Carlo Mazzacurati (foto LaPresse)

Carlo Mazzacurati e il suo cinema di esseri umani

Giovanni Battistuzzi

Cinque anni fa moriva il regista padovano. Da "La lingua del santo" a "La giusta distanza": Citran, Messeri, Pettenello e Padovan ci spiegano perché anche chi non ha mai visto i suoi film dovrebbe vederli

Il Veneto è un luogo di piccole vetrine e immensi retrobottega, una terra di straordinarie contraddizioni. E’ stata una potenza senza territorio, un’avanguardia politica senza seguito. Per una settimana all’anno è la capitale del cinema sebbene, per decenni e decenni, il mondo del cinema non sia mai davvero arrivato in questi luoghi. Qualche apparizione sporadica, la Rezega di Pietro Germi in Signore & signori e poco altro, se non qualche stereotipo sparso qua e là in qualche pellicola: la servetta stolta, il sior veneziano, il militare arrivista, il morto di fame ignorante. 

 

Una terra quasi vergine, fatta di storie piccole, marginali ma non per questo inutili, che avevano solo bisogno di essere ascoltate e guardate. Ci voleva una curiosità gigante per tirarle fuori e immaginarle, per farle parlare e per raccontare. Ci voleva la curiosità di un narratore, la curiosità di Carlo Mazzacurati che del Veneto è stato occhio e orecchie, prima ancora che macchina da presa e regia. Perché questa era la sua terra, il luogo da cui è partito, dove è tornato, che ha vissuto e amato. Carlo Mazzacurati è nato a Padova, a Padova è morto cinque anni fa, oggi. Il Veneto lo ha portato sul grande schermo raccontandone la provincia remota, il Polesine sino allora intravisto in qualche scorcio di Michelangelo Antonioni e Roberto Rossellini, ma mai veramente raccontato. Con Notte italianaL'estate di Davide, La giusta distanza l'ha messo a fuoco e narrato queste zone a tal punto da renderle proprie, vive, "un'epifania quando le si incontra. Si riconoscono i luoghi e si rientra nell'atmosfera che lui era riuscito a creare", racconta al Foglio il regista di Finché c'è Prosecco c'è speranza Antonio Padovan. Ne Il prete bello ha traslato nel Veneto fascista i suoi ricordi d'infanzia, quelli d un luogo "tutto sommato ancora povero, quello in cui siamo cresciuti noi. Il libro di Goffredo Parise è stato un affesco meraviglioso del Veneto di vent'anni anni prima. Ha in maniera molto spiritosa raccontato cos’era la povertà. Carlo lo ha riletto e ravvivato", racconta l'attore Roberto Citran - che ha recitato in sette film del regista e ha collaborato negli altri. Ne La lingua del santo Mazzacurati ha messo in scena la sua Padova. Ma un Padova che diversa da quella che viene di solit raccontata, com'è diverso il Veneto che esce da tutti i suoi film. Un Veneto sincero, fuori dai luoghi comuni, lontano dal preconcetto di una terra leghista, indipendentista, ora dicasi sovranista. Perché Mazzacurati "ha dato un tocco d’artista alle terre che ha ripreso", spiega al Foglio l'attore Marco Messeri. "Morandi guardando quattro bottiglie su un tavolino ha raccontato più lui sugli struggimenti, sulla sensibilità, il colore, l'intimità del vivere nel ventennio che tanti trattati di storia. E lo ha fatto soltanto dipingendo, dipingendo però nel suo modo meraviglioso. Carlo è riuscito a fare lo stesso con il cinema".

