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Babbo Natale Juncker

David Carretta

Il presidente della Commissione ci ha regalato un altro compromesso, anche a costo di disfare l'Unione europea

Juncker è Juncker, un simpatico vecchio politico del secolo scorso, con la testa democristiana e il cuore socialdemocratico, gran fumatore e bevitore con problemi di salute, con una visione antiquata e germanocentrica dell’Europa, ma sempre pronto, sempre solerte, a fare compromessi pragmatici per tirare fuori dai guai amici e rivali in nome dell’interesse comune. Il presidente della Commissione europea lo ha dimostrato ancora una volta questa settimana, quando ha deciso di dare la sua benedizione all’accordo con l’Italia sulla manovra di bilancio 2019. Jean-Claude Junker, nei suoi quattro anni di mandato, ha cercato in ogni modo di evitare di sanzionare Francia, Italia, Spagna e Portogallo per le ripetute violazioni del Patto di stabilità e crescita. In questo è stato determinatissimo. E a meno di un anno dalla sua partenza dal Berlaymont, la sede dell’esecutivo comunitario, a meno di sei mesi dalle elezioni europee, sulle quali incombe la minaccia dei partiti antieuropei, a tre mesi dalla Brexit, che potrebbe diventare una catastrofe economica in caso di uscita senza accordo, Juncker non aveva alcuna voglia di premere il bottone nucleare di una procedura per deficit eccessivo contro il governo populista di un paese fondatore che, con il suo debito al 131 per cento del pil, trotterella sul bordo di una crisi finanziaria. In gioco c’è tutto quello per cui Juncker ha lavorato e vissuto, ci sono la sua zona euro e la sua Unione europea, che ha contribuito a plasmare da trent’anni a questa parte, prima come ministro delle Finanze del Lussemburgo, poi come primo ministro del Gran Ducato, passando per la presidenza dell’Eurogruppo e infine della Commissione. Come si faceva negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, Juncker ha preso il telefono in mano (ancora oggi continua a usare un vecchio Nokia), ha organizzato un paio di incontri faccia a faccia (al vertice del G20 di Buenos Aires e nel suo ufficio al 13° piano del Berlaymont a Bruxelles), ha mandato i suoi emissari a negoziare (in particolare la colomba francese, Pierre Moscovici) e alla fine ha persuaso il premier italiano, Giuseppe Conte, a fare un passo indietro. Nell’operazione di persuasione, Juncker non ha esitato a fare concessioni, è questo il suo metodo, correndo anche il rischio di violare alcune regole e danneggiare la credibilità della sua Commissione. Il pragmatismo oggi potrebbe avere ripercussioni enormi domani: i patti con il diavolo populista affosseranno l’Ue, compromettendo valori, principi e istituzioni comuni, incentivando gli stati a fare un po’ come pare a loro? Questa è la domanda oggi, e questa rischia di diventare l’eredità di Juncker.

   


Ha lo stile di un politico del Novecento, un Nokia per ogni conversazione e una dedizione indefessa a evitare gli scontri


    

Ma facciamo un passo indietro. “Io amo l’Italia”, ripete spesso il presidente della Commissione, esaltando il “genio” del popolo italiano, sempre pronto a trovare un espediente per cavarsi dai guai. “Ho sempre avuto con gli italiani una relazione particolare perché quando ero giovane nella mia fase di pre pubertà sono cresciuto con degli amici italiani”, ha raccontato Juncker il 16 ottobre in un’intervista a Radio Radicale e ad altri media italiani. “Nel sud profondo del Lussemburgo, c’era un’immigrazione italiana pronunciata perché gli operai della siderurgia e nel settore della costruzione erano degli italiani. Il mio paese d’origine deve molto all’apporto degli italiani, perché hanno contribuito molto più di altri alla ricchezza del Lussemburgo. Ecco perché ho sempre amato gli italiani”. Juncker ha svelato che, quando era ragazzino, i suoi genitori subaffittavamo la mansarda a “Vittorio, un operaio italiano, che abitava lì, lavorava nel settore delle costruzioni, e ogni sera quando tornava a casa mi educava. Mi educava più di mio padre”. Le difficoltà degli immigrati italiani in Lussemburgo, le chiacchierate in una soffitta fumosa davanti a un fiasco di vino, i racconti dei mille lavoretti per tirare a campare, vederli partire e tornare una volta l’anno con l’annuncio di un nuovo figlio in arrivo, l’ammirazione per la capacità di arrangiarsi: probabilmente nascono da lì alcuni elementi centrali del carattere personale e politico di Juncker. La furbizia democristiana, l’attenzione al sociale, la sua concezione della politica come arte del possibile e scienza del relativo (così la definiva Otto von Bismarck) hanno accompagnato la sua carriera quarantennale.

