L'arresto di Tommaso Inzerillo, nel luglio 2017 (foto LaPresse)

Nella nuova mafia stracciona non ci sono più i padrini di una volta

Riccardo Lo Verso

Gli Inzerillo, rientrati dall'America e poi di nuovo arrestati, si sono ridotti a litigare per il pizzo da imporre agli spaccaossa

Bene così, anzi malissimo. I mafiosi, gli scappati rientrati dall'America, si sporcano le mani in una storia tra le più maleodoranti della recente cronaca palermitana. E' il segno dei tempi, di una mafia che sprofonda perché braccata da magistrati e forze dell'ordine. Si scopre che i mafiosi litigano sul pizzo da imporre agli spaccaossa. Viene fuori l'immagine di una Cosa Nostra miserabile che regola la vita nelle borgate di una città dove i nuovi miserabili si mettono in fila per farsi spezzare gambe e braccia, truffare le assicurazioni e incassare gli indennizzi. Incidenti stradali finti, dolore vero.

 

Rosario Gambino, così ricostruiscono i poliziotti della squadra mobile, pretendeva duemila euro da uno spaccaossa. Glieli aveva chiesti con la più tradizionale delle scuse, l'organizzazione della festa rionale, una di quelle che ancora oggi colorano le borgate palermitane. Sarino Gambino, nipote di Joseph, il capo dei capi della mafia di New York, è tornato in città dopo avere scontato 25 anni di carcere per droga in America. E' lì che lo aveva scovato Giovanni Falcone. Erano gli anni della Pizza Connection, quando la mafia esportava eroina per un miliardo e mezzo di dollari da Palermo agli Stati Uniti, utilizzando una rete di pizzerie e ristoranti italiani.

 

Lo spaccaossa non aveva alcuna intenzione di pagare la tassa mafiosa a Gambino e si rivolse a Tommaso Inzerillo. Anche don Masino nella sua vita ha incrociato Falcone. Lo arrestarono negli anni Ottanta a Santo Domingo. Nel 2013 è stato tra i primi scappati a rientrare in Sicilia, quando ha finito di scontare una condanna a 10 anni. Aveva rischiato l'ergastolo. Non resse l'ipotesi che avesse organizzato la trappola per fare ammazzare i parenti Pietro e Antonio Inzerillo. La caccia all'uomo dei corleonesi di Totò Riina, durante la guerra di mafia degli anni Ottanta, si era spostata in America. Degli Inzerillo neppure il seme doveva rimanere. Il cadavere congelato di Pietro Inzerillo fu ritrovato nel portabagagli di una macchina parcheggiata davanti all'hotel Hilton di Mount Laurel. Antonino Inzerillo cercò vendetta e fu inghiottito dalla lupara bianca.

 

Magistrati e investigatori hanno seguito passo dopo passo gli scappati rientrati in Sicilia. Alcune settimane fa, l'inesorabile epilogo: sono di nuovo finiti tutti in carcere. Ed è braccandoli che è venuta fuori la storia degli spaccaossa, anni luce lontana dall'epopea dei boss americani diventati ricchi, ricchissimi. Per nascondere i soldi, così diceva Tommaso Inzerillo intercettato, li mettevano dentro i sacchi. Le nuove indagini patrimoniali si concentrano sui rapporti degli Inzerillo con il boss Frank Calì, assassinato nei mesi scorsi. Stavolta la mafia non c'entra. È stato un giovane, Anthony Comello, a investirlo davanti alla villa di Staten Island a New York perché Calì osteggiava la sua relazione con la nipote.

 

Nelle intercettazioni dell'inchiesta di Palermo sul mandamento di Passo di Rigano ci sono nomi e luoghi su cui si indaga. Bene così. Gli Inzerillo sono precipitati dal piedistallo dei piccioli, costretti a muoversi in una città dove la gente si mette in fila davanti a un maleodorante magazzino per farsi spezzare gambe e braccia a colpi di mazza. Non ci sono più i padrini di una volta, e c'è una città popolata da nuovi miserabili - sono centinaia le truffe scoperte - che affonda. Male, anzi malissimo.

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