garbo, Paulette Goddard, Fats Wallers, Louise Rainer e Charlie Chaplin. Molti di loro bazzicano casa Babitz, con Stravinsky che passa alla tredicenne Eve bicchieri di whiskey sotto il tavolo, e l’elegantissima moglie Vera le insegna come si mangia il caviale. Eve cresce facendo buone letture; Marcel Proust, Virginia Woolf, Colette, Anthony Powell. Nella fase più impunemente maschilista, la ragazza tutta champagne e letteratura sarebbe stata condita via con l’etichetta “bas bleu”, mai un complimento.

  

I genitori di Babitz surfavano sull’onda culturale che aveva invaso Hollywood negli anni 40, creata dall’Europa travolta dal nazismo

Dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Ottanta, la L.A. party scene era il ribollente centro dell’azione artistico-mondana hip-chic-colta della West Coast. Scrittori, musicisti jazz, rhythm & blues, rockettari, sceneggiatori, pittori, direttori di musei, scultori, “operatori culturali” di ogni risma, i cinematografari un po’ colti, e le più sexy Art Groupies (si raccomanda la maiuscola) affollavano terrazze, piscine e locali, e il posto dove andavano le persone più “louche” (bella parola difficile da rendere in italiano: significa “equivoco” e “decadente” ma “in a nice way”). Altro luogo ambito era lo Chateau Marmont, ci stava la gente più cool, per sontuose cene seduti, in piedi e sdraiati, cene ben innaffiate da fiumi di champagne, super-alcolici, droghe a volontà e il rimorchio assicurato di maschi belli, di successo e spesso tutte e due le cose. Senza soluzione di continuità, finché è durata. Eve aveva una lista di amanti da far sbavare la spregiudicata social-climber Holly-Go-Lightly, la protagonista di “Colazione da Tiffany” di Truman Capote. C’è chi crede che la prosa di Babitz ricordi quello dell’autore di “A sangue freddo”; personalmente, avendo letto alcuni suoi libri quando ci frequentavamo a Los Angeles negli anni Settanta, non sono molto d’accordo. Il mito letterario di Eve era la singolare, leggiadra, penetrante, ironica, spiritosa Mary Frances Kennedy Fisher (nota come M.F.K. Fisher) la scrittrice di culto di Whittier California (paese natale di Richard Nixon), autrice di libri spesso camuffati da letteratura gastronomica. Mi raccontò Eve che l’aveva sgamata una volta in aeroporto e si era lasciata andare in effusioni da cacciatrice di celebrità. Poi arrossisce, vergognandosi; le chiede scusa per averla importunata. Con un gesto noncurante, la Fisher le sorride indulgente. “Bouquets for the living, my dear”, le disse, leggera come l’aria. Fiori per i vivi. Bel colpo.

 

Nel suo primo libro, “Eve’s Hollywood”, scrive che da bambina disse alla madre Mae, artista con origini Cajun (canadesi francofoni deportati dagli inglesi in Lousiana nel ’700 – grande cucina e impatto culturale): “Penso che da grande farò l’avventuriera. Si può?”, altroché. Tra le sue conquiste, spiccano Jim Morrison (ha cercato di dissuaderlo dal chiamare la sua band con il titolo di un libro di Aldous Huxley, da lei snobbato, “The Doors of Perception.” (“Le porte della percezione”). Poi Harrison Ford (Indiana Jones ante-litteram come amante, niente male) “Harrison sapeva scopare”, chiosa la nostra. “Poteva farsene nove in un giorno. E’ un talento.” Warren Beatty, notorio swordsman e amante di Eve, “non superava sei.” Lei consiglia l’ancora sconosciuto Steve Martin di vestirsi di bianco in palcoscenico, “come i soggetti in certe foto di Henri Lartigue”. La ascolta, e gli abiti candidi diventano la sua firma negli anni di stand-up comedy, che lo portano al successo nel cinema e come scrittore.

 

E ancora fa un giro con Annie Leibovitz, compagna qualche decennio più tardi di Susan Sontag, fin quando Annie la tradisce con la baby-sitter della figlia, nata quando la fotografa delle celebrità aveva cinquantadue anni. Un anno dopo la morte della Sontag, con la quale rimase comunque in amicizia fino alla scomparsa, Leibovitz, che aveva ritratto John Lennon il giorno stesso del suo assassinio, si è regalata due gemelle con l’assist di una surrogata, raggiungendo la gender-equality con maschi omosessuali come Elton John. Annie fotografa la Babitz in bikini, caschetto bruno alla Louise Rainer con frangia, e un boa di piume di struzzo come copricostume. Poi c’era Warren Zevon, il rockettaro (“Werewolves of London”, “Lawyers guns & Money”) morto nel 2003, Paul Butterfield dell’omonima Paul Butterfield Blues Band, morto nel 1987, e ci fermiamo qui per non tediare. Durante una breve visita alla East Coast, Eve fa in tempo a presentare Frank Zappa a Salvador Dalí (“il mio gesto preferito”) e a testimoniare davanti a un comitato del Congresso sui benefici dell’acido lisergico.

 

Una lunga lista di amanti. Tra le sue conquiste, Jim Morrison e Harrison Ford. Fa un giro anche con Annie Leibovitz

Il suo rinascimento parte da un lungo ritratto apparso su Vanity Fair nel 2014 e scritto da Lili Anolik, una giovane scrittrice, convertita alla Evalatria, ora dilagante tra le giovani millenial, che Lili stessa ha scatenato. E’ da poco uscita negli Usa la biografia scritta dalla Anolik, con il titolo del primo libro della ex reproba rovesciato: “Hollywood’s Eve: Eve Babitz e la storia segreta di L.A.”.

 

“L’ho in pratica sniffato in un sol colpo, leggendolo senza sosta in una notte”, ha scritto Jia Tolentino, nella sua recensione entusiasta sul New Yorker. Anolik era partita con l’idea di fare dei pezzi sulla L.A. di quegli anni scintillanti e scapestrati, prima che gli stravizi presentassero il conto ai protagonisti. Incappata in una citazione della Babitz che aveva catturato la sua fantasia, si è messa a cercare i suoi libri, da parecchio tempo fuori catalogo, nelle librerie di seconda mano. Se n’è innamorata, decide di intervistarla. Ma Eve, la cattiva ragazza che andava dappertutto, e non aveva mai rifiutato un invito o quasi, viveva segregata e non voleva vedere estranei di alcun tipo. Indefessa, Anolik ha iniziato a pedinare le sue amiche e l’amata sorella Mirandi, più giovane e più carina di Eve (parole sue) che l’adora e che aveva condiviso i suoi stessi slanci autodistruttivi. Dopo settimane in cui Babitz sentiva parlare di questa “Lili” che tempestava di domande i suoi intimi, si è incuriosita e ha accettato di incontrarla. Invitata a pranzo in un’ottima amburgheria, Eve accetta e sorprende la sua ospite con un appetito da scaricatore di porto. Non è mai stata una fashion victim ma ora si veste per coprirsi e basta.

 

L’araba fenice Eve amava essere o fare la distratta. Si deve lavorare “senza che gli amici se ne accorgano”, come diceva Richard A., sceneggiatore e boyfriend condiviso a nostra insaputa, che ci ha fatto incontrare senza volerlo. Ero sola a casa di Richard quando Eve è arrivata in cerca di lui o per lasciargli qualcosa. Senza il minimo imbarazzo ci siamo piaciute e siamo diventate amiche. E’ di Eve una frase pronunciata a proposito del suddetto boyfriend condiviso anche con un’altra sua amica, da lei descritta come “donna di carattere”. A detta di Eve, Richard aveva qualche problemino d’alcova, non so se fosse che il grilletto partiva in anticipo o facesse cilecca, qualcosa del genere. Fatto sta che con quella “di carattere” non era successo, tutto si era svolto secondo la regola. I maschietti comandano; le femmine scambiano notizie salvagente. La chiosa di Eve sulla faccenda, nel suo stile lapidario e senza fronzoli: “Con una donna di polso Richard non osava essere impotente.” Un commento che sistema sia l’una sia l’altro.

 

Ci siamo frequentate negli anni in cui fare la groupie non era più cosa, e lei aveva iniziato a scrivere seriamente. Sempre senza parere, però. “Scrivo ’sta cosa”, diceva, mentre l’agente le telefonava ogni lunedì da New York per incitarla a mettersi a testa bassa sulla macchina per scrivere. “E’ il tuo lavoro”, la riprendeva. Rifiutare un invito era contro la religione della ragazza che amava “ragazzi, alcol e guai,” La sua carriera di scrittrice – ha sempre avuto fortuna la ragazza – è iniziata grazie a una allora giovanissima agente letteraria, in cerca di clienti da tirar su, Erica Spellman Silverman, che in seguito avrebbe fatto una carriera stellare. E’ stata lei, insieme con la sorella Victoria Wilson, redattrice per l’editore Knopf, a complottare il lancio della Babitz, e Silverman resta ancora sua agente e confidente. E’ stata Erica a dare alla Eve dissoluta, scansafatiche e irresponsabile degli anni pazzi il soprannome di “F. Scott Fitzbabitz”.

 

Frequente anfitrione delle mitiche feste era un famoso, simpatico, ospitale discografico e uomo di mondo: Ahmet Ertegun, il turco-americano fondatore della Atlantic Records (Ray Charles, John Coltrane, Charles Mingus, The Modern Jazz Quartet, Ornette Coleman, the Rolling Stones, Led Zeppelin, Aretha Franklin, Otis Redding, Crosby, Stills, Nash & Young, e molti altri) e compositore lui stesso (“Sweet Sixteen” e “Chains of Love”) sotto lo pseudonimo anagrammatico “Nugetre”. Ertegun, coadiuvato dal suo elegante Sancho Panza Earl McGrath, gallerista che saltabeccava felicemente tra arte, letteratura, cinema, musica e collezionismo, soprannominato il “Jay Gatsby” di quegli anni, organizzava feste memorabili. Era mitica l’agenda di Earl, che conteneva i contatti di tutti quelli che contavano sulle coste est e ovest degli Stati Uniti. McGrath era un man-about-town, di origini umili, simpatico, sciolto, elegante come un aristocratico, un bi-sessuale sposato per quarantaquattro anni con la contessa e fotografa Camilla Pecci Blunt, discendente di Leone XIII. Diceva McGrath: “Nella vita di ogni giovane uomo c’è sempre una Eve Babitz. Di solito è Eve Babitz stessa”.

 

McGrath e Ertegun erano tutti e due tra i suoi amanti: “A lui devo tutto”, ha scritto lei di Ertegun, grata per la visibilità che donava, gli incontri entusiasmanti con vip, star e persone interessanti, le cene, le feste, l’amicizia, le conversazioni e il divertimento che si è goduta grazie a loro. Erano le feste più ambite. Un altro boyfriend era l’artista californiano della Pop Art, Ed Ruscha, amico di Andy Warhol degli inizi; e conquista anche il fratello minore Paul Rucha, fotografo-documentarista di Ed, e lui stesso artista-collezionista di oggetti del suo tempo. Piccoli elettrodomestici, caffettiere, macchine per scrivere, vecchie stilografiche, berretti da baseball affollano la sua casa. Accumula addirittura quei pezzetti di carta per il controllo qualità che si trovano nelle tasche degli abiti nuovi, che a migliaia tappezzano la sua cucina, cose così. Se un tipo un po’ normale le sia capitato nella vita, non l’ha fatto sapere, Babitz. Paul, in ogni caso, era uno degli organizzatori della serata di beneficenza a favore di Eve.

 

Da giovanissima adulta passò un anno a Roma. Ha scritto da qualche parte che era la città nella quale sarebbe rimasta volentieri, se fosse stato possibile, colpita al cuore dall’eterna seduzione della città più bella del mondo (persino oggi nel suo stato di degrado e abbandono) e che mai ha deluso una bella ragazza, pure di talento, qual era lei. Per un po’ si è dedicata a fare collages. Ha fatto anche fotografie e disegnato le copertine di album storici come “Buffalo Springfield Again”, “The Byrds (Untitled)”, e l’iconico “Heart Like A Wheel” di Linda Ronstadt; ma lei dice che quei mestieri erano maschere temporanee, alibi cool per darsi un tono.

 

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Babitz è sempre la protagonista dei suoi libri, un’avventuriera sognante e ironica, sempre alla ricerca della prossima conquista e avventura, o di un modo per raccontarla. Lo sapeva sin dagli anni di Hollywood High, mitico liceo in cui lei dice che non apparteneva al girone delle strafighe. Era, però, nel girone subito dopo, quello delle belle in seconda, e questa posizione dava l’accesso ai maschi e alle feste più desiderabili. Aveva una pelle di alabastro, un sorriso magnifico e quelle tette felliniane. Confessava che il suo peggior difetto fisico era l’assenza di culo, dritto e piatto come quello di un soldato. “Non do mai le spalle a un amante”, sospirava. Aveva fascino, intelligenza, ironia e molta personalità, qualità che non invecchiano.

 

Il suo genio non è mai stato quello di indagare gli abissi dell’anima, come la sua ex mentore Joan Didion, che l’ha consigliata all’allora imperdibile Rolling Stone. Era una gran fortuna, e glie ne sono capitate parecchie nella vita, segno di una persona al fondo positiva. Con la Didion però la mentorship non funziona e si separano. La serietà depressa della “gran signora di Santa Barbara” non collima con la dedizione ai pasticci mondani di Eve. Se tornerà a pubblicare nuovi libri, sarà molto interessante vedere come affronta se stessa – il suo tema principale, anzi unico – dalla prospettiva di una sopravvissuta a una morte atroce; non alla dolce e relativamente poetica estinzione per overdose ma a quella provocata dalle fiamme infernali. La redenta rinata osserva per adesso questo straordinario fuoriprogramma del suo “secondo atto”, in barba al nomignolo F. Scott Fitzbabitz. “Ci pensate? Potevo essere morta, e tutto questo sarebbe successo e non l’avrei mai saputo!”.

 

Ascolta talk radio di destra tutto il santo giorno, Eve, e ne discetta senza sosta, sfinendo le poche giornaliste, tutte de’ sinistra, che accetta di ricevere. Su questo suo “hard turn to the right”, la sua decisa svolta conservatrice, le sue confidenti ed esegete sorvolano. Eve continua a spiazzare e deliziare gli anticonformisti. Essere di destra dura a Hollywood la rende una rivoluzionaria imprudente, ma lei dell’imprudenza ha sempre fatto una bandiera. Primo con lo stile di vita, oggi con la politica. Le auguriamo che sia protetta dall’età e dalle tante vite, come i suoi amati gatti. Altro che F. Scott Fitzbabitz. Evviva il suo secondo atto, e che ne viva felice e contenta ancora tanti altri.

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