Una scena del trailer di "Brexit: the Uncivil War"

La guerra incivile della Brexit non finirà, e al posto delle feste ci sarà il broncio

Paola Peduzzi

Chi ha ucciso il sogno della libertà del Regno Unito dall’Ue? La caccia all’assassino che non c’è: quel sogno non è mai stato vivo

Il 7 gennaio andrà in onda su Channel 4, nel Regno Unito, “Brexit: the Uncivil War”, un film su come è stato vinto il referendum del 2016 che ha un titolo perfetto – una guerra incivile – e una storia perfetta: c’è soltanto il trailer (quello di Hbo, che lo trasmetterà negli Stati Uniti il 19 gennaio, è il più lungo) ma i sostenitori della Brexit sostengono che il film è pieno di pregiudizi, e lo stesso sostengono gli anti Brexit. Non ci potrebbe essere sintesi migliore di quel che è stata la Brexit finora e di quel che sarà nei primi mesi del 2019, quando dovrà rivelare a tutti il suo vero volto, che sia quello del compromesso o quello del fallimento del negoziato poco importa: s’è consumata una guerra incivile nel Regno più civilizzato del mondo, e non è ancora finita. “Sappiamo chi ha vinto ma non sappiamo come ha vinto”, dice Benedict Cumberbatch – che interpreta Dominic Cummings, il capo di Vote Leave – prima di iniziare a scrivere appunti sulle porte come uno scienziato pazzo e visionario e a correre in bicicletta con il suo giubbetto giallo che oggi colpisce come un pugno (a luglio, quando è stato girato il film, non faceva lo stesso effetto) mentre gli vengono consegnati i nomi di tre milioni di elettori “che gli altri non sanno nemmeno che esistono”, dove gli altri sono i sostenitori del “remain”. Non sappiamo come è stato vinto il referendum, e due anni dopo siamo ancora qui ad accapigliarci fuori e dentro un film che si basa “su una storia incredibilmente vera”, con cui ancora non abbiamo imparato a fare i conti, neppure ora che, nella realtà, sta volgendo al termine.

  

“Chi ha ucciso la Brexit?”, chiede Tom Wainwright, responsabile della sezione inglese del magazine Economist, nello speciale “World in 2019” pubblicato questa settimana. Il Brexit day arriverà – è il 29 marzo del prossimo anno – e comunque vada la Gran Bretagna “non si ritroverà a festeggiare, ma avrà ancora il broncio”. Il broncio, l’insoddisfazione, la consapevolezza che “non era così che doveva andare” tiene insieme tutti, i fan della Brexit e gli anti Brexit: i primi hanno il broncio perché il compromesso su cui il governo di Londra ha lavorato per due anni tradisce le aspettative della vigilia; i secondi hanno il broncio perché questi due anni hanno dimostrato che il paese non troverà mai un accordo che sistemi la questione europea, come invece era stato promesso nel 2016, e allora che cosa lo facciamo a fare questo divorzio, torniamo a casa insieme, vivevamo già in camere separate con l’Europa, possiamo continuare a farlo, non era poi così male. Non c’è soluzione al broncio, e allora ci si distrae con il mistero: chi è l’assassino della Brexit?

   

I principali indiziati sono gli europei, cioè siamo noi, che nella retorica brexitara siamo stati paragonati niente meno che all’Unione sovietica, per questo nostro piglio autoritario e brutale con cui teniamo imprigionati gli stati membri e che ci ostiniamo a chiamare Unione europea. L’atteggiamento di Bruxelles e degli altri stati è cambiato nel tempo, prima c’era davvero un grande broncio, perché il 2016 ha segnato un capovolgimento del senso stesso della comunità europea: prima tutti volevano entrare e ci stringevamo per fare posto, e ora invece gli inglesi, i privilegiati inglesi con il rebate e la sterlina, vogliono andarsene. Un affronto storico, indicibile, inaccettabile, e così a lungo noi 27 ci siamo uniti come ex mogli inferocite e abbiamo cercato di rendere impossibile la vita al Regno traditore. Non è stato difficile, e questo è l’alibi più forte degli europei: i quattro pilastri che sorreggono il progetto europeo, le famose “quattro libertà”, non sono una fissazione recente e rancorosa, ma un principio noto ed esplicito fin dal 1957, e lo stesso vale per la gestione della Irlanda del nord, che si è rivelata così complicata, il cui status è regolato da un accordo che risale a vent’anni fa. L’Europa non ha ucciso la Brexit, ha fatto valere il suo principio fondativo, e non poteva fare diversamente, altrimenti sarebbe implosa e l’effetto contagio che si auguravano i brexiteers e i loro alleati (che sono i populisti europei e Donald Trump) sarebbe diventato incontenibile. L’alibi è perfetto e anzi salvifico: in questo 2018 pieno di traumi, ancora più pesanti se si pensa che questo era, nelle previsioni, l’anno del riscatto europeo, la Brexit è diventata la dimostrazione pratica di quanto sia poco conveniente – non giusto né sbagliato, non c’entrano le ideologie – stare un passo fuori dal consesso europeo (a fare affari con il capriccioso in chief che sta alla Casa Bianca poi: auguri).

  

L’assassino vive dunque nel Regno Unito. E’ stato l’establishment così straordinariamente contrario alla Brexit da scatenare un clima da fine del mondo imminente? Gli anti Brexit non si sono mai fatti una ragione dell’esito del referendum del 2016 e hanno messo in dubbio la volontà popolare fin dal primo giorno, cercando di contenerla con le istituzioni e con ogni ostruzionismo possibile: ma non sono riusciti a fermarla, la Brexit. Anzi, come unica via di fuga oggi propongono di nuovo l’esercizio della volontà popolare – il secondo referendum – con la speranza che al prossimo giro si riveli di segno opposto. Ma non c’è possibilità che questa operazione, se mai si farà, ponga fine alla guerra incivile, anzi, il ritorno alla civiltà semmai si allontana. L’establishment avrebbe voluto ucciderla, la Brexit, ma non è riuscito a farlo.

  

Il governo di Theresa May rischia di risultare come l’assassino della Brexit. Un errore, quello più grande, è da addebitare proprio alla premier britannica: ha iniziato i negoziati senza sapere quale accordo finale avrebbe voluto, e così ha buttato via buona parte del tempo a disposizione e ha dovuto gestire le pressioni di tutti, dei falchi brexiteers, dei moderati conservatori, dell’opposizione laburista, straordinariamente opportunista ancorché senza un’idea di accordo da presentare come alternativa. In questo processo, la May ha perso ministri, consiglieri, alleati, maggioranza politica e credibilità: se non stessimo cercando di risolvere il mistero della Brexit, diremmo che più che altro questa è la storia di un tentato suicidio. Ma la premier vuole ancora giocarsi le sue chance di salvezza, in Parlamento a metà gennaio: l’unico accordo, compromissorio ma siglato dall’Ue, al momento è il suo, se la Brexit si vuole salvare, almeno come facciata, l’unica strada è la sua.

  

Ma come dice il giornalista dell’Economist, e come dicono molti commentatori con lui, la Brexit non è stata uccisa, la Brexit per come era stata presentata – un risparmio, un rilancio, una nuova vita di libertà – non è mai stata viva. Non è mai esistita. La guerra incivile non finirà nemmeno nel 2019, ma non c’è alcun bottino da contendersi, perché “riprendere in mano il controllo” significa rinunciare a benessere e a potere decisionale collettivo. Ed ecco la morale di questa storia incredibilmente vera.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi