Giuseppe Battiston con Antonio Padovan

C'è prosecco oltre al Referendum. Un giallo mostra al cinema l'altro Veneto

Giovanni Battistuzzi

"Finché c'è prosecco c'è speranza" di Antonio Padovan, con Giuseppe Battiston, uscirà nelle sale il 31 ottobre. Racconta una regione di cui si parla molto e si sa poco, un ritratto non scontato di colline, vino, problemi (e delitti)

Conegliano. In questa stagione, a percorrere quell'arco collinare che unisce come un semicerchio Conegliano e Valdobbiadene, gli occhi si perdono in un susseguirsi di tonalità di giallo, interotto soltanto da qualche macchia di verde ormai consunto. Sono i luoghi di quei "circhi in ascese e discese e - come gale - / arboscelli vitigni stradine là e qui / affastellate e poi sciorinate / in una soavissima impraticità ah / ah veri sospiri appena accennati eppur più che completi / lietezza ma non troppa / come un vino assaggiato e lasciato - zich - a metà", dipinti a parole dal poeta Andrea Zanzotto, di quelle colline "che col sole mezzano ritrovano la pace del tempo pigro, trasformandosi in alture dormienti che tentano la fuga dalla bruma della pianura" e per questo, almeno per Goffredo Parise, mettono il vestito buono quello "d'oro, a ricordar il tempo dei raggi passati". Sono luoghi lontani, almeno dalla confusione del turista agreste, dal finesettimanaenogastronomico che ha reso la Toscana collina d'Europa e l'Umbria e le Marche sue nuove succursali, dove i borghi sono ancora cumuli di case dimenticati da dio, ma non ancora dagli uomini.

 

Quell'arco di colline e di vigne, dove ormai l'acino sferico della Glera e i suoi filari ordinati e arrampicati sui pendii hanno conquistato un po' tutto, trasformando il Prosecco da un vino nel Vino, le cantine da sussistenti a esportanti, la lingua da dialetto a inglese, commerciale of course, di giallo ha assunto anche il travestimento. L'abito è quello largo e un po' sdrucito dell'ispettore Stucky, il contesto quello che più caratterizza questo colore, ossia omicidio e indagine, ossia letteratura prima, Finché c'è prosecco c'è speranza, firmato Fulvio Ervas. Ossia cinema ora (in sala dal 31 ottobre), firmato Antonio Padovan, regista alla prima opera che da questo semicerchio collinare proviene. Qui è prima nato, poi fuggito, come capita a molti, per poi ritornare, come capita a quelli che sanno che il mondo è grande e forse meraviglioso, ma che questo pezzo di Veneto tiene dentro sé, nei suoi luoghi e nei suoi colori, nei suoi panorami e nelle sue bollicine, nella sua cadenza musicale, a volte da operetta, e nelle sue osterie, qualcosa che non può essere dimenticato, qualcosa che funge da richiamo, da attrazione quasi ombelicale, la stessa che spinge le anguille a mille e millemila chilometri di nuotate di distanza, per riprodursi e poi morire in quel fazzoletto di Oceano che considerano casa.

 

 

Un giallo collinare, molto alcolico, sarà per l'ambientazione, le colline del Prosecco Docg di Conegliano e Valdobbiadene, sarà per certe riprese che seguono ottimamente mosse i personaggi, sarà per i personaggi, sarà per i colori, che molte volte tendono a imitare quel vino che da torbido e col fondo, commensale povero di povere tavole, ha conquistato i tavolini più chic del mondo in quel nuovo intrattenimento sociale chiamato aperitivo e ormai trasformatosi in apericena e aperitutto. Un vino per tutte le occasioni, che col tempo si è trasformato per diventare gentile, "femminile", almeno a sentire un eccellente giornalista di queste zone che di mondo ne ha visto e pure di osterie. "Il Prosecco era altro, poi ne hanno ristretto la bollicina, l'hanno fatta salire perfetta. E così è diventato perfetto, un perfetto non vino, che piace a tutti perché è fatto per piacere, il contrario di questa terra".

 

L'ispettore Stuky è Giuseppe Battiston e di Battiston, almeno nel film, ne ha la corporatura e le espressioni dei suoi film meglio recitati. E' il Battiston che non è costretto a essere simpatico, che riesce a far sorridere per espressioni e per mezze battute, per antitesi evidente alla malinconia soffusa e sotterranea che parte dalle colline, raggiunge il conte Desiderio Ancillotto, deus ex machina di tutti gli eventi, si incarna nel matto del paese (un bravissimo Teco Celio) che gratta la ruggine dalle tombe del cimitero, e raggiunge la sala. Era il sentimento che cercava, oltre al vino, Marcello Mastroianni quando nella zona di Soligo, si rifugiava per scappare dalla Dolce vita romana, per stare "nelle tavole a parlare di niente e di tutto, a farsi cullare dall'inquietudine che rinforza e a bere quel vino sincero che frizzantino com'è sembra l'opposto del malinconico e bellissimo panorama che lo circonda", raccontò a Federico Fellini dopo un fine settimana di fuga dal lavoro (in pausa) durante le riprese di 8½.

 

Nel film di Antonio Padovan c'è un ritratto fedele e sincero di queste zone, una capacità "anziana" di comprenderne le dinamiche e i problemi, le eccezionalità e le contraddizioni di un pezzo d'Italia che continua a essere lontana dai riflettori sia della politica, nonostante il referendum per l'autonomia, sia dal grande e piccolo schermo, schiacciata da panorami più scintillanti e da storie più facili da raccontare.

 


Antonio Padovan con Giuseppe Battiston (foto per gentile concessione della K+ film) 


 

Storie di altre genti e altre vini, magari organoletticamente più complessi, magari, a sentir gli esperti, migliori e completi, ma difficilmente più adeguati a raccontare un mondo che nonostante tutto va avanti a suo modo, fregandosene di quell'andazzo politicamente corretto di rapportarsi con le cose di tutti i giorni. Scrisse Jorge Luis Borges che ogni vino "rappresenta la complessità di un territorio, ne asseconda i detti e i non detti, ne riflette le qualità e difetti". Ogni vino "è una storia che andrebbe raccontata", ma la grandezza di un vino, non è determinata unicamente dalla sua bontà, "è piuttosto rappresentata da quell'intreccio di storie che si dipanano da esso. E' l'immaginario collettivo, composto da letteratura, musica e pellicole a rendere eterno il succo dell'uva". E forse ora il prosecco potrà superare l'espressione scettica dei nasi e dei palati fini, che lo classificano a oggetto di intrattenimento. E' qualcosa di più, ora è film, esperienza che esce dall'osteria. A patto però che si ricordi l'ultimo insegnamento di Borges, già messo in pratica da Padovan nella sua pellicola: "succo dell'uva, ma frutto della terra", che va utilizzata, ma non ridotta ad azienda, che va tutelata senza cadere nello stupido errore dell'eccesso di tutela.