Ansa

C'è manetta e manetta

Ilaria Salis, un caso Baraldini minore e con più ipocrisia. Il paese in cui il garantismo non c'è

Maurizio Crippa

L’ipocrisia della perp walk. Indignarsi per la "marcia del delinquente", cioè la pratica di trasferire l'arrestato da un luogo a un altro in pubblico, esposto ai flash dei fotografi e alla gogna dei reporter, in Italia vale solo per i nemici politici

C’è ammanettato e ammanettata, e anche se è pura ipocrisia, la distinzione è un dato di fatto della nostra mentalità politica, mediatica e sociale. Conosciamo, o non conosciamo, le possibili differenze culturali attive nella sfera giuridica dei diversi paesi, ma ovviamente la gogna medievale a cui è stata sottoposta Ilaria Salis, la cittadina italiana sotto processo in Ungheria con gravi accuse, non può in alcun modo pretendere il riparo del multiculturalismo presunto. A rientrare goffamente in un malinteso relativismo che odora di ipocrisia è invece l’atteggiamento di stampa e politica. Certo i tifosi delle manette à la Salvini. Ma anche tutti quelli che fanno surf su un caso che non esisterebbe se si trattasse di un altro paese straniero e di un altro governo italiano.


L’Italia è il paese in cui lo sdegno umanitario sollevato dal caso della donna in manette nel regime di Orbán – diventata “l’antifascista detenuta in Ungheria” per antonomasia, manco fosse Altiero Spinelli a Ventotene – non si è sentito altrettanto forte per i ragazzi impiccati in Iran alla media di 2,19 giustiziati al giorno nel 2023, secondo la contabilità degna di Antigone, questa sì, di Mariano Giustino di Radio radicale. Così come non si son riempite le piazze per le immagini di Navalny nel Gulag siberiano. Siamo del resto, e pur sempre, nel paese in cui il rientro di Cesare Battisti in Italia, sottobraccio a due agenti in una specie di perp walk populista, fu passerella oscena per il super giustizialista Salvini in coppia con Alfonso Bonafede, allora come ora costola della sinistra. 


Invece il caso di Ilaria Salis è stato subito trasformato in un nuovo caso Silvia Baraldini, solo più grottesco. Per chi ha la fortuna di poter non ricordare gli anni 70, Silvia Baraldini era una ex militante di estrema sinistra attiva negli Stati Uniti, aderente al Black Liberation Army, formazione violenta, e fu condannata a 43 anni per avere partecipato all’evasione  di un membro del gruppo condannato per omicidio e per complicità indiretta in una rapina in cui fu ucciso un poliziotto. Le pressioni da parte dell’intero arco costituzionale e mediatico della sinistra per farle scontare la pena in Italia durarono anni, persino una canzone di Guccini particolarmente lagnosa, finché nel 1999 gli Usa accettarono l’estradizione, seguita in Italia dai domiciliari per motivi di salute e infine dall’indulto del 2004. Per dire, del cittadino italiano Chico Forti, condannato all’ergastolo in Florida e che sta ancora là nonostante la Cedu gli riconosca il diritto di scontare la pena in Italia, non è mai importato nulla a nessuno. 


Il caso di Ilaria Salis – pur sempre accusata di un reato violento – rispetto al caso che fu di Baraldini è un tantino minore, ed esiste soltanto perché di mezzo c’è l’Ungheria di Orbán, e soprattutto il governo di Giorgia Meloni. Che la militante trentanovenne di un centro sociale di Monza sia detenuta perché accusata di essere andata in Ungheria per sprangare dei nazisti, e dunque possa ragionevolmente essere processata, non importa in questo caso a nessuno. E accusare “la giustizia alla ungherese” suona ipocrita, nell’Italia in cui lo stato della giustizia continua a essere un tabù. Ma nel paese in cui si suicida in carcere un detenuto alla settimana, per gli indignados conta solo che sia stata mostrata ammanettata. In Italia una legge del 1998 vieta di mostrare persone in manette (anche in immagini estere vengono pixelate). Con grave scorno, azzardiamo, di tutti quei paladini del giornalismo garantista dell’ultima ora e che  trent’anni fa  plaudirono agli schiavettoni di Enzo Carra portato in tribunale. La legge fu introdotta per quel caso, ce n’è una analoga in Francia.  Ma per esempio non in America, dove la perp walk dell’arrestato in ceppi è un rito di gogna collettiva che sopravvive dai secoli bui del puritanesimo europeo. Ma quando toccò a Dominique Strauss-Khan, o al mega truffatore Madoff, persino per il pubblico europeo si trattò di un giusto spettacolo e l’egalitarismo “law and order” che colpisce tutti allo stesso modo trasformò, per breve tempo, l’America in un santuario del diritto.  Non fece scandalo nella stampa giustizialista, così sensibile alle ubbìe dei magistrati, neppure Enzo Tortora in manette nel cortile di una caserma dei Carabinieri.  

Qualcuno dirà che sono passati quarant’anni. Ma francamente la civiltà giuridica in Italia non è migliorata. E per tornare alle carceri: c’è molto scandalo per la situazione di quelle ungheresi dell’amico di Meloni, e la Lega addirittura si rallegra che Salis possa essere detenuta là. Ma da parte di una sinistra che quando ha governato non ha mosso un dito per riformare le carceri non si è vista altrettanta attenzione. Nemmeno per il povero Cospito, utilizzato solo come pretesto per una polemica parlamentare. E si torna così, dal problema ipotetico delle diversità di tradizione giuridica, al problema generale dell’ipocrisia del sistema mediatico-politico italiano: le manette vanno bene per i nemici. Lo scandalo esiste solo per gli amici. 
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"