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Uno spaccato

Ritratto italiano. La magia del Festival del Cinema di Venezia e la speranza della rinascita

Andrea Minuz

Gian Piero Brunetta racconta l'evento cinematografico del Lido. Le star, Fellini stroncato, il pantano del ’68 e la ripresa. Che dura ancora oggi

Quante vicende che si intrecciano in questa monumentale e già imprescindibile storia del Festival di Venezia di Gian Piero Brunetta. Il Lido e la rivalità con Cannes, i film, i motoscafi, le star, le feste, la politica, gli scandali, i revival, le macchinazioni e gli intrighi per le nomine peggio che a Palazzo Chigi, e poi le risse cinefile e le giurie mitologiche: Moravia e Susan Sontag, Günther Grass e Erica Jong, o Mario Praz, Edgar Morin, Calvino e Peter Bogdanovich. Una galleria di immagini memorabili: Venezia ’67, in una piazza San Marco gremita di gente, Charlie Chaplin appollaiato su un palchetto illuminato si commuove alla proiezione di “Luci della ribalta”. Oppure Winston Churchill, applaudito come una star di Hollywood nell’edizione del ’51, la folla entusiasta che rompe i cordoni della polizia, lui rifiuta il sostegno di un braccio per salire le scale del Palazzo del cinema: “I’m still young”. E’ una storia che meritava di essere raccontata, passo dopo passo, edizione dopo edizione, in un’impresa in effetti mai tentata sinora.

 

Con l'esposizione del '32, Giuseppe Volpi voleva rimuovere l'immagine "mortifera" che la letteratura aveva cucito addosso a Venezia

 

Storico del cinema italiano, autorità impareggiabile in materia, Brunetta ha messo mano a fondi, archivi, faldoni di giornali, riviste, memorie e ricordi personali sfoderando un omaggio ai primi novant’anni della Mostra che è anche un grande romanzo di formazione (“La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, 1932-2022”, pubblicato da Marsilio in elegante volumone di milleduecento pagine). Un pezzo di storia d’Italia, dove le mode, il costume, le stagioni politiche e culturali si specchiano nelle acque della laguna. La saldatura tra Festival e paese abbraccia fascismo e antifascismo, monarchia e repubblica, passando dentro le grandi stagioni dell’alienazione, gli sdilinquimenti per il cinema orientale, le biennali rosse di Carlo Ripa di Meana, i fischi ai film “Medusa” quando scende in campo il Cav., e un autolesionistico “sessantotto veneziano”, capolavoro di dilettantismo e cialtroneria politica, col cinema “contro il capitale, al servizio della rivoluzione”, quindi occupazione del Lido, picchetti, botte, mobilitazione assembleare, in una pantomima immortalata da Brunetta dentro uno dei capitoli più belli del libro (spunta fuori anche un Arbasino d’annata, buono per tutte le stagioni: “La contestazione all’italiana è nata immediatamente pecoreccia. Imitazione mortificante e ridicola di modelli di comportamento stranieri e seri, da cui la distinguono ahimè troppi connotati. Non viene eseguita da giovani. No. Nella nostra variante pecoreccia, viene condotta da anziani, o da anzianotti a cui quelle stesse istituzioni sono sempre andate benissimo da decenni… andavano ancora benissimo mezz’ora fa”). 

 

