Quando il cinema è una tortura

Mariarosa Mancuso
Un film di sei ore intitolato “Le mille e una notte”, diviso in tre volumi intitolati “Inquieto”, “Desolato”, “Incantato”. Non aspettavate altro, si sa

Il regista scappa dal set. La troupe lo insegue con le attrezzature. Perfino lo sceneggiatore si schioda dalla sedia (un po’ improbabile, meglio non averli sul set che si irritano appena uno cambia le battute, ma in un film d’autore tutto può succedere). Dilemma: come si possono raccontare stupide favole, quando il mondo in particolare e il Portogallo in generale vivono momenti brutti? E come si può pretendere che uno spettatore vada verso il cinema, se gli raccontiamo solo storie tristi? Per non parlare del regista, che si annoia pure lui: intervistare i disoccupati ai cantieri navali è cosa buona e giusta, ma sul set si possono fare cose più divertenti.

 

Si capisce che il tormento è vero, e del resto il dilemma se lo era già posto Preston Sturges nel film “I dimenticati” (era il lontano 1941, con gli attori Joel McCrea e Veronica Lake). Un regista di commedie sente il bisogno di impegnarsi per dare conforto agli americani che soffrono, quindi si veste da barbone e si intrufola tra i reietti della società (a distanza di sicurezza lo segue una roulotte che fornisce cibo buono, abiti puliti e all’occasione bende e disinfettanti). Scoprirà che i reietti della società preferiscono di gran lunga le commedie.

 

Noi che reietti della società non siamo possiamo concederci il lusso di vedere un film di sei ore intitolato “Le mille e una notte”, diviso in tre volumi intitolati “Inquieto”, “Desolato”, “Incantato”. Non aspettavate altro, si sa, e del resto non è giusto che questi piaceri li godiamo solo noi ai festival, senza neppure un panino di conforto. Sei ore e un regista portoghese di nome Miguel Gomes: cinematograficamente parlando, niente somiglia di più alla tortura.

 



 

Si chiamavano cineclub, erano scomodi e pulciosi, seguiva dibattito. A parte il dibattito e la scomodità, potete fare un tuffo nel passato armandovi di pazienza e guardando le avventure di questa Shéhérazade che arriva tardi nel film, e ancora più tardi compaiono atmosfere orientaleggianti. Si comincia ai cantieri navali: il regista ha sguinzagliato reporter in tutto il Portogallo, per scovare storie da mettere nel film. Le ha cercate tristi, ma siccome la vita di suo tende piuttosto al grottesco, ogni tanto qualcosa per risollevare l’animo dello spettatore si trova.

 

Però dovete tener presente, voi che i cineclub fortunatamente non li avete mai conosciuti, che uscire dalla sala con animo sollevato non era lo scopo. Si andava al cine per riflettere sui destini del mondo. Per prendere coscienza. Per discorrere di “specifico filmico”, frase che ancora provoca terrore, a distanza di anni, come la prima volta che l’abbiamo letta. Il regista di “Le mille e una notte” ha girato anche “Tabù”. Solo due ore, ma in bianco e nero. Con una sfinente voce fuori campo, e l’occhio del coccodrillo che tutto vede.

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