Vittorio Gassman l'insorpassabile
Il suo Bruno Cortona, il più italiano di tutti. Ma c’è un Gassman per ognuno di noi. Un docufilm in tv
"Di Vittorio Gassman ne nasce uno ogni cent’anni", ha detto Renzo Arbore. Non è vero, e lui lo sa, ma ci si deve pur consolare quando si ricorda un irripetibile. Di Vittorio Gassman ce n’è stato uno solamente e non ne avremo altri. Mai. Mai più. E non perché c’è solo un capitano, come cantano allo stadio – del resto poi lui era colonnello, uno dei cinque colonnelli della commedia all’italiana (gli altri quattro erano Tognazzi, Sordi, Manfredi, Mastroianni, irripetibili e incalcolabili pure loro). Una cosa che si capisce guardando “Sono Gassman! Vittorio re della commedia” (domenica sera su Sky Arte), un documentario che in certi punti è anche un po’ filmino di famiglia, di quelli che negli anni Novanta giravano i padri e gli zii, vagolando ubriachi tra salotto e cucina con addosso gigantesche telecamere che sembravano imbracature per scalare il Nanga Pàrbat, una cosa che si capisce della irrepetibilità di Gassman è che a fare di lui chi è stato hanno concorso madre, padre, figli, mogli, quasi mogli, amate e amanti condivise con gli amici, gli amici con cui si sono condivise amate e amanti, e l’Italia tutta intera, cioè gli italiani. Può valere per tutti, forse, ma nessuno più di Gassman è stato consapevole d’essere tutto un complesso di cose e persone. E nessuno, più di lui, da quel complesso di cose e persone, s’è lasciato tanto profondamente commuovere, quando ci si rivedeva e quando no.
Bellissimo, tonante, con il volto grave del teatro e gli occhi severi dell’autorità. E mite, e pure timido. “Un mestiere che non volevo fare”
D’essere in questo commosso debito era capace di ammetterlo e ne era incuriosito, a volte smarrito, altre insuperbito, più spesso ancora era tutte e due le cose insieme. E quel debito è anche la ragione per cui non solo c’è un Gassman per ciascuno di noi, ma in tutti i Gassman che abbiamo visto, da “Riso Amaro” a “Profumo di donna”, c’è qualcosa che c’informa su chi siamo, o potremmo essere, o una volta siamo stati, o non abbiamo mai avuto il coraggio di diventare, o abbiamo sciupato per il troppo coraggio confuso con la spavalderia.
In Carlo Freccero, ha scritto Guia Soncini, ci sono ben due Gassman: il Bruno Cortona del “Sorpasso” e il Gianni Perego di “C’eravamo tanto amati”. E voi quanti Gassman siete? Magari riuscire a rispondere può aiutarvi di più che andare dallo psicoterapeuta. Ma non è detto.
Per fare un Gassman ci sono voluti gli altri, molti altri, e la fiducia di lui nel farsi guidare da loro, e la fame che ha avuto nello spolparli e certe volte, immediatamente dopo, il desiderio di rigettarli (rigettarsi), o almeno punirli (punirsi). Tra i molti contributi che il documentario mette insieme, c’è quello di Paolo Virzì, che dice a un certo punto: “Della commedia all’italiana s’è perso lo spirito critico ed è rimasto pure troppo l’ammiccare e il dar di gomito allo spettatore per dirgli ‘sono un figlio di mignotta ma in fondo lo siamo tutti’”. Gassman non alleviava né assecondava nessuno, né la commedia italiana puntava a fare del pubblico un proprio complice o uno spettatore da consolare – erano tempi in cui l’empatia non era ancora stata inventata (e si campava lo stesso, e neanche troppo male). Ancora Virzì: “Erano passati non molti anni dalla guerra però s’intuivano, oltre all’euforia, le magagne. Non c’è commedia all’italiana che non abbia un fondo drammatico”. Il riso amaro, che chi l’ha visto non lo scorda più, come la giarrettiera rosa per Paolo Conte.
Andò a trovare Tognazzi poco prima che morisse. Si chiusero in una stanza per ore. Che cosa avevano fatto? “Niente, abbiamo pianto”
“Il tentativo è stato quello di mostrare non solo un vitalissimo ed esplosivo mattatore sulle scene e nella vita ma anche un uomo mite, toccato da una grazia speciale e, come ha detto una volta l’editore di una sua raccolta di poesie, Luca Sossella, ‘abitato da un angelo che aveva in odio la volgarità’”, ha scritto Fabrizio Corallo, che del documentario è autore e regista.
