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Opinioni di un autore

I premi alla carriera, l'autorità, il denaro, l'amore per il cinema. Luca Guadagnino si racconta

Carlo Antonelli

Le riflessioni del vincitore del riconoscimento, legato alle Giornate degli Autori, al Festival del Cinema di Venezia e dedicato quest'anno a Andrea Purgatori

Luca Guadagnino domani sarà insignito del Premio speciale alla Carriera dalla Siae (la Società italiana degli autori ed editori, ça va sans dire) in Sala Volpi, all’interno del Casinò del Lido di Venezia. Il premio – dedicato quest’anno al compianto giornalista Andrea Purgatori – è legato alle Giornate degli Autori, ormai storica sezione del Festival del Cinema. Entrambe le cornici – la Siae e le Giornate –  ruotano intorno a uno dei concetti più difficili, oggi come oggi: l’idea stessa di “autore” (e di “autrice”, occorre correggere tutto).

Ho avuto il privilegio di incontrare Guadagnino nel giardino di uno storico hotel collinare – c’è persino un maneggio – poco fuori Alba, in Piemonte, vicino a casa sua. Ci siamo seduti su poltrone sprofondanti, con un bel bicchiere di barolo. L’ho accompagnato per un’ora a riflettere proprio su questo nodo centrale del riconoscimento che gli è stato dedicato: l’essere “autori". “Beh, intanto il problema della autorialità è un problema che ho visto davanti ai miei occhi da quando ho cominciato”, parte al trotto subito il grande regista. “Nel senso che io mi sono formato in una condizione, diciamo, di cinefilia. Non ho fatto scuole di cinema e non ho frequentato set cinematografici prima di cominciare. Ho iniziato a guardare al cinema da bambino con curiosità e, piano piano, ho cominciato da giovanissimo a capire come dare a questa mia passione onnivora una sistematizzazione, che mi ha portato a scoprire – ancora prima di studiare Storia del cinema all’università – il meccanismo di come funzionano le storie visuali. E sicuramente quando mi sono imbattuto nella Nouvelle Vague e in tutte le nuove onde che andavano in quegli anni, dalla fine degli anni 50-anni 60 e gli anni 70 in giro per il mondo, e in quella che poi loro avevano battezzato come la politique des auteurs, ho trovato un punto di vista che mi ha colpito, sorpreso e convinto più di ogni altro: ovvero che l’autore di un film è colui che lo dirige, è il regista. Alfred Hitchcock non ha mai firmato un copione dei suoi film della sua intera esistenza, e con il suo eclettismo ha utilizzato diversi sistemi testuali, dai romanzi alla cronaca a storie originali. Questo in poche parole ci dice che l’autore del film non è l’autore della storia. Mi capisce? Spero di sì”.

Tutto d’un tratto – guardando fuori una campagna che sembra quella appena fuori Parigi – mi vengono in mente per fortuna due persone centrali della cultura proprio di quel periodo francese, Roland Barthes e Michel Foucault, che si opponevano proprio all’idea di autorialità. Barthes dice, riassumendo: questa faccenda è ridicola, perché l’autore è semplicemente un tessitore di fili costruiti da altri. “Certo, questa è una posizione anti autoritaria, libertaria, intelligentemente casualistica, che vuole vedere accadere le cose per caso, e che è anche possibile. Io non la rifiuto. Tuttavia – ci pensa bene – se guardiamo al complesso delle filmografie di registi che possono piacerci, c’è un sistema di segni che torna continuamente e che saranno stati anche in parte tessuti dai loro collaboratori, ma che riconducono sempre e comunque tutto a un punto di vista molto forte. In generale, tutto questo, se lo vediamo in modo più ampio, ha a che fare col canone. Quante versioni di una storia abbiamo visto messe in opera lirica da 600 anni? Quante versioni di fiabe si sono riscritte nel corso dei secoli?”. 

Nella sua etimologia, lei sa benissimo che autore è colui che produce crescita, cioè colui che fa in modo che la società evolva. L’autore, si direbbe, ha doveri civili e compiti politici. Lei ritiene che il suo lavoro, che viene premiato per l’eccellenza della carriera all’età di 62 anni… “52, faccia attenzione”. Scusi. Lei ritiene di aver agito in senso politico? “Mi piace l’idea di pensarlo e forse sono semplicemente illuso. Mi piace coltivare l’idea che quello che ho fatto siano prototipi e che con quei prototipi abbia creato la possibilità di generare nuove forme di immaginario. Magari sono pazzo”. 

