(Foto LaPresse)

Hanno già vinto “Roma” e “La Favorita”, agli Oscar invece tagliano il conduttore

Mariarosa Mancuso

La prima volta di Netflix agli Academy Awards, ma non solo. Tutti i film in corsa per la statuetta

La prima volta di Netflix, che è riuscita a piazzare “Roma” di Alfonso Cuarón tra gli otto titoli in gara per il miglior film. E la prima volta senza un maestro di cerimonie: dopo la rinuncia di Kevin Hart, inciampato su remoti tweet considerati omofobi, non è ancora stato annunciato il nuovo presentatore per la nottata del 24 febbraio. Corre anzi voce che i produttori abbiano deciso di farne a meno, per accorciare i tempi e guadagnare spettatori. Addio quindi al monologo iniziale (e ai commenti sulle battute e le gag, sempre più mosce perché a osare appena un po’ si rischia la scomunica). Cornetti e scongiuri perché non si ripeta la magra figura del 1989, un duetto tra Rob Lowe e Biancaneve: la Disney fece causa per strapazzo di personaggio, Paul Newman e Julie Andrews parlarono di “spettacolo imbarazzante”.

 

 

Hanno avuto la loro anteprima alla Mostra di Venezia i due titoli con più candidature, appunto “Roma” e “La favorita” di Yorgos Lanthimos (e pochi giorni fa il direttore Alberto Barbera è stato collocato da Variety nella top ten degli italiani che contano nel cinema, assieme a Checco Zalone). Dieci contro dieci, sembra di essere tornati al Lido. Avevamo appena smesso di celebrare “Roma”, e con doppio salto mortale – tutto merito degli sceneggiatori Deborah Davis e Tony McNamara – il regista greco finora posseduto dal demone del cinema artistico ha tirato fuori un film da consigliare a chiunque. Fanno eccezione i recensori con il pilota automatico, che all’occasione hanno rispolverato la formula: “Denuncia la condizione della donna in un mondo rigidamente patriarcale”. Come no, siamo all’inizio del 700, e la regina Anna siede sul trono inglese, poveretta. E ha due favorite che si disputano le sue grazie, poveretta.

 

A farsi largo tra i due, entrambi film di nicchia – “Roma” non è neppure parlato in inglese, solo messicano e mizteco, in bianco e nero come non se ne vedono più neppure in televisione al pomeriggio – il supereroe nero “Black Panther”. Altra assoluta prima volta, non solo per la felice negritudine di tutti i personaggi (i bianchi saranno due o tre, e non ci fanno una gran figura) ma per l’origine negli albi a fumetti Marvel. Così va il mondo. Nessuno si scandalizzò quando “Il signore degli anelli” fece il pieno di Oscar (c’era dietro la saga di Tolkien, e un libro gode sempre di un certo rispetto anche se tutti sono a caccia di un anello da buttare poi via). La poco nobile nascita ha messo in ombra il nome del regista: Ryan Coogler di “Prossima fermata - Fruitvale Station” (indipendentissimo film girato solo cinque anni fa, in memoria di un piccolo spacciatore ammanettato e ucciso a Oakland, nelle prime ore del 2009).

 

 

“Non ricordo più se veniamo prima dei disoccupati e dopo i giovani, o tra il mezzogiorno e i pensionati”, lamentava una signora in una storica vignetta di Altan. Le registe, è sicuro, vengono dopo i neri. Molto dopo, visto che tra i magnifici otto non s’è trovato un posto per “Non lasciare traccia” di Debra Granik. Non perché donna, ma perché bravissima. Sicuramente più brava di Peter Farrelly e Nick Villalonga, regista e sceneggiatore di “Green Book”, che non solo ha spuntato la candidatura come miglior film, ma ha fatto il bis nella categoria sceneggiatura originale (con le magiche parolette “tratta da una storia vera”). Candidati anche gli attori Viggo Mortensen e Marshehala Ali, in gara di lezioncina morale.

 

“A Star is Born” mostra che le vecchie storie sempre piacciono: questa è rifatta da Bradley Cooper con astuzia e con Lady Gaga, un tocco di contemporaneità da premiare. Tra i maschi, va fortissimo Rami Malek in canottiera di “Bohemian Rapsody”: il santino su Freddie Mercury autorizzato dai Queen.

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