Same old Friends

Mariarosa Mancuso

La sit-com che ebbe la sua fortuna negli anni Novanta vive un revival difficile da credere, o quasi.

Quando i fan azzeccano la diagnosi, i critici dovrebbero fare un passo indietro. “‘Girls’ mostra la dura realtà della vita, ‘Friends’ è come osservare la vita attraverso le lenti di una sitcom”, scrive Kayla Yandoli. Insieme alla sorella Krystie ha messo a frutto una passione giovanile per “Friends” trasportandola su BuzzFeed, dove un post intitolato “72 verità sulla vita da ventenni che abbiamo imparato guardando ‘Friends’” incuriosisce quasi un milione di persone.

 

Torniamo alla diagnosi. E’ verità nota e universalmente riconosciuta che il realismo, come molto altro, è una convenzione. Nei film storici si comincia a vedere un po’ di sporcizia e di fango, ma gli sdentati ancora non sono comparsi, neanche i pitali svuotati dalle finestre. Quel che era considerato realista ai tempi di Gustave Flaubert non lo sarà più per James Joyce, che invitava a mettere sulla pagina la confusione che abbiamo in testa (nobilmente ribattezzata “monologo interiore”). Ma è la prima volta – ai nostri occhi almeno – che per realtà si intende una serie televisiva. E per fiction un’altra serie televisiva, in onda venti anni prima.

 

Abbiamo letto la frase di Kayla Yandoli in un articolo del New York Magazine firmato Adam Sternberg, “Friends Forever”. Ovvero: perché i ventenni di oggi, cresciuti con un vago concetto della televisione come apparecchio ma nell’età dell’abbondanza quanto a magnifiche serie disponibili, vanno su Netflix e si sparano i 236 episodi di “Friends”, per un totale di 88 ore? E magari fanno il gioco che facevano i coetanei degli anni 90: tu chi sei, tra Rachel, Monica, Phoebe, Joey, Chandler e Ross?


Estratti dalla serie tv "Friends"


 

La Warner Bros ha messo tra le attrazioni della visita allo studio il divano del caffè con l’insegna Central Perk (la mania dei nomi ridicoli si è un po’ persa, ma non abbastanza). Per vederlo c’è la coda, e quasi tutti si fanno scappare una lacrimuccia, dopo essersi accomodati sui cuscini. Sono gli spettatori nostalgici della serie, andata in onda dal 1994 al 2004. Un’èra geologica, in termini generazionali: nel 1994 si cominciavano a mandare le prime e-mail, nel 2004 cominciavano le iscrizioni a Facebook. Niente Tinder, niente WhatsApp, niente Twitter. La serie dovrebbe saper di muffa, dismessa come qualcosa che piaceva ai genitori. E invece no: piace perché sembra la versione addolcita della dura vita di oggi. Quando nessuno ormai va più a bar per incontrare gli amici, e se ci va tiene gli occhi incollati sullo smartphone.

 

Non siamo noi a dirlo, colti da un attacco del morbo di Michele Serra che in “Gli sdraiati” descrive una ragazza con gli occhi sul cellulare per vedere una serie, e non vuol saperne del tramonto (noi eravamo uguali, con il naso nei libri, pensando che il tramonto sarebbe tramontato anche l’indomani, o almeno alla fine del capitolo). A dirlo sono i ventenni interrogati dal giornalista, che spiegano così il loro amore per gli anni Novanta: “C’erano pochi conflitti, non c’era stato l’11 settembre, si fumava sugli aerei e al ristorante, Bill Clinton era alla Casa Bianca, il miglior presidente che gli Stati Uniti abbiano mai avuto”.

 

La figlia diciassettenne di Marta Kaufmann (creò la sitcom con David Crane) si è sentita chiedere da un’amica: “Hai mai visto una serie che si chiama ‘Friends’?”. Come se fosse l’ultima novità sfornata da Netflix. Come se fosse una serie girata oggi e ambientata nel passato, al pari di “Mad Men”: i maschi sono maschi, le femmine sono femmine, e tutti – o quasi – hanno la pelle bianca. Un passato ben riconoscibile, ma senza ansie da connessione.

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