Un altro problema è anche quello che prendere un premio alla carriera a 62 anni.. “52, basta!”. Mi scusi ancora. Questo la porta accidentalmente a essere definito “maestro”. “Allora. Intanto io ho tendenzialmente sempre rifiutato retrospettive o di ricevere premi alla carriera fino a quando l’anno scorso mi è stato proposto un premio alla carriera al Festival di Göteborg in Svezia, che è una città a cui sono legatissimo per ragioni personali. Accettato la prima volta, ho dovuto anche accettare le contraddizioni dentro di me. Quindi se l’occasione mi onora profondamente, allora io accetto. Questa, ci mancherebbe, è assolutamente l’occasione – io faccio parte della Siae dal 2007 e sono orgogliosamente membro della Siae – e per di più il premio è intitolato ad Andrea Purgatori, che è persona che ho conosciuto e che stimavo moltissimo: un giornalista, un uomo con una curiosità e con un’apertura all’altro encomiabili. E uno straordinario sceneggiatore. Questo mi commuove”. 

Viriamo allora la conversazione sull’intelligenza artificiale. In questo momento sta portando allo sciopero degli sceneggiatori e degli attori americani. M’interrompe, meno morbido. “Ritengo che le lotte della Wga e della Sag siano lotte completamente sacrosante che appoggio al 100 per cento”. 
In ritardo mi viene in mente come la parola “maestro” non si possa applicare alle donne. Tant’è che sta per essere ripubblicato in Francia un vecchio libro femminista del 1981 che parla sagacemente di “Old Mistresses”. Dice: ci sono i vecchi maestri ma non c’è altro modo di definire le signore che fanno lo stesso lavoro se non come vecchie meretrici. Perché così viene fuori in inglese! Old masters, old mistresses. “E in francese è maîtresse. Beh, è un punto di forza, l’ambiguità della parola maîtresse rispetto alla nettezza banale della parola maestro, no? La mai abbastanza compianta Lea Vergine diceva una cosa straordinaria: l’atto della body art non è un atto di violenza o di autoviolenza, ma è un atto d’amore. All’autorità e alla dimensione verticistica o delle insicurezze dei maestri, bisogna preferire sempre la profondità dell’amore”. 

Tiro fuori il discorso dei guadagni, così, dal nulla. Che tipo di gioia le produce ricevere il rendiconto semestrale? Sorprese? Delusioni? Una sorta di senso di eccitazione nello scartare la busta, come fosse un torroncino… “E sempre una cosa a cui io non penso. Non mi ricordo mai che potrebbero arrivare e quando arrivano i dividendi dei diritti d’autore, che sono nel caso mio modesti, non avendo io un cursus di cinema che possa essere così popolare da essere programmato continuamente nei canali della televisione. E comunque è sempre una piacevole sorpresa inaspettata. Io sono ancora oggi molto sorpreso e molto meravigliato, molto deliziato e molto commosso dal fatto che per fare ciò che faccio – e che farei in ogni caso – venga pagato. Si figuri quando ricevo i dividendi. Facendo un piccolo bilancio, l’idea che oggi alla mia età, diciamo non senile, abbia vissuto negli ultimi tre decenni guadagnando dal fare cinema è sorprendente per me. Mai l’avrei detto, perché per me è una cosa esistenziale che avrei fatto e che farei a prescindere”. 

La madre di un mio amico, tedesca, un giorno gli disse, quando lui aveva trentun’anni: “Secondo me, in questo momento, se disgraziatamente tu dovessi morire, sarei felice lo stesso, perché hai fatto solo e sempre ciò che volevi fare”. Fulmineo ribatte. “Invece mio padre, fino a quando ricevetti la nomination per il miglior film con ‘Call Me by Your Name’ agli Academy Awards, mi chiedeva sempre perché non pensassi a riprendere la carriera universitaria, che era una buona idea per la sicurezza che avrebbe dato – in realtà a lui – vedermi diventare un professore universitario. Sono due tipi di Italie che si confrontano. Io appartengo all’Italia della madre tedesca. Però ho sempre trovato molto divertente l’insicurezza di mio padre rispetto a quello che sto facendo”. Segue una pausa lunghissima. Rimaniamo sulle poltrone, mentre sta calando la sera, ci dividiamo un ultimo bonet, in un silenzio infinito, finché non arriva la sera. Lo interrompo, ormai nel buio. Quindi lei potrebbe morire felice, dopo questo premio alla carriera, anche sabato notte, nella sua stanza? “Sì, sì. Io posso morire anche adesso, assolutamente”.

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