Lo scrittore ungherese Sàndor Marai (Foto Wikipedia)

Le scrittrici dell'identità ungherese sono tutte apolidi, mica sovraniste

Simonetta Sciandivasci

Szabó, Heller, Kristóf. Letture per capire Orbán a Milano

Roma. “Vorremmo che l’Ungheria rimanesse un paese ungherese”, era scritto nella presentazione del pacchetto Stop Soros, il piano anti-immigrazione del governo di Victor Orbán, approvato dal parlamento di Budapest a giugno scorso. Tuttavia, nell’essere ungherese esiste (ce l’ha messo la storia) un sentimento fortissimo di frammentazione, ed è cosa che, furbescamente, il sovranismo del “talismano della destra mainstream europea” – così Politico definiva, nel 2015, il premier magiaro – tralascia e scavalca, illudendosi così di poterlo cancellare.

 

“Sono donna, ungherese, ebrea, americana, filosofa: sono oberata da troppe identità”, scriveva di sé la filosofa Ágnes Heller (Budapest, classe 1929 – e avreste dovuto vedere con che piglio e tempra di ragazza combattente, qualche mese fa, discuteva di Europa, a Roma). Lo scriveva negli anni Cinquanta, il decennio nel quale a Magda Szabó, una delle scrittrici ungheresi più amate, il regime comunista ritirò premi e impedì di pubblicare. Non si trattò, naturalmente, di un caso isolato: il trattamento fu riservato a molti altri intellettuali.

 

Sándor Márai, che nacque in una parte d’Ungheria oggi slovacca, per evitare le persecuzioni dello stesso regime scappò prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti. Esule in Svizzera, su insistenza del primo marito che temeva di finire arrestato dai sovietici, ci finì anche Agota Kristòf, la scrittrice “dell’esilio”, l’apolide “dell’erranza”, che a casa non riuscì a tornare né a sentircisi mai più, da nessuna parte. In una delle sue ultime interviste, Kristòf confessò di provare fastidio nel leggere le traduzioni dei suoi libri in ungherese (dopo la fuga, scrisse solo in francese) e, addirittura, che quando sua figlia la obbligava a parlare in ungherese al suo nipotino, lei temeva di allontanarlo da sé.

 

Torniamo a Szabó, che dall’Ungheria non scappò, e per anni si accontentò di fare l’insegnante e ficcare i romanzi nel cassetto e finì per rimproverarselo: “Sono rimasta un’osservatrice coi sensi di colpa”, scrisse nella prefazione di “Abigail”. È di Szabó il romanzo che spiega e sviscera la ragione di questo sradicamento, mostrandone la profondità – che arriva molto più giù del regime comunista e del trauma che rappresentò per la vita intellettuale del paese. “Per Elisa”, il suo ultimo lavoro, un’autobiografia romanzata che pubblicò nel 2002, ottantacinquenne, è la storia della sua infanzia e, insieme, del suo paese, del farsi nuovo di quell’identità frammentata che, oggi, il sovranismo scorda o – chissà – vuole strambamente rimborsare.

 

Il romanzo comincia nel 1920, nell’Ungheria post Trianon, il trattato con cui i paesi vincitori della Prima guerra mondiale si spartirono l’impero austro-ungarico, mutilandolo. Da 19 milioni, i cittadini ungheresi divennero 7. Le città si riempirono di profughi: ungheresi che, di colpo, tali non erano più. Molti di loro, in fughe affrettate e confuse, persero la vita o smarrirono le proprie famiglie. Così, le città si riempirono anche di orfani. “Da oggi lei è tua sorella” dicono il padre e la madre a Magdolna, la protagonista di “Per Elisa”, mettendole davanti Cecilia, una bambina terrorizzata e “primitiva”, e lei sbatte i piedi, viziata com’è, arrogante figlia unica che prima di andare a scuola già parla in latino con suo padre e insulta lo zio che le regala le bambole perché non sa cosa farsene.

 

Parecchio dopo, imparando ad amare quella bambina che incarna l’Ungheria fratturata per sempre, il paese che sa che dovrà sopportare per sempre di sentirsi estraneo ed espropriato in casa propria, Magdolna capirà che quell’adozione era stata “un atto di giustizia conciliatorio non del futuro, ma del passato”. “Per Elisa” è il romanzo di un paese intero che a un certo punto è costretto a dirsi: noi non potremo tornare noi, per questo ci scopriremo nel profugo, nell’orfano del Trianon che differisce da noi per colpa di una spartizione arbitraria. La consapevolezza di quella spartizione non è finita al governo, però è rimasta nei libri. L’anno scorso è stata una piccola casa editrice milanese-ungherese, Anfora edizioni, a ripubblicare “Per Elisa”. A proposito di Orbán a Milano.