 

Forse non poteva nascere altrove Carlo Mazzacurati e forse non poteva nascere altrove il suo cinema dolce, fatto di storie piccole, almeno in apparenza, capaci però di farsi capire e apprezzare ovunque, perché basate su un linguaggio universale: quello dei sentimenti. Un cinema che era la sua versione delle cose, che non voleva essere di tutti ma per tutti, che era autoriale senza avere la necessità di voler spiegare il mondo. “Carlo aveva una straordinaria comprensione dell’umanità, aveva la naturale capacità di trattare le persone per quelle che erano: esseri complessi”, ricorda Messeri. “Era curioso ed equilibrato, abile soprattutto nel rimanere sempre in sintonia con se stesso”, prosegue. “Mi diceva spesso che ‘il peggior lavoro nella vita è conoscere se stessi’. Per questo riusciva sempre ad aver la voglia di comprendere chi aveva attorno. E questa sua attitudine si rifletteva nel suo cinema, che era genuino e digerito bene, non impapocchiato, non occhieggiava alle ultime mode cinematografiche o culturali, cercava di dar voce alle sue idee. E la sua era, proprio per questo, una voce diversa, ricca, di quelle di cui l’Italia ha sempre avuto e ha ancora molto bisogno”.

 

 

Quelle di Mazzacurati sono storie di uomini e di donne che, a eccezione di Un’altra vita, partono dalla provincia italiana e che percorrono, tutte, la provincia dell’umanità. Esistenze comuni, di quelle che si trovano in tutti i paesi della penisola, molte volte piene di una normale tragicità, ma che non vogliono essere pretesto per facili commiserazioni. “Si capisce dai miei film che m’interessano più le persone che fanno una certa fatica a vivere, di quelle realizzate. Mi sembra più vitale la dimensione di chi con la vita combatte”, dichiarò il regista. “Carlo ha sempre amato raccontare storie di emarginati, è stato il filo narrativo che ha unito molti suoi film”, dice Citran. “E’ sempre stato un curioso, amava scoprire cosa le persone avevano da raccontare. Era attratto da storie e situazioni un po’ strane, spesso anomale, capaci di colpire la sua immaginazione: molto spesso queste erano storie periferiche, quelle di chi vive o ha vissuto ai margini della società”.

 

Un’attitudine già emersa al tempo del suo debutto “clandestino” alla regia. Era il 1979. “Io, lui ed Enzo Monteleone sognavamo di fare del cinema”, continua Citran. “Grazie a un’eredità che aveva avuto Carlo ci mettemmo all’opera. Vagabondi fu il suo primissimo film”, un film autoprodotto, figlio di un sogno e di un’esigenza espressiva. “Una storia di due uomini, uno giovane e uno un po’ meno giovane che trasportano nel loro camion una cosa che non si capiva cosa fosse. Io facevo da aiuto regista, Enzo era il protagonista del film, Carlo dietro la macchina da presa. Avevamo coinvolto gli amici di Padova e riuscire a far quadrare tutto è stato qualcosa di epico. I mezzi erano quelli che erano, quelli che potevamo permetterci. Partecipammo a un concorso a Milano, partimmo con la pizza del film e una grande speranza. A metà proiezione si bruciò la pellicola e non abbiamo più visto niente. Per anni pensavamo fosse andato perduto, ogni tanto ne riparlavamo, ci chiedevamo dove fosse finito il film, ma nessuno lo sapeva. Per caso riapparve in un trasloco, una cassetta avvolta in un lenzuolo. S’era ben nascosto”. 

 

Storie e vite marginali, ma che riuscivano comunque a trovare una loro dignità, una loro dimensione, una certa allegria. L’allegria di chi resiste, di chi sa che non c’è un’unica via per la felicità, che ci può essere del bello anche nella desolazione. “Carlo è sempre stato molto poco melodrammatico, riusciva a sfuggire con naturalezza alla retorica”, racconta al Foglio lo sceneggiatore Marco Pettenello che con Mazzacurati ha lavorato alla sceneggiatura di quattro film. “Nel lavoro si è sempre lasciato guidare dalla sua grande emotività, un’emotività che però era del tutto diversa da un banale sentimentalismo”, continua. “Quando pensava a un film aveva sempre una gran voglia di emozionare ed emozionarsi. Mi ricordo che tanti anni fa nel suo studio aveva appeso un articolo. Il titolo era: ‘Dov’è finito il cinema che ci fa piangere?’. Mi disse che l’aveva messo lì come fosse un monito. Lo guardava e diceva: ‘Noi chiediamo alla gente un’ora e mezza di attenzione per raccontare una storia. Dobbiamo lasciare loro qualcosa quando escono, abbiamo il dovere di spezzargli il cuore’. Lui lo ha fatto, magari con distacco, con eleganza, ma il suo cinema non è mai stato una cosa fredda”.

  

 

Quello che Carlo Mazzacurati è riuscito a fare in tutti i suoi film è stato mettersi dietro a una cinepresa e raccontare che la vita può anche essere complicata, difficile, che gli accadimenti molte volte non li possiamo controllare, che anche quando tutto può sembrare uno schifo non è così davvero. “Il mondo di Carlo era a tratti fiabesco”, ricorda Citran. “Aveva il sincero desiderio che le storie andassero a finire bene. Strutturava i suoi lavori come fossero una fiaba nel corso della quale al protagonista poteva succedere di tutto. Certo i suoi personaggi seguivano percorsi tortuosi, mai banali, ma non erano passaggi a vuoto: riuscivano a raggiungere il loro traguardo, fosse anche per miracolo, per un intervento esterno inaspettato. Voleva raccontare persone in cerca di un riscatto”. 

 

D’altra parte, se il mondo va male, non è detto che debba andare peggio. E soprattutto “è fastidioso e controproducente abbandonarci alla mancanza di prospettive, al cinismo”, dichiarò Mazzacurati in un’intervista. La fiaba è tutto questo: una dimensione immaginaria della rappresentazione del mondo, ma non per questo degradata, anzi, “forse la forma più elevata della rappresentazione della speranza umana, una forma pura di resistenza”, scriveva Roland Barthes. E il regista “nella favola riusciva ad avvicinare tutti, grandi e piccoli”, sottolinea Messeri. “Era una persona intelligente che amava andare a fondo delle questioni. La sua grande curiosità poi lo spingeva a spaziare tra mille argomenti. Riusciva a dialogare su tutto, stare con lui era una scoperta. Un grande intrattenitore, sia con gli amici, soprattutto con i bambini. Con loro riusciva a dipingere mondi immaginari mentre si inventava favole o raccontava quelle della tradizione. Ricordo quando lo faceva con i miei figli. Li metteva su di una panchina e iniziava a narrare. Loro erano estasiati e pure io, devo ammetterlo, ne ero rapito”.

 

 

Delle favole metteva in scena la magia, superando però la netta divisione in buoni e cattivi. Nei suoi film non ci sono categorie, tutto è pervaso dall’impossibilità di un giudizio definitivo sia esso morale o sociale: tutto si scompone, si complica, si intreccia. “Aveva un grande affetto per l’umanità anche quando negli uomini prevalevano i difetti sui pregi”, spiega Pettenello. “Quando doveva mettere in scena un personaggio negativo, a volte pure spregevole, per Carlo questo rimaneva pur sempre un essere umano, con i propri sogni e la volontà di essere felice. Ha sempre trattato con affetto i suoi personaggi, anche se la loro funzione drammaturgica era negativa. E questo è un insegnamento che supera il cinema, può essere applicato alla vita. Ogni uomo è una medaglia e come ogni medaglia ha due lati, a volte basta solo girarla per capire che non sempre tutto è semplice e immediato. E se capisci ciò, capisci che questa è una possibilità in più che dai alla narrazione”.

 

Mazzacurati “è riuscito a creare un cinema senza stereotipi, un cinema libero per davvero”, dice Padovan. “La scelta di andare contro al progressivo inurbamento del cinema italiano, l’aver deciso di esplorare la provincia, gli ha permesso di concentrarsi sugli uomini, sulle loro difficoltà. I suoi personaggi sono persone comuni, sono antieroi forse, sicuramente intrisi di un’umanità e di una complessità che si trovano raramente nei film”.

