Theresa May (foto LaPresse)

Londra non sa rispondere alla domanda “che cosa vuoi?”, e questo dice tutto della Brexit

Paola Peduzzi

Mancano 102 giorni al divorzio tra il Regno Unito e la Ue, la May vuole ancora salvare il suo accordo, Corbyn presenta la mozione di sfiducia e gli altri dicono ancora una bugia

“Che cosa vuoi?”, hanno chiesto i leader europei a Theresa May all’ultimo vertice a Bruxelles la settimana scorsa, che cosa vuoi per davvero?, e lei non ha saputo rispondere. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, gliel’ha richiesto, Theresa che cosa vuoi?, e ancora la premier britannica non ha saputo dare una risposta precisa: voglio che passi il mio accordo a Westminster ma per farlo ho bisogno di qualche modifica, che sembra un favore piccolo da chiedere, e invece è un’enormità, perché le modifiche non sono cosmetiche, sono sostanziali, e cambiano nuovamente l’equazione impossibile che chiamiamo Brexit.

 

Che cosa vuoi? e dopo due anni di negoziati, dopo centinaia di documenti pubblicati e studiati, dopo linee rosse posizionate e superate e ridisegnate, dopo molti incontri andati male e alcuni riusciti, dopo una firma collettiva su un accordo, Theresa May non sa ancora rispondere. E anzi si arrabbia con il capo della Commissione, Jean-Claude Juncker, mi hai chiamato “nebolous” e lui quasi non capisce, non si ricorda che cosa ha detto, ma soprattutto pensa che, di tutte le cose dette, “nebulous” è la più educata, come fa la May a prendersela tanto?

 

    

Il fuorionda al vertice – lei arrabbiata, lui incredulo – è quasi comico, la May sembra la moglie che si lamenta con il marito che le fa fare brutta figura in pubblico, non mi tratti mai bene davanti agli altri, come ti permetti, e Juncker è il marito che non comprende nemmeno il tema della discussione, e d’istinto nega. “Che cosa vuoi?” è una domanda complicata e dolorosa, soprattutto quando è posta in un momento di emergenza, il tempo è finito e le alternative pure. Ma la risposta non si può trovare – ammesso che ci sia – continuando ad accarezzare speranze inesistenti: l’ultima è il “managed no deal”, un non accordo governato. Visto che non c’è un accordo – o meglio: c’è, ma il Parlamento britannico non lo vuole votare – bisogna gestire il non accordo, ma non esiste un non accordo governato né governabile. Se il Regno Unito decide di separarsi dall’Unione europea il 29 marzo senza un piano di divorzio condiviso – a questo serviva il negoziato – allora il Regno Unito diventerà un paese terzo fuori dall’Ue e fuori da ogni accordo precedentemente stipulato. E’ l’anno zero del Regno senza vincoli europei, e non può essere “governato”: per un governo ci vuole appunto un accordo, o peggio ancora, centinaia di nuovi accordi, perché il paradosso del “no deal” è che non soltanto sancisce il fallimento della politica e della mediazione, ma impone una serie infinita di microaccordi su ogni singolo dossier. Si possono ovviamente studiare piani di contenimento del rischio, ma se si va a vedere da vicino quel che stanno facendo le grandi aziende, finanziarie e no, si scoprirà che questi piani ci sono già e saranno attivi per lo più dal primo gennaio: ognuno per sé, diseguaglianze e disordine per tutti.

 

Il fallimento del negoziato sarà una decisione tutta inglese, anche se le conseguenze saranno pagate anche dagli europei, cioè da noi. Ma se la Brexit è stato un voto popolare, il voto dell’accordo sarà gestito dai rappresentanti del popolo, i parlamentari, nella settimana del 14 gennaio, e questo getta una luce inquietante su tutto il processo: il premier britannico non sa cosa vuole e non lo sa nemmeno il Parlamento britannico, per non parlare del leader dell’opposizione, Jeremy Corbyn, che di questa storia è l’eroe più negativo, perché lui, almeno, la possibilità di rispondere a “che cosa vuoi?” l’ha avuta tante volte e non l’ha sfruttata, vanificando il senso stesso della parola “opposizione”: negli ultimi giorni si è baloccato con una mozione di sfiducia alla May, ieri l’ha prima minacciata, poi ritirata e infine presentata. Lo spettacolo resta impietoso, la democrazia rappresentativa abdica al suo ruolo – gestire la volontà popolare nell’interesse del paese – ma non vuole nemmeno che sia il popolo a riprenderselo, quel ruolo, e continua a opporsi a un secondo referendum. C’è solo da sperare che si trovi una maggioranza parlamentare purchessia, la disperazione arriva quando non sai più che cosa augurarti e tra 102 giorni scatta il divorzio, ma peggio di una non risposta a “che cosa vuoi?” c’è soltanto non guardarti negli occhi, e dirti un’altra bugia.  

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi