François Truffaut e Alfred Hitchcock

Le lezioni di cinema di Hitchcock, lo scultore del tempo

Mariarosa Mancuso
Sembra impossibile rimanere un’altra volta inchiodati all’intervista che François Truffaut (soli tre film all’attivo) fece ad Alfred Hitchcock (reduce dal successo di “Gli uccelli”).

Sembra impossibile rimanere un’altra volta inchiodati all’intervista che François Truffaut (soli tre film all’attivo) fece ad Alfred Hitchcock (reduce dal successo di “Gli uccelli”). L’abbiamo letta e riletta, l’abbiamo ascoltata alla radio (i nastri della lunga conversazione sono andati in onda su France Inter qualche anno fa, restano ascoltabili sul sito della radio fino al prossimo maggio). L’abbiamo citata e ricitata fino alla noia, anche nostra. Ma se è stato Hitchcock, ben interrogato da Truffaut, a dire cose definitive e mai superate sul cinema, la colpa va spartita almeno un po’ con loro.

 

Torna sull’intervista Kent Jones, sceneggiatore di “The Daily Show”, il telegiornale satirico reso famoso da Jon Stewart e ora condotto da Trevor Noah (32 anni, nato in Sudafrica: e c’è ancora chi osa contestare il sogno americano). Il sito Imdb gli attribuisce ottocento e rotte puntate dello show, oltre alla scrittura (spartita con Serge Toubiana) e alla regia del documentario “Hitchcock/Truffaut”. Lo si può vedere al cinema dal 4 al 6 aprile, le sale sono sul sito Nexo Digital.

 



 

Dichiara Wes Anderson, uno dei registi intervistati nel documentario: “Il mio non è più un libro. Avevo l’edizione tascabile e ormai sono fogli tenuti insieme da un elastico”. David Fincher, che voleva diventare regista già a sette anni, più grandicello trovò nell’intervista consigli tecnici mai più dimenticati. Hitchcock aveva cominciato con il cinema muto, sapeva raccontare con le immagini. Sapeva far battute, con le immagini. Sapeva lavorare di doppi sensi e insinuazioni, con le immagini. Bravura che ai registi nati con il sonoro sfugge (figuriamoci a quelli che usano come scorciatoia la voce fuori campo).

 

Ecco perché i suoi film non invecchiano. Ed ecco perché non invecchia neppure l’intervista, cominciata il 13 agosto del 1962 e durata una settimana intera, con i registi seduti al tavolo rotondo, entrambi vestiti di nero, e la polposa traduttrice in abito a fiori. Ripassiamo il bacio di “Notorious”, Ingrid Bergman e Cary Grant appiccicati per un tempo allora incredibilmente lungo. “Erano a disagio, ma non me ne importava nulla”, ricorda Hitchcock con il suo tono “gli attori sono bestiame”. E aggiunge: “A me interessava il ménage à trois dello spettatore con gli attori.

 

“Hitchcock è uno scultore del tempo”, sostiene Richard Linklater, che con il tempo ha giocato parecchio in “Boyhood” (il suo prossimo film, “Tutti vogliono qualcosa”, sarà in sala il 12 maggio). Vediamo chiavi, manette, corde in primissimo piano. Vediamo i trasparenti proiettati dietro gli attori, con intenzioni realistiche e risultati onirici. I commenti dei registi francesi – a cominciare da Olivier Assayas – tendono all’accademico. I registi americani sono piccoli fan che smontano le macchinine.

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