La Mostra di Venezia è allora anche palcoscenico di tic e pulsioni nazionali. Come una versione arthouse, impegnata e snob di Sanremo. Ma cominciamo dall’inizio: perché Venezia? E perché il Lido? Dietro “la madre di tutti i Festival”, modello da imitare in tutto il mondo quando ancora non c’era una sagra del cinema in ogni borgo, c’è l’idea di “Grande Venezia” inseguita da Giuseppe Volpi conte di Misurata, finanziare, industriale, fondatore della società Adriatica di elettricità, ideatore del porto di Marghera, poi presidente di Confindustria tra il ’34 e il ’43 e naturalmente più volte direttore della Biennale. La “I esposizione internazionale d’arte cinematografica” rientra insomma in un ben più “vaste programme”. Come ricorda Brunetta, Volpi voleva rimuovere l’immagine “mortifera” che la letteratura aveva cucito addosso a Venezia dopo la Prima guerra mondiale, in una lunga scia di emuli di Gustav Aschenbach che tra spleen e tormenti dell’anima si lasciano morire all’Hotel des Bains e dintorni. Ma il merito va anche all’imprenditore Nicolò Spada. Nel giro di un paio anni, tra il 1906 e il 1908, Spada costruisce l’Hotel Excelsior, “una struttura extralusso, pendant dell’Hotel des Bains, nato nel 1900, in cui si fondono vari stili, e che si offre dal primo momento come polo d’attrazione per l’aristocrazia di tutto il mondo”. L’architetto è Giovanni Sardi, vari alberghi veneziani alle spalle, tra cui l’hotel Bauer-Grünwald che spunta sul Canal Grande, in un trionfo di spirito gotico e eclettismo veneto-bizantino. Nel 1926, all’Excelsior si inaugura lo “Chez Vous”, locale notturno lanciato come “il dancing più elegante del mondo”. E poi, sempre lì nei paraggi, un golf-club a nove buche, “realizzato a tempo di record, grazie alla concessione militare ottenuta senza problemi ancora da Volpi, per compiacere il magnate e amico americano Henry Ford”. 
Il cinema si infila così in questo grande momento di passaggio dell’immaginario veneziano dalla decadenza romantica alla modernità industriale e cosmopolita, da Thomas Mann alle feste sfrenate organizzate da Elsa Maxwell tra Venezia e il Lido.

 

Le Mostre degli anni 30: la proiezione di "Grand Hotel" con la Garbo, il Duce a petto nudo, il culto di Leni Riefenstahl, star del Terzo Reich

 

Brunetta riprende un passaggio dal pezzo di lancio del Tevere, il quotidiano fascistissimo di Telesio Interlandi, che spiegava in sintesi le ragioni della scelta del Lido come sede della prima Mostra d’Arte Cinematografica: “E’ la più bella spiaggia del mondo, franca, spensierata, allegra, senza malinconie e senza complicazioni. Ogni sera dallo Chez Vous e dalle Folies, dal Luna Park e dal Palazzo del Mare, da dieci alberghi e da venti caffè, miriadi di orchestrine lanciano senza risparmio a pien’aria ritmi sincopati, simpaticamente aggressivi e trine leggere, intessute di tanghi e walzer lenti. E’ tutto fastoso e ultragiovanile”. I cinematografari di tutto il mondo accorrevano in massa alle prime edizioni del Festival. Il richiamo della mondanità, la maestosa terrazza dell’Excelsior con pista di pattinaggio e tiro al piattello, la spiaggia bianca con le elegantissime “cabanas”. Turismo d’élite, cosmopolitismo, glamour, star di Hollywood: c’era insomma tutto quello che serviva per celebrare il cinema. 

 

Ed è qui a Venezia che si comincia a prenderlo sul serio come una forma d’arte che non dovrà avere più complessi di inferiorità nel parnaso della Biennale. Le Mostre degli anni Trenta sono quelle di una memorabile proiezione di “Grand Hotel” con la Garbo, John Barrymore e Joan Crawford sulla terrazza dell’Excelsior, delle prime bandiere rosse dei film sovietici che sventolano sopra il Lido, dei film della Cines di Emilio Cecchi, del cinema coloniale che esalta l’impresa africana, del Duce a petto nudo nei cinegiornali Luce e di “Scipione l’africano”; ma anche del “Trionfo della Volontà”, del culto di Leni Riefenstahl, vera star del Terzo Reich, e dello scandalo di “Exstase”, film che lancia la luminosa carriera di Hedy Lamarr: l’Osservatore Romano va su tutte le furie, Mussolini chiede di vedere il film, ci pensa su, e davanti a Lamarr che nuota nuda sposa quindi le ragioni della Biennale (“Extase” tornerà restaurato alla Mostra del 2019,  quando Hedy Lamarr ormai non è solo una delle più belle attrici di tutti i tempi, ma anche l’inventrice di un sistema di rilevamento di siluri radiocomandati, antenato del gps e del wifi, utilizzato dagli americani durante la Seconda guerra mondiale e nella crisi di Cuba, una storia incredibile immortalata in “Bombshell. La storia di Hedy Lamarr”, documentario di qualche anno fa). A Venezia in quegli anni la critica cinematografica inizia a prendere sempre più spazio su quotidiani e riviste. “Venezia servirà a legittimare questa nuova figura giornalistica”, scrive Brunetta, “a stabilizzarne, valorizzarne e legittimarne la presenza”. 