   


La grande abilità di Juncker è trovare scappatoie per rinviare i problemi. Che poi però tornano, e colpiscono durissimo


 

Lo “junckerismo” è stato applicato meticolosamente con il governo gialloverde di Roma. Dopo mesi di insulti e attacchi personali da parte di Matteo Salvini, Luigi Di Maio e le loro truppe, una volta presentata una manovra del tutto fuori dalle regole che metteva sempre più a rischio l’Italia sui mercati, invece di lanciarsi in una rappresaglia vendicativa, Juncker ha messo da parte i rancori e si è messo a negoziare alternando messaggi di fermezza e compromesso. La Commissione è pronta alla procedura ma vuole il “dialogo” con il governo populista: “In Italia ciò che ci interessa sono i saldi. Non tocca a noi commentare le decisioni sovrane e indipendenti del governo italiano” su reddito di cittadinanza e retromarcia sulle pensioni, ha detto Juncker il 16 ottobre sempre a Radio Radicale, nell’intervista che ha dato il via al balletto negoziale di oltre due mesi. Il risultato si è visto mercoledì. Conte ha accettato di correggere la manovra per 10 miliardi, a cui si aggiungono 2 miliardi congelati e clausole di salvaguardia che potrebbero portare l’iva al 26,5 per cento in un paio d’anni. In cambio ha portato a casa la possibilità di rivendicare le due misure faro del governo, più un po’ di flessibilità per i dissesti idrogeologici. Se non ci saranno incidenti in Parlamento o sui mercati, la tregua tra la Commissione e l’Italia potrà durare almeno fino alle elezioni europee di maggio.

  


La grande abilità di Juncker è trovare scappatoie per rinviare i problemi. Che poi però tornano, e colpiscono durissimo


   

Alcuni junckerologi avevano predetto questo esito sin dall’inizio del braccio di ferro con il governo Conte. Contrariamente all’immagine caricaturale che viene presentata di lui in Italia, Juncker non è un falco dell’austerità. Basta ripercorrere la sua storia di premier lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo per scoprire che, molto più di una volta, ha voluto chiudere gli occhi di fronte alle peggiori violazioni delle regole. Compreso il “peccato originale” del 2003, quando fu permesso a Germania e Francia di scampare a sanzioni malgrado il superamento protratto del tetto del 3 per cento dei deficit. In quell’occasione due personaggi giocarono un ruolo centrale per il condono nei confronti di Berlino e Parigi: Giulio Tremonti, che aveva la presidenza di turno dell’Ecofin (e visti i conti italiani aveva interesse a creare un precedente), e Jean-Claude Juncker, che con i pochi voti del suo piccolo Lussemburgo fu decisivo tra i ministri delle Finanze nel bocciare le sanzioni. “Sarebbe estremamente difficile in Olanda, Belgio, Lussemburgo e Austria tornare a un ritmo economico che promuove crescita e posti di lavoro se le grandi economie dell’Europa – l’Italia ma ancor di più Germania e Francia – non ripartono”, si giustificò Juncker il 23 settembre 2003: “Non possiamo in un momento di rallentamento economico totale costringere i paesi sia a tagliare gli investimenti sia a ridurre ulteriormente la quota di consumi rispetto al pil. Questo peggiorerebbe il rallentamento economico”. La morale del junckerismo versione 2003 è simile a quella della versione 2018. “Dobbiamo valutare ciò che è più importante: se applicare gli standard teoretici del Patto di stabilità, che hanno la loro validità e giustificazione, fino all’ultimo punto percentuale e all’ultimo millimetro, oppure adottare un approccio di lungo periodo a favore sia della stabilità sia della crescita”. Nel caso della legge di bilancio 2019 dell’Italia il “millimetro” che Juncker ha scelto di non andare a guardare vale 15 miliardi di euro, che sia aggiungono agli oltre 30 miliardi di flessibilità formalmente concessi e ad altri 30 miliardi che sono stati informalmente scontati dal 2015 in poi.

   


L’amore per l’Italia è cominciato quando era ragazzo e frequentava molti immigrati che facevano gli operai in Lussemburgo


 