 

Un cinema di sentimenti e non sentimentale, di persone e non di personaggi, un cinema nel quale ha sempre tentato di mettere in pratica le parole che Bencivegna (Fabrizio Bentivoglio) dice a Giovanni (Giovanni Capovilla), in La giusta distanza: “Se questo mestiere lo vuoi fare sul serio, c’è una cosa che devi imparare subito. È la regola della giusta distanza. La misura che devi sempre mantenere tra te che scrivi e le persone coinvolte nei fatti. Non troppo lontano se no non ghe xe più pathos. Ma neanche troppo vicino, porca bestia! Perché se il giornalista si perde nell’emozione, è fritto!”. E così Mazzacurati “con il suo sguardo colto e spontaneo è riuscito a guardare dalla posizione giusta le cose che accadevano e i destini delle persone”, dice Pettenello. Ma allo stesso modo del giovane protagonista del suo film, che al termine della pellicola ammette che “se avessi mantenuto la giusta distanza, se non mi fossi fatto coinvolgere, Hassan sarebbe ancora per tutti un assassino, e io non andrei a Milano a lavorare per un giornale importante”, così il regista “abbandona questo perfetto equilibrio, ma sempre in direzione dell’esserlo troppo e mai nel verso opposto”. Perché “a volte bisogna abdicare alla giusta distanza”.

 

 

Saper superare la giusta distanza senza cadere nello stucchevole è una questione di sensibilità. Saper raccontare una storia senza ricorrere ai cliché cinematografici è invece una questione innanzitutto di stile, soprattutto di conoscenza. Diceva Arthur Penn che “nulla è più difficile del cinema quando si superano i generi per creare qualcos’altro. Nulla c’è però di più interessante quando questo accade”. Mazzacurati ha fatto questo per tutta la sua carriera cinematografica. I suoi film erano commedie che non lo erano, noir senza esserlo, gialli che apparivano per quello che erano solo alla fine, quando tutto era ormai cambiato. “Era un appassionato spettatore, aveva un amore smisurato per i film”, dice Pettenello. Un regista innamorato del cinema in ogni sua forma. Da sempre. “La prima volta che lo incontrai avevo quindici anni e andai a casa sua per una jam session: Carlo suonava la batteria, io la chitarra. Iniziai a conoscerlo davvero però solo anni dopo, quando ci incontrammo di nuovo a Cinema Uno, il cineclub dell’Università di Padova”, ricorda Citran. “Io, lui ed Enzo Monteleone curavamo la programmazione delle due sale. Passavamo giornate intere assieme a spulciare sulle riviste gli ultimi film usciti, a organizzare retrospettive. Abbiamo passato anni a vedere da uno ai tre film al giorno. E guardavamo di tutto: dal nuovo cinema tedesco alla nouvelle vague, dalla commedia all’italiana a Bergman”. Un’esperienza che lo ha formato, che gli ha dato la possibilità di trovare una via. E la sua via era quella di essere libero di raccontare storie. “Voleva creare, e ha creato, un proprio linguaggio”, dice Pettenello. “Per questo si è sentito sempre a disagio all’idea di appoggiarsi a un genere, che significa cliché, regole, un rapporto predefinito col pubblico, perché la gente si aspetta un determinato modo di raccontare. Ricordo una volta che per chiedere qualche finanziamento ci siamo trovati di fronte a un po’ di scartoffie burocratiche da allegare alla sceneggiatura. C’erano campi da riempire, i soliti: titolo, sinossi, genere. Gli ho chiesto: ‘Carlo che genere mettiamo?’ Lui mi guarda, ci pensa un attimo, poi fa: ‘Boh, metti storie di esseri umani’”. Perché alla fine questo è il cinema, una grande storia di mille storie di esseri umani.