 

Di quelle prime edizioni restano però epiche le cronache “stralunate” di Bruno Barilli, critico per caso, inviato da Longanesi per Omnibus con preghiera di parlare anche un po’ dei film. Lui si lancia soprattutto in digressioni sul Lido, i turisti, Marlene Dietrich che mette in subbuglio piazza San Marco. La rubrica si chiama “Il sorcio in gondola”, rielaborazione del “sorcio nel violino”, cui Barilli affidava i suoi commenti musicali. Sono pezzi da mandare a memoria: “Venezia rigurgita, colma di forestieri. Troppi arrivi, troppi treni, troppi piroscafi, troppo sole, troppo orgasmo. L’industria alberghiera è sopraffatta dalla clientela. Tutto sommato la situazione è difficile”. Nel 1932 alla Mostra ci sono venti giornalisti. Dagli anni Novanta si viaggia sui duemilacinquecento accreditati. Ma già nel primo Dopoguerra, “non fanno che lamentarsi della fatica, della noia di vedere tanti film e nessuno confessa di non capire l’inglese” (da un pezzo d’epoca di Gilberto Loverso su “Film”). Siamo già alla trasformazione del critico, “da fortunato turista a condannato a morte per asfissia di immagini”. 

 

Nel bildungsroman del cinéphile italiano è un rito iniziatico: le zanzare, i traghetti, la separazione tra classi giornalistiche e detentori di accrediti

 

Nel bildungsroman del cinéphile italiano Venezia è un rito iniziatico costellato di prove insidiose: le fameliche zanzare del Lido, i traghetti ricolmi di gente, la rigida separazione tra classi giornalistiche e detentori di accrediti: l’inviato del quotidiano all’Excelsior, freelance e blogger in appartamentino open space uso cucina, umido, triste, con affitto carissimo e lontano da tutto. Nei casi più disperati: tenda e campeggio a San Nicolò. I veneziani guardano il giovane critico come un invasore, anche perché sanno già che di soldi ne farà girare pochini. Il cibo è un altro problema: c’è la pedana con panini di polistirolo, lo spaccio di generi alimentari in Via Sandro Gallo, poi chioschetti sparsi dove i sandwich si chiamano “Gregory Speck”, “Al Panino” o “Bread Pitt”. Nessun accesso alle terrazze sul mare degli Hotel che restano per lui sbarrate. Solo qualche chiringuito lungo il Lido per bere spritz annacquati fino a notte fonda e parlare dell’ultimo Cronenberg, di Miyazaki, della “new wave filippina”. Però che entusiasmo! Che verve! A Cannes, dove funziona tutto a meraviglia, non è mica la stessa cosa (un buon campionario di disagi veneziani è immortalato nella rubrica che Alberto Crespi teneva sull’Unità, “Ca’ Tastrofe”, ripresa qui e là da Brunetta). 