Mite, Gassman? Lui che “è sempre stato alto sin da quando era molto piccolo” (ha detto una volta Proietti), lui che quando diceva “noi ciavemo er prius” nel “Conte Tacchia” sembrava lo dicesse di sé, lui bellissimo, tonante, con il volto grave del teatro e gli occhi severi dell’autorità, lui che Arbore si sente in soggezione a parlarne “anche adesso che non c’è più”? Lui, mite? E già. E pure timido è stato, un timido bambino con una mamma convinta di poterlo affrancare dall’introversione facendolo diventare attore. E così avvenne, e naturalmente ci fu un prezzo da pagare. C’è un’intervista in cui Gassman dice, mentre si vedono le immagini di sua madre che, al suo fianco, si prende il palco (una gag meravigliosa, lui è ormai affermato e lei anziana e vispa, pacificata): “Credo che questo tipo di violenza, il fare un mestiere che non volevo fare e che era così diverso da me, sia ragione di alcuni soprassalti del sistema nervoso che ho pagato poi”. Il papà, invece, morì quando lui aveva 14 anni, “l’età peggiore e più poetica in cui si può perdere un padre”. Era un uomo semplice, robusto, amante degli sport, l’opposto di suo figlio e sua moglie, che erano complicati, pensosi, insoddisfatti, insaziabili sempre e affamati per sempre. Gassman diventò padre molto presto, poco più che ventenne – “fu un amore giovanile che ebbe il suo reperimento organico perché io e Nora eravamo troppo giovani per sposarci però abbiamo costruito Paola che è un bell’oggettino”. Il bell’oggettino, Paola Gassman, attrice, è la voce che tiene insieme tutte le altre, insieme a quella degli altri figli, nel documentario. Deve averlo perdonato, per essere stato assente, o forse solo impacciato, troppo generoso, troppo richiesto, distratto (lui ha scritto quanto e come in “Un grande avvenire dietro le spalle”, il suo memoir zeppo anche di rimpianti e rimproveri e paure e lotte – contro le lacrime al funerale del padre, da piccolo, e contro l’insorgere della depressione, da grande). Gassman rincorse la paternità per tutta la vita, soprattutto a teatro – “niente mi interessa di più, in teatro, dei rapporti tra padri e figli”, disse, anche se il personaggio che più amò interpretare fu Otello, non Lear – ma cosa significasse essere e fare il papà lo capì tardi, quando nacque il terzogenito, Alessandro, quello che fino a quando aveva cinque anni rimase convinto che suo padre fosse Brancaleone (in mezzo c’era stata Vittoria, nata durante il matrimonio con Shelley Winters, che conobbe al Teatro Valle), e ancora di più quando nacque Jacopo, figlio suo e di Diletta D’Andrea, che prima era stata la donna di Luciano Salce, con il quale lui frequentò l’accademia, scrisse un libro (“L’Educazione teatrale”), mescolò i figli (Alessandro Gassman: “Considero Emanuele Salce mio fratello”), condivise i pranzi e le cene di Natale, i bagordi, le feste nella grande villa sull’Aventino, quella all’interno della quale allestì un piccolo teatro privato. Era un megalomane domestico, Vittorio Gassman. Un padre in debito. Voleva tenere tutto insieme. Se il teatro mi porta lontano da casa, allora io porto il teatro a casa. Se fare l’attore mi distrae dai miei figli, allora faccio l’attore con i miei figli. C’è un filmato straordinario di lui che, con Jacopo tra le braccia, minuscolo ma grande abbastanza per ridere alle sceneggiate del papà, gli dice: “Ti faccio un’iniezione, sempre così devi restà”. Era un papà quasi sessantenne, ma energico e vispo come un trentenne. Anche il Gassman degli italiani, dopotutto, è invecchiato molto più tardi rispetto alla sua età, all’improvviso, di colpo, e per poco. Ed è rimasto bellissimo fino all’ultimo, come Burt Lancaster o Paul Newman. Attore teatrale ci è diventato per insistenza della madre, padre ci è diventato per irresistibilità dei figli, attore di cinema per esigenze di stipendio – “Mi vergognavo, e anche il cinema non mi amava” – e persino protagonista di commedia ci è diventato per colpa di un altro. Non un altro qualsiasi, ma Mario Monicelli, che seppe dai pettegolezzi di via Veneto – che Gassman frequentava, spocchiosetto (“Io faccio il teatro!”), al fianco di Ennio Flaiano – quanto Vittorio fosse insofferente e quanto non gli piacessero i ruoli drammatici e sempre uguali che gli venivano affibbiati dai registi di quella Roma lì. E allora Monicelli gli fece fare il pugile balbuziente e iellato ne “I soliti ignoti”, e la storia del cinema cambiò, e il modo di far ridere gli italiani anche. Era il 1958, l’altro ieri. Cambiò Gassman soprattutto: “Fu Monicelli a rendermi simpatico, me che sono odioso”.