In 20 anni di esistenza dell’euro, Juncker ha dato un grosso contributo nel minare la credibilità del Patto di stabilità e, per alcuni aspetti, anche nel contribuire a porre le basi della grande crisi del debito sovrano del 2010-2012. A cominciare dalla falsificazione dei dati sui conti pubblici da parte della Grecia, durante i suoi anni come presidente dell’Eurogurppo. “Nel periodo precedente alla crisi Juncker ha consapevolmente chiuso gli occhi di fronte alla manipolazione dei conti pubblici da parte del governo di Atene”, dice al Foglio un ex alto funzionario. Tra il 2008 e il 2010 il ministero del Tesoro austriaco si accorse dei trucchetti contabili del governo greco e inviò un rapporto ai funzionari dell’Eurogruppo che lavoravano sotto la direzione di Juncker. All’epoca anche alcuni funzionari della Direzione generale Economia e Finanza (Ecfin) della Commissione europea lanciarono l’allarme. Ma Juncker lasciò correre, fino a quando non fu costretto ad affrontare la bancarotta greca. Non è un caso se, finita l’emergenza del 2010-2012, la Germania scelse di sostituirlo alla testa dell’Eurogruppo con l’olandese Jeroen Dijsselbloem. Ma questo non è bastato per impedire a Juncker di immischiarsi nuovamente negli affari greci. Diventato presidente della Commissione nel 2015, si batté contro i falchi europei e il Fondo monetario internazionale per salvare Alexis Tsipras da se stesso e dal suo ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis. Per evitare l’uscita della Grecia dall’euro e dare un po’ di respiro a Tsipras non ha esitato in tutti questi anni a chiedere ai suoi funzionari di maneggiare allegramente le analisi sulla sostenibilità del debito e le previsioni sull’avanzo primario di Atene. Ma la Grecia è lungi dall’essere l'unico caso di magnanimità junckeriana. “Alla Francia non smetto di concedere deroghe”, disse Juncker nel 2016 dopo l’ennesimo rinvio del pareggio di bilancio di Parigi. Perché? Perché la Francia “è la Francia”, rispose il presidente della Commissione, come oggi risponde che “l’Italia è l’Italia”. Sempre nel 2016, nonostante il mancato rispetto degli impegni di Spagna e Portogallo, Juncker trovò un trucchetto per evitare di rendere effettive le sanzioni contro Madrid e Lisbona: proporre una multa di 0 (zero) euro e fare melina sulla sospensione dei fondi strutturali.

  


   Lo “junckerismo” è nato nel 2003, con la prima grande concessione a Francia e Germania. Non è cambiato poi molto


  

Juncker è Juncker e il compromesso pragmatico è stato una caratteristica di tutto il suo mandato come presidente della Commissione anche su altri dossier esistenziali per l’Ue, dalla Brexit alla deriva dei paesi dell’est su democrazia e stato di diritto. La gestione ordinaria dell’esecutivo comunitaria è affidata al suo fidatissimo capogabinetto Martin Selmayer (nel frattempo promosso a segretario generale dell’esecutivo comunitario), mentre Juncker dal suo ufficio del Berlaymont telefona a capi di stato e di governo per discutere di massimi sistemi o piccoli accordi tra amici, come se non avesse mai abbandonato la sua funzione di primo ministro. La filosofia della sua Commissione “politica” è di non disturbare chi è ai comandi negli stati membri: se c’è un problema, si può trovare una soluzione. E così al fine giurista Selmayr è stato anche affidato il compito di trovare un trucchetto giuridico o contabile per arrangiare le cose. E’ accaduto con la Germania per far pagare soltanto agli stranieri i pedaggi autostradali (l’Austria ha fatto ricorso davanti alla Corte europea contro la decisione della Commissione di autorizzare Berlino a discriminare i non residenti). E’ accaduto con Polonia e Ungheria, trascinando all’infinito il dialogo sullo stato di diritto (salvo dover constatare che non ha prodotto alcun risultato e dover attivare l’articolo 7). E’ accaduto con il Regno Unito di David Cameron a cui era stato concesso il “freno di emergenza” sui lavoratori europei per vincere il referendum Brexit (che è stato perso). E’ accaduto la scorsa estate per l’industria dell’auto tedesca, quando Juncker è volato a Washington convincendo Donald Trump che l’Ue avrebbe aperto alla soia americana (Juncker è “un tipo tosto”, ha detto Trump, che però si sta accorgendo che l’aumento di esportazioni di soia è dovuto al mercato e non all’Ue). La grande abilità di Juncker è trovare una scappatoia che permette di rinviare il problema, lo scontro, lo stallo. Poi però il problema torna a colpire più forte, a volte in modo devastante. Sul Patto di stabilità non sono solo i giornali tedeschi o olandesi a dire che la Commissione ha perso quel poco di credibilità che le restava. “Alcuni possono violare le regole a un costo bassissimo”, è stato il commento del mediterraneo El Mundo. La fiducia tra stati membri è ai minimi. L’Ue poco a poco si disfa. E, malgrado il compromesso sulla manovra, neanche l’Italia sta tanto bene. La Commissione ha dato il via libera a una legge di bilancio che danneggia crescita e sostenibilità del debito. Il conto è stato rinviato ai prossimi due anni quando questo o un altro governo dovrà trovare 52 miliardi, o molto di più, se i mercati faranno le pulci all’accordo firmato Juncker.