Nauman, l'artista a scomparsa

Francesco Bonami

La mostra al MoMa per l'eroe solitario dell’arte contemporanea

Bruce Nauman, nato il 6 dicembre del 1941 a Fort Wayne, Indiana, residente a Galisteo, New Mexico, è forse l’artista contemporaneo più importante degli ultimi cinquanta anni, una pietra angolare della storia dell’arte del dopoguerra, togli lui e viene giù mezzo palazzo. Il Museum of Modern Art di New York lo celebra nelle sue due sedi di Manhattan e del PS1 a Long Island City con una mostra colossale di installazioni, video, disegni, neon, sculture. Più vicino alla White Trash, spazzatura bianca, che alla Middle Class, classe media, Nauman da molto tempo si è trasferito a vivere in un ranch nel deserto del New Messico dove assieme all’arte alleva cavalli – soggetto preferito della moglie Susan Rotemberg, pittrice, che ha sfiorato negli anni Ottanta il successo mentre il marito fin dagli anni Sessanta è stato una figura di riferimento per la sua generazione e oggi per quelle più giovani.

  

Una mostra colossale di installazioni, video, disegni, neon, sculture. Ha influenzato intere generazioni, senza fare il maestro

Nauman, oltre a essere l’artista più importante di questo ultimo mezzo secolo, rischia anche di essere l’ultimo vero artista contemporaneo vivente, specie in estinzione dopo un secolo di arte contemporanea sovrappopolato, iniziato nel 1917 con l’orinale di Duchamp ma destinato ad autoannientarsi per sindrome di autoreferenzialità. Bruce Nauman, pur molto più anziano di tanti suoi colleghi, è tuttavia un esemplare unico molto più resistente di tante stelle comete apparse negli ultimi 25 anni che hanno saccheggiato con più o meno merito il mercato dei media e il pubblico più generale – leggi Koons, Hirst, Cattelan – senza però essere capaci di parlare, come invece fa Nauman, in modo semplice e sintetico a 360 gradi delle basiche pulsioni che regolano e al tempo stesso mettono in pericolo l’esistenza dell’essere umano stesso.

 

Nessuno dei nomi fatti prima è veramente riuscito a colpire al cuore Ramon, come incitava Clint Eastwood in “Per un pugno di dollari”, film uscito nel 1964, stesso periodo in cui Nauman abbandonava per sempre la pittura per dedicarsi alla performance, alla scultura, al cinema ed ai primi video sperimentali. Iniziava così a sorgere la stella Nauman, destinata a trasformarsi prima in un pianeta autonomo e poi in un sole attorno al quale orbiteranno tantissimi artisti che dai suoi raggi costruiranno intere carriere. Basti pensare alla piccola scultura di cemento “A cast of the space under my chair” del 1965, un calco dello spazio vuoto sotto una banale sedia, idea sulla quale l’artista britanica Rachel Whiteread ha costruito tutto il suo lavoro vincendo, addirittura il prestigioso premio Turner della Tate Gallery di Londra. Ma Nauman più che idee, usa per la sua arte pensieri e sensazioni. E’ un caso, ma Nauman sembra ed è un po’ sia il Clint Eastwood sia il Sam Shepard dell’arte contemporanea. Diretto silenzioso scontroso inscrutabile onestamente esistenziale senza sbracare nel cinismo. E’ stato paragonato anche a Samuel Beckett. Eastwood, Shepard e Beckett sono tutti, in fondo, dei “lonesome cowboy”, eroi solitari che vedono l’essere umano come una molecola abbandonata nel caos. La loro arte non è né sociale né politica ma tuttavia parla di tutte quelle pulsioni negative e positive che generano il tessuto sociale e di conseguenza quello politico.

 

Onestamente esistenziale, ma senza sbracare nel cinismo. L’essere umano come una molecola abbandonata nel caos

Fra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta l’arte di Nauman è solipsista e claustrofobica, e a un tratto si trasforma come “L’urlo” di Munch in un manifesto sulla condizione umana. Prima la monumentale, basica scultura di neon “One hundred live and die” del 1984 – una tabellina esistenziale dove ogni attività umana è accoppiata sia al vivere che al morire. Mangia e vivi, mangia e muori, eccetera. Poi un semplice video di una coppia che sta per mettersi a cena, “Violent incident” del 1986, dove l’uomo trasforma l’atto di galanteria di spostare la sedia per far sedere la signora in un sordido scherzo, facendola cadere a terra. Da lì la reazione della donna che condurrà i due ad accoltellarsi l’un l’altro. Potrebbe essere vista come una gag ed invece è la tragedia dell’incomunicabilità della coppia, come nel film di Roman Polanski “Carnage”. Nel video “Clown Torture” del 1987 Nauman è forse l’unico artista di tutta la storia dell’arte a essere riuscito a creare un capolavoro usando la figura di un clown. Nel video il clown urla solo “No, no, no”, contagiando in modo irrimediabile lo spettatore. Infine in un’installazione con schermi e proiezioni del 1991, “Anthro/Socio”, Nauman condensa il punto focale della sua filosofia, ovvero: l’individuo entrando nella società diventa autore e schiavo al tempo stesso del suo destino. Un cantante urla e canta ininterrottamente “Help me / Hurt me”, aiutami, feriscimi, “Feed me / Eat me”, saziami, mangiami. Nauman è lo strizzacervelli dell’arte contemporanea. Eppure il suo modello è destinato a estinguersi. Perché? Perché alla sua arte manca, o meglio non serve, la narrazione, non servono né un inizio né una fine e senza un inizio e una fine ogni opera d’arte è condannata all’eterno presente, destinato a farsi ricoprire dalla polvere del tempo anziché essere avvolto dalla patina della storia. Non è un caso se nell’ultimo apparentemente semplicissimo e ancora una volta basico video che conclude la mostra, “Contrapposto Studies”, l’artista è come se si spezzasse in due mentre compie un passo di danza. Metà del corpo va in una direzione mentre l’altra metà va da un’altra parte. Come se Nauman profetizzasse sia il proprio destino sia quello dell’arte, il cui corpo diviso in due sembra muoversi metà verso l’incomunicabilità e metà verso la banalizzazione e il populismo più bieco dei vari Banksy, Kaws e compagnia. La mostra del MoMa s’intitola “Disappearing Acts”. Azioni che scompaiono. In questa sua presa di coscienza dell’inevitabile scomparsa Bruce Nauman ci saluta e ci ricorda che tutti prima o poi dovremo salutare. Sia entrando che uscendo.

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