Era un megalomane domestico. Un padre in debito. Voleva tenere tutto insieme, il teatro e la famiglia. “Il cinema non mi amava”
La vita è stata per lui una continua offerta che s’è sfidato ad accettare, la guida di una macchina che s’è disposto spesso a condividere senza chiedere per forza la destinazione. Della vita e del talento non s’è padroni, e lui lo sapeva e un po’ ne approfittava, per farsene attraversare, per esagerare. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto dire: “Lo sai qual è l’età più bella? E’ quella che uno cià, giorno pè giorno, fino a quanno schiatti, si capisce”. Nessuno, meglio di lui, sarebbe stato il Bruno Cortona del “Sorpasso”, il “film sull’amicizia, il boom e l’automobile”, disse Risi. Il film su come i responsabili pagano le colpe degli irresponsabili. Su come si può sbagliare volendo molto vivere.
Se solo ci fosse un’analisi del sangue per stabilire quanto Cortona c’è in ognuno di noi, quanto sarebbe interessante. E chissà quanto arriverà in là, con le generazioni, per quanto tempo ancora ce lo porteremo dentro, e se sarà sempre un italiano vero, Bruno Cortona, il più italiano di tutti, anche per quelli che non andranno al cinema, e dimenticheranno l’Italia del dopoguerra, e non vivranno il mito della bella giornata (come Raffaele La Capria ha chiamato il bel vivere italiano, la vacanza romana che ci portiamo dentro al cuore), che è la religione del Cortona – ma siamo così certi che s’estinguerà, e non, invece, che sia inestinguibile e quindi che non potremo, sempre, che dirci cristiani e bellagiornatisti?
Monicelli gli fece fare il pugile balbuziente ne “I soliti ignoti”, e la storia del cinema cambiò, e il modo di far ridere gli italiani anche
E’ anche la consapevolezza triste della fugacità, però, a fare di Cortona l’italiano che ci portiamo dentro. E di Gassman il solo attore capace di riunire, dentro uno spaccone romano, “Il sabato del villaggio” e “Canzona di Bacco”, Lauzi e Buscaglione, che erano i due poli in cui era scisso in modo irrimediabile.
“Vittorio Gassman, nel ‘Sorpasso’, è l’emblema di un italiano nuovo che ha imparato ad approfittare in tutti i modi della libertà. Ma non ha avuto un’educazione alla libertà. Sotto sotto, infatti, dietro un cambiamento strepitoso striscia una resistenza, un’opposizione, una vischiosità che sembra provenire da un virus italiano che Sordi ha illustrato in tutte le sue forme, incarnandolo nel piccolo democristiano impiccione, nel borgataro travolto dall’esotismo americano, nel magliaro, nel marito adultero, nel vigile sadico, nel ministeriale infingardo, nel piccolissimo borghese che nuota nel braccio di mare fra l’arcaismo e la modernità”, ha scritto Edmondo Berselli. Di tutti questi e moltissimi altri mostri Gassman è stato interprete e fratello. Da tutti questi mostri s’è lasciato commuovere e influenzare e spostare. Fregare? Se sia stato in loro balìa è difficile dirlo e non spetta a noi. Però li ha amati. Così com’erano. Sul finire del documentario di Corallo, c’è Fanny Ardant, dolcissima e francese e italiana, che dice: “Era un condottiero, mi ha protetta, e avrei voluto proteggerlo”. E Stefania Sandrelli, che dice: “In lui c’era un connubio tra la solidità dell’attore di teatro e a fragilità verso le piccole cose”. Quali saranno state le piccole cose, per uno come lui, alto sin da quando era piccolo? Le stesse che sfuggono a tutti, anche a noi, che siamo infinitamente più bassi di lui e lo rimaniamo anche quando diventiamo grandi? Il quotidiano, gli amici, il pane caldo, il tempo libero, lo sport?
In un’intervista a Candida Morvillo del mese scorso, Maria Sole Tognazzi, figlia di Ugo Tognazzi, grande amico di Gassman, ha raccontato che poco prima che suo padre morisse, Vittorio andò a trovarlo. Si chiusero in una stanza per ore. Quando vennero fuori e le ragazze chiesero loro cosa avessero fatto, risposero: “Niente, abbiamo pianto”. Per le grandi cose scomparse o ridimensionatesi al punto da non essere più alla loro altezza.
C’è stata un’Italia che è stata all’altezza di Gassman e che l’ha incuriosito, e innamorato, e alla quale lui ha sacrificato moltissimo, agevolato da una famiglia che ha capito che Vittorio era di tutti, italiani, amanti, amici, fan, registi, Hollywood, Cinecittà, e con tutti andava diviso. Perché in tutti gli italiani, in un momento fortunato e precipitoso della storia di questo paese, Gassman s’era voluto dividere e ritrovare e ricomporre.
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