 

Ma questa storia veneziana di Brunetta, che si affianca alla sua epica “Storia del cinema italiano”, pubblicata in più volumi e riedizioni a partire dalla fine degli anni Settanta, è anche l’occasione per ricordare come Hitchcock e Fellini fossero sistematicamente stroncati alla Mostra. Se Venezia apriva il Festival con Hitchcock e “La finestra sul cortile” era una “vergogna”, non si “onorava l’arte” (“il mestiere qui si rivela come la più pericolosa delle trappole per un autore incapace di dar vita a personaggi e situazioni permeati di una solida umanità”, scriveva il Vate della critica marxista, Guido Aristarco; mentre Dino Risi, come al solito, aveva già capito tutto: sul Giornale d’Italia, a proposito di “Io ti salverò”: “La regia di Hitchcock è nel suo genere perfetta, incatena lo spettatore dal principio alla fine”).

 

Le Mostre di Carlo Lizzani, di Marco Müller in tenuta coreana o di Alberto Barbera escono dalle sabbie mobili, rimettono Venezia sul mercato

 

“La memoria della critica negativa a Fellini”, scrive Brunetta, è invece “vasta e assai rappresentativa non solo dei livelli alti a cui aspirava la critica, laica e non degli anni Cinquanta”, quanto della “porca rogna italiana del denigramento di noi stessi, come diceva Gadda”.  
Dopo il subbuglio sessantottesco, Venezia si avvita su se stessa, piomba in una lugubre decadenza, con nuove parole d’ordine: decentramento, inclusione, territorio, niente premi, niente graduatorie, andare al popolo. Il popolo però non gradisce le venti inquadrature fisse di corridoi d’albergo di Chantal Akerman: rumoreggia, fischia, scoppia in sonore risate liberatorie lì dove dovrebbe casomai gustarsi i silenzi. “Non si sa se la reazione della gente è dovuta al fatto che il film è fatto da una donna o semplicemente perché è un film formale”. Del resto, ormai i film non vengono più selezionati col “presuntuoso criterio di un tempo che pensava di poter mettere insieme il meglio della produzione mondiale”, dicono Carlo Ripa di Meana e Giacomo Gambetti presentando Venezia ’75. Dunque ben vengano i film brutti. E se non capite è volpa vostra. 

 

Ci vorranno molti anni per tirare fuori Venezia dalle sabbie mobili, rimetterla al centro del mercato, della stampa internazionale e della mondanità cinematografica. Ci vorranno le Mostre di Carlo Lizzani, quelle di Marco Müller in tenuta coreana o quelle di Alberto Barbera, che è un po’ la Mara Venier del Festival di Venezia, con nomine e rinomine che si succedono dal ’98 a oggi. Barbera svecchia Venezia, si smarca dall’equazione cinema d’arte-tortura, riconcilia il Festival con il glamour, le star, Hollywood, il cinema come grande spettacolo di massa, non solo d’élite. Avvia inoltre il “Venice Film Market” e il Biennale College Cinema per talenti emergenti. Il suo biglietto da visita è un Leone d’Oro alla carriera a Jerry Lewis, a Venezia ’99, con cui scontentò quasi tutti, a cominciare dal suo mentore, l’austero e severissimo professor Rondolino. Fu invece un gran successo, con conferenza stampa di Jerry Lewis trasformata in “happening di quaranta minuti a ruota libera”. Il resto è il presente e il futuro di un Festival che fa i conti col tracollo delle sale, lo streaming, Cannes, Berlino, Toronto, Locarno, gli Oscar, i supereroi, la pandemia e una generale, forse irreversibile disaffezione del pubblico per il cinema. Nel 2004, l’annuncio di un imminente Festival a Roma, come una fronda interna all’Italia cinematografara, da tenersi grosso modo nelle stesse date di Venezia, fece temere il peggio. C’era il timore di una Festa romana che avrebbe oscurato la Mostra. Veltroni che trascina tutti all’Auditorium di Roma nord. Profetico Massimo Cacciari: “Venezia sarà surclassata”. Sappiamo come è andata. Venezia può continuare a dormire sonni tranquilli. Sperando che il cinema continui a esserle